Corte Costituzionale su ex-Cirielli

 

La ex-Cirielli supera l'esame della Corte Costituzionale

Corte Costituzionale sentenza 14.06.2007 n° 192

 

Altalex, 5 luglio 2007. Nota di Carlo Alberto Zaina

 

Lo schieramento interpretativo che reputa come sussistente il carattere di assoluta facoltatività della recidiva prevista dall'art. 99, comma 4, c.p., orientamento giurisprudenziale che comporta la naturale conseguenza che, ove il giudice non provveda all'applicazione dell'aumento correlato a tale aggravante, si debbano ritenere esclusi gli effetti ostativi e preclusivi al giudizio di prevalenza di attenuanti – quali quelle di cui all'art. 62 bis c.p. o 73 comma V dpr 309/90 – per mancanza del presupposto negativo, arruola a pieno titolo ora anche la Consulta.

Con la sentenza 4-14 giugno 2007, n. 192 (Presidente Bile – Relatore Flick) il giudice delle leggi, infatti, pur rigettando plurime questioni di legittimità costituzionale involgenti l'impianto normativo sortito dalla promulgazione della L. 251/05 ed indirizzate, sopratutto, a sollevare il sospetto nei confronti del meccanismo di limitato bilanciamento previsto ora dal nuovo art. 69 comma 4 c.p., offre [seppure ricorrendo a tutte le cautele del caso ed adoperando tutti i condizionali possibili] una lettura di tale norma – e sopratutto dell'art. 99, comma 4, c.p. - che si pone come alternativa, nuova, utilmente idonea a superare i dubbi sollevati dai giudici di merito, ma – ed è ciò che maggiormente conta – permette di colmare i gravi danni che l'ex-Cirielli, ad oggi, ha provocato.

Abbiamo, così, finalmente un ulteriore autorevole avvallo in relazione al giudizio di facoltatività che deve permeare l'istituto della recidiva reiterata di cui al co. 4° dell'art. 99 c.p., ponendo i crismi della differenziazione di siffatto istituto rispetto a quello contenuto nel successivo comma 5° del medesimo articolo.

Per paradosso, il sigillo giurisprudenziale della Corte Costituzionale è apposto con una sentenza che respinge in toto tutte le questioni di incostituzionalità che da ogni latitudine del nostro paese, la magistratura di merito aveva devoluto al prudente giudizio della Consulta.

E', probabilmente l'esplosione di grande irritazione giuridica – concretatasi con un florilegio di plurime ordinanze di rimessione al giudice delle leggi – che ha indotto la Corte Costituzionale ad un intervento palesemente regolatore e profondamente interpretativo della materia, cioè ad un giudizio che non si è limitato solamente a considerare se fosse o meno sanzionabile la norma denunziata, per contrasto con la legge fondamentale, ma a verificare al di là del mero contrasto, la reale e complessa natura dell'istituto della recidiva, per trarre, poi, concreti indirizzi di quotidiana applicabilità.

L'approdo dei giudici della Consulta non appare, inoltre, immune da influenze derivate dalle recenti prese di posizione della Suprema Corte di Cassazione, che proprio nella scorso maggio ha avuto modo di affrontare e focalizzare il problema, seppur giungendo a soluzioni specifiche del tutto opposte.

In questa querelle insorta fra la IV Sezione che, con la sentenza n. 16750/07 dell'11 aprile – 3 maggio 2007, ha svolto funzione e ruolo di apri pista, nel senso di valorizzare le ontologiche e giuridiche differenze che emergono fra il comma 4° ed il comma 5° dell'art. 99 c.p., riconoscendo alla prima norma un sacrosanto carattere di facoltatività e la VI Sezione che, per converso, con la pronunzia n. 18302 del 27 Febbraio – 11 Maggio 2007, si è mantenuta in perfetto allineamento con quel rigido orientamento che, per ius receptum, investe il giudice di un fermo ed automatico dovere di fredda applicazione della recidiva, che sia stata correttamente contestata all'imputato dall'accusa, si viene ad innestare come fattore dirompente la posizione della sentenza 4-14 giugno 2007, n. 192, in esame.

I giudici delle leggi, pur negando il sospetto di incostituzionalità denunziato dai remittenti e consistente nell'osservazione che la nuova formulazione dell'art. 69 comma 4 c.p. abbia introdotto una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto, pongono l'accento sul tenore della struttura letterale dell'art. 99 comma 4 c.p., derivando da tale disamina la sicura certezza che “l’unica previsione espressa di obbligatorietà della recidiva, presente nell’articolo 99 c.p., è quella racchiusa nell’attuale quinto comma”.

Detta norma che si situa nella sistematica della norma in questione “dopo la regolamentazione di tutte le forme di recidiva” sancisce che, «se si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto».

Prosegue da tali premesse, pertanto, la Corte ritenendo che si debba desumere circoscritta a tale ipotesi l'obbligatorietà della recidiva e del relativo aumento di pena e, quindi, che consequenzialmente tutte le ulteriori previsioni che non vengano contemplate in tale ambito – e quella di cui al comma 4° dell'art. 99 c.p. è tra esse - per il legislatore abbiano mantenuto il carattere della facoltatività.

A cascata, deriverebbe, dunque, la considerazione che la circostanza aggravante della recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, disposizione normativa che contiene un elenco di reati ritenuti, sotto plurimi fini, di particolare gravità e allarme sociale.

Tali considerazioni sono suffragate, inoltre, dal superamento da parte della Consulta di un limite, per cosi dire, di natura filologica che induceva a ritenere che la tesi dell'obbligatorietà dovesse essere indiscriminatamente applicata a tutte le ipotesi di recidiva reiterata.

L'art. 4 della L. 251/05 novativo l'art. 99 c.p. utilizza, nel proprio testo la coniugazione indicativa ed il tempo presente del verbo essere – è – che subentra, dunque, al verbo “può” usato nel testo precedente e mantenuto tuttora nei primi due commi dell'art. 99 c.p..

Tale modifica – secondo i giudici della Corte - in parallelo con la manutenzione terminologica di cui ai commi 1 e 2 citati, avrebbe potuto indurre a ritenere che l'intervento del legislatore, nel senso della reformatio in pejus che introduce il principio dell'obbligatorietà - sia mirato esclusivamente verso la forma della recidiva reiterata.

Tale rischio di deriva peggiorativa del trattamento sanzionatorio conseguente alla contestazione e declaratoria della recidiva, viene, peraltro, superato da un artifizio interpretativo nel senso che – a parere della Consulta – il verbo declinato all'indicativo presente, cioè il termine “«è» si riferisca, nella sua imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 99. c.p., il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento stesso”.

Non estraneo a tale conclusione risulterebbe l'osservazione che essendo la recidiva reiterata null'altro che un sotto categoria del genus previsto dall’art. 99, comma 1, c.p., non si ravviserebbe alcuna modifica strutturale dell'impinato normativo, che dunque, non perderebbe quel connotato di facoltatività che lo contraddistingue, sicché, una volta ribadito tale profilo, tutti i commi successivi si limiterebbero “a derogare alla relativa disciplina solo in relazione all’entità degli aumenti di pena”.

La possibilità di addivenire ad una lettura sostanzialmente differente da quella proposta dai giudici remittenti e, sopratutto, conforme ai principi costituzionali, è opzione che, a parere della Consulta, sgombra il campo da timori di irrazionalità ed irragionevolezza della norma.

La sentenza, infatti, esclude che il giudice di merito possa lamentare la sussistenza di un vulnus nella realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena e che sia, di fatto, introdotto un «automatismo sanzionatorio», correlato ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato.

Si addiviene ad un così radicale ribaltamento di prospettive, proprio considerando come concretamente possibile la soluzione già introdotta dalla Sez. IV con la sentenza 16750/07 citata, e cioè, attraverso l'applicazione dei canoni invocabili in tema di recidiva facoltativa, si che il giudice sarà facultizzato ad applicare l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata “solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’articolo 133 c.p. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo”.

Viene, quindi, recuperata appieno, sia sul piano formale che su quello materiale, l'applicazione della regole generale che introduce il potere di dare corso al giudizio di bilanciamento tra circostanze tra loro eterogenee, senza che esso soffra limitazioni predeterminate sulla base di una asserita presunzione assoluta di pericolosità sociale.

Il recupero provocato dal combinato intervento della Consulta e della Suprema Corte (perché è innegabile la correlazione in parallelo, quantomeno ermeneutica, tra le due sentenze) si estende, inoltre, anche alla piena discrezionalità tecnica del giudice, il quale ritorna in una posizione di centralità rispetto al meccanismo proprio del giudizio di valenza di cui all'art. 69 segg. c.p..

Si impone, pertanto, in capo al giudice il potere-dovere di penetrare lo spessore della recidiva in relazione sia alla personalità del soggetto imputato, alla portata del fatto e rispetto a qualsiasi altro elemento che possa assurgere a valore nel contesto dell'art. 133 c.p., onde inferire da simile valutazione l'idoneità della aggravante de qua ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede.

E' di tutta evidenza il risultato di questa operazione ponderativa preliminare, atteso che:

  1. laddove la recidiva legittimi e suggerisca l'adozione di aumenti di pena si avrà effettiva elisione, in via di automatismo, del valore delle circostanze attenuanti,

  2. ove si escluda la possibilità di aumenti di pena, la recidiva rientrerà nel gioco proprio del bilanciamento, potendosi, così permettere alle eventuali attenuanti di dispiegare in pieno positivi effetti.

L'affermazione di facoltatività della recidiva, secondo la Consulta, poi, non può essere circoscritta solo all'effetto concernente la quantificazione della pena; in questo il giudice delle leggi va oltre criticando i remittenti, colpevoli di non essersi posti, comunque, il problema concernente il reale effetto della recidiva.

In pratica afferma la Corte che non sia concettualmente concepibile ed ammissibile, pena una palese ed insanabile contraddizione in termini, ammettere che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall’altro manifesti efficacia comunque inibente in ordine all’applicazione di circostanze attenuanti concorrenti ad effetto comune o speciale.

Prosegue la sentenza, affermando che, ove si accogliesse siffatta conclusione “ne deriverebbe la conseguenza, all’apparenza paradossale, di una circostanza “neutra” agli effetti della determinazione della pena (ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), nell’ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto “aggravante” – eventualmente, anche in rilevante misura – nell’ipotesi di reato circostanziato in mitius”.

L'insegnamento reso dalla Corte pare, dunque, chiaro ed inequivoco.

Non traggano in inganno le manifestazioni di evidente e doverosa prudenza, scelta determinata da quella che viene definita “..l’assenza di indirizzi consolidati sulle tematiche dianzi evidenziate (facoltatività o meno della “nuova” recidiva reiterata; conseguenze della facoltatività sul giudizio di bilanciamento) – assenza del tutto ovvia alla data delle ordinanze di rimessione (in quanto di poco posteriori all’entrata in vigore della novella) –“ che “è riscontrabile anche allo stato attuale, essendosi la Corte di cassazione espressa in modo contrastante nelle prime decisioni in materia”.

La Consulta ha espresso ed assunto, con la sentenza in questione, una posizione fin troppo netta, partendo – addirittura – da una critica lucida e senza sconti a quelle che erano – a parere dei maggiori osservatori – dubbi tutt'altro che infondati di costituzionalità.

Proprio attraverso la declaratoria di conformità alla legge fondamentale della novella del 2005 (che rimane comunque forma ed esempio di legiferazione discutibile e censurabile nella forma e nella sostanza), il giudice delle leggi fornisce una interpretazione che è solida e trova adeguato presupposto nel più volte citata sentenza 16750/07 del Supremo Collegio.

Si tratta, quindi, di una decisione che va salutata con favore anche perché aiuta a rivalutare l'operatività di taluni istituti – uno per tutti la lieve entità di cui all'art. 73 comma 5° dpr 309/90 – che stavano subendo notevoli attentati nella loro quotidiana, applicazione con buona pace del principio di proporzionalità ed adeguatezza della sanzione rispetto al fatto.

Sia concessa, in conclusione, un'ultima chiosa.

Anche in Francia, attualmente, è in corso un dibattito notevole in relazione ai problemi dei delitti commessi dai recidivi.

In tale ordinamento pare si stia optando per una soluzione elementare e lineare consistente nell'elevazione obbligatoria del minimo di pena edittale, portandolo ad un terzo del massimo.

Vale, esemplificamente, a dire che se la pena per un reato, prevede un minimo di 15 giorni ed un massimo di 3 anni, la sanzione per il recidivo non potrà scendere, comunque, sotto l'anno, nel minimo.

Ovviamente nel caso il minimo di pena già ecceda il limite del terzo del massimo, in virtù del possibile riconoscimento di eventuali attenuanti la pena non potrà mai comunque scendere sotto tale invalicabile soglia.

Simile soluzione non crea cervellotiche interpretazioni, è lineare e non vulnera affatto il potere discrezionale del giudice. Perché mai opzioni del genere non vengono mai naturali al nostro legislatore?

 

Corte Costituzionale

Sentenza 14 giugno 2007, n. 192

Massima e Testo Integrale

 

 

Precedente Home Su