Rassegna stampa 15 giugno

 

Torino: uccise la moglie, 41enne rumeno si suicida in cella

 

La Stampa, 15 giugno 2007

 

Il rimorso per aver ucciso la propria moglie era troppo forte. Gheorghe Mititelu, 41 anni, ha scelto di soffocare quell’emozione infilando la testa in un sacchetto di cellophane, spegnendo il respiro poco a poco assieme alla propria vita. È morto così l’elettricista romeno condannato a 14 anni e 8 mesi di carcere (con seminfermità mentale) per aver ammazzato a coltellate la moglie Maria Magdalena, il 15 luglio 2005.

Colpita più volte, d’impeto. L’ultima volta, la lama ha squarciato la gola. Il figlioletto Luca di appena 3 anni era nella stanza accanto, nella palazzina in via Crevacuore 74. Ha udito le urla della mamma e poi l’ha vista immobile in una pozza di sangue.

Due anni dopo, Gheorghe ha deciso di uccidersi in cella. Nessuna spiegazione, soltanto un bigliettino con due parole: "Ringrazio tutti". Nessuna ironia. È l’ultimo gesto di distensione, un segno d’affetto per chi lo aveva accettato con quella colpa, tra le più pesanti da sopportare. Ma era lui a non riuscire più a reggere quel peso.

Dopo l’arresto (si era costituito il giorno del delitto), era stato ricoverato per un anno nel reparto psichiatrico del carcere "Lorusso-Cutugno". Nel tempo, le sue condizioni erano migliorate. Fino a ottenere l’inserimento in reparti assieme ad altri detenuti. Poi, è arrivato il lavoro. Come operaio e da qualche giorno in cucina. Sempre sotto controllo, con discrezione e continuità.

L’ultima visita ricevuta da Gheorghe risale a venerdì. "Sono andato a trovarlo e ho notato un notevole miglioramento nelle sue condizioni" spiega l’avvocato Valter Campini, difensore dell’elettricista nel processo per omicidio. E proprio a lui ha chiesto: "Mi porti il mio fascicolo, voglio leggere tutto quello che mi riguarda". La premessa: "Comincio a realizzare quello che ho fatto, ma quel giorno ero fuori di me, non capisco ciò che è accaduto". L’amore corroso dalla gelosia, dal sospetto di una relazione della moglie con il datore di lavoro. Realtà soltanto nella mente di Gheorghe. È tutto nel fascicolo del processo, assieme alle perizie che avevano giudicato l’elettricista "incapace di intendere e di volere" al momento del delitto e a quelle che avevano, poi, ridotto a "seminfermità" le condizioni mentali di Gheorghe quando uccise la moglie Maria Madgalena.

Mercoledì sera, l’elettricista ha fatto la seduta di fisioterapia programmata per un infortunio a una mano. Ieri mattina, ha fatto colazione con il compagno di cella in una sezione "Lavoranti" del carcere "Lorusso-Cutugno". Poi, la passeggiata in cortile con gli altri detenuti, il rientro in cella poco dopo le 11. Mezz’ora dopo, è arrivato il carrello con il pranzo. Gheorghe non ha risposto al detenuto addetto al trasporto delle vivande, che ha avvertito la polizia penitenziaria. In pochi istanti, sono arrivati agenti e il medico. Un’ora di tentativi di rianimazione, poi il certificato di morte. La cella è stata sigillata, come prevede la procedura. Dentro c’è ancora il fascicolo con la storia di Gheorghe. E del suo rimorso soffocato con un sacchetto di cellophane.

Giustizia: chiusura degli Opg, il progetto "slitta" a settembre

 

Il Gazzettino, 15 giugno 2007

 

La Regione Veneto chiede tempo. Aperto un tavolo di consultazione tra i ministeri della Salute e della Giustizia.

Tutto slitta a settembre, ed è una vittoria del Veneto. La lunghissima e circostanziata mozione presentata dalla Regione sulla chiusura degli ospedali psichiatrici criminali ha rimesso le carte in gioco. La riunione a Roma tra il Ministero della Salute e le Regioni che doveva sancire la morte degli ospedali psichiatrici criminali si è risolta con una proroga: Marco D’Alema, estensore del progetto, ha promesso che entro l’estate presenterà un piano più articolato e che la questione verrà affrontata da un Tavolo di lavoro costituito tra i due ministeri di Grazia e Giustizia e Salute.

Di fatto è stata accolta la mozione del Veneto che ha presentato un articolato documento, illustrato dal coordinatore regionale per la rete psichiatrica Silvio Frazingaro, nel quale si chiedeva prudenza, ma soprattutto uno slittamento della tempistica. Il Veneto era rappresentato anche dal dottor Ludovico Cappellari, segretario della Sezione Veneta della Società italiana di psichiatria.

Di fatto la mozione del Veneto poneva alcuni interrogativi per i quali si richiede una approfondita analisi: il primo riguarda il consenso, che non pare essere così ampio visto che la stessa Sip, nella persona del suo presidente Mariano Bassi, non ha posto tra le priorità la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari ed individua tempi e modalità diverse da quelle prospettate al Ministero, considerati nel lungo documento presentato quanto meno intempestivi.

Tredici i punti affrontati nel documento presentato dal Veneto e che ora è all’attenzione anche delle altre regioni. "Il problema della salute mentale in carcere e la questione degli ospedali psichiatrici giudiziari - è scritto nel documento - va posta al centro di specifici progetti da concordare con le Regioni e le Asl. Non sono chiari i vantaggi di una improvvisa accelerazione, con mutamento di rotta. Circa i tempi poi, pur condividendo che si tratta di un problema prioritario, è legittimo chiedersi se in questo momento sia davvero quello più urgente. Si tratta di costruire nuovi modi d’intervento e a dover ripensare il proprio modo di lavorare".

Ma la mozione del Veneto va anche oltre. "Nel documento presentato da D’Alema non sono indicati riferimenti culturali e scientifici relativi a quanto si sta facendo fuori dall’Italia, e non vengono riportate sperimentazioni specifiche del modello proposto che offrano una affidabile base operativa. Non risulta neppure attuato un tavolo tecnico, cui abbiano partecipato le varie componenti, tra cui le associazioni scientifiche o dei familiari, che abbia valutato i tempi ed i modi dell’operazione".

Non manca un accenno alle risorse. "Al di là di un generico rinvio alla prossima Finanziaria, non sono valutati né esplicitati i fondi necessari da mettere a disposizione delle Regioni - viene indicato nel documento - Non dobbiamo poi dimenticare che tutti gli interventi previsti comportano una riorganizzazione dei servizi esistenti ed una ridefinizione delle risorse impegnate".

Le considerazioni avanzate dal Veneto riguardano anche i rischi che possono derivare da una dismissione dei 1600 pazienti (in prima battuta è previsto che ne escano subito 400) non accuratamente elaborata. "Confini poco chiari - scrive il Veneto - per cui tornano a mescolarsi nella opinione pubblica i concetti di malattia mentale e di pericolosità. Si corre poi il rischio di creare ancora una volta più psichiatrie: una pubblica cui compete la custodia e le patologie gravi dei soggetti svantaggiati ed emarginati ed una privata che si occupa di tutto il restante disagio mentale".

Attualmente risultano ricoverati nei 5 Opg 73 cittadini residenti nel Veneto, 66 maschi e 7 donne, dei quali la maggior parte (83,5 per cento) ospitata nei tre istituti che sono destinati, secondo la proposta D’Alema, a chiudere gli accoglimenti e a provvedere quanto prima alle dimissioni.

Gli ospedali psichiatrici giudiziari attualmente accolgono diverse tipologie di pazienti con varie posizioni giuridiche. Ad esempio prosciolti per vizio totale di forma; condannati perché giudicati capaci di intendere e di volere, ma che durante l’esecuzione della pena sono colpiti da infermità; condannati, ma con vizio parziale di mente e dichiarati socialmente pericolosi; imputati, detenuti in ogni grado del giudizio e condannati che vengono sottoposti ad osservazione psichiatrica per un periodo non superiore a 30 giorni, oltre che imputati in attesa di perizia psichiatrica.

Giustizia: "macelleria Diaz"... allora i giornali avevano ragione

 

L’Unità, 15 giugno 2007

 

La "macelleria messicana", evocata dal vicequestore Michelangelo Fournier a sei anni dai "fatti", sarà una immagine ardita nella sua sanguinaria esoticità e sarà anche una citazione storica (da Ferruccio Parri, ci insegnano, che la usò a proposito di piazzale Loreto), ma è solo la banale realtà per chi si imbatté nelle radiose giornate del G8 berlusconiano, quando il "premier" andava per vicoli a sistemare limoni e a sanzionare mutande stese ad asciugare nei pressi di Palazzo Ducale e quando molti di noi, giornalisti dentro e fuori la "zona rossa", e moltissimi cittadini genovesi e molti altri che dovettero assistere alla messa in opera di una trucida guerra.

Avrebbero voluto manifestare le loro opinioni (che, malgrado tutto, manifestarono) e invece si trovarono questa guerra animata da uno spirito, che, attraverso un tenue aggettivo, si potrebbe definire "vendicativo". Nello spirito che animò ad esempio l’avvocato romano Cesare Previti, quando pronunciò la famosa minaccia postelettorale: "Ed ora non facciamo prigionieri". Non scherzava. O nello spirito con il quale qualsiasi fascista o postfascista di governo (presenti) avrebbero potuto sospirare: "Ed ora facciamola pagare a questi rossi".

Facendola pagare a Carletto Giuliani, ucciso, a centinaia di giovani, malmenati, a migliaia di manifestanti (da Mani tese ai Beati costruttori di pace), ai genovesi assediati, persino ai giornalisti che erano lì in strada a vedere e a prender nota.

Sicuramente hanno visto, perché la macelleria del vicequestore Fornier andò in onda in un cinemascope, come erano non solo le scuole, ma, prima e soprattutto, le strade e le piazze di Genova, i grandi viali a mare, gli stradoni a ridosso della stazione di Brignole e la caserma (quella di Bolzaneto, perché anche dei pestaggi, degli insulti, delle "faccetta nera" gridate contro i fermati si seppe tutto subito).

Siamo stati testimoni di qualcosa, che, per cavarsela, si potrebbe definire follia, perché, avendo visto tutto, ma proprio tutto, è ancora difficile capire come quel disastro politico, culturale, umano, quel disastro della giustizia e del buon senso (diciamo pure "dell’ordine pubblico") sia potuto accadere.

Perché qualcuno, ad esempio, prima di dare gli ordini in strada, abbia istruito centinaia di agenti, di carabinieri, di finanzieri (proletari come noi: verrebbe quasi da citare Pasolini) alla cupa barbarie del manganello sulla testa di chiunque si presentasse a tiro. Perché qualcun altro abbia insegnato ad un prestante finanziere a travestirsi da robo-cop cinematografico, con la maglietta nera, i muscoli in evidenza, le ginocchiere e i gambali neri, sulle scarpette da corsa adidas o nike (altro che divisa d’ordinanza), alla testa di un drappello di colleghi.

I ricordi e le immagini sono infiniti. In piazza Alimonda, pochi istanti prima che Carletto Giuliani finisse sotto le ruote di una camionetta, i carabinieri sui blindati che incitavano altri carabinieri sui blindati al grido "fagliela vedere, fagliela vedere", con lo stesso entusiasmo che si misura su un circuito di formula uno.

Oppure il giorno dopo i venti blackbloc che lanciavano sassi a un centinaio di metri dagli edifici della Fiera presidiati e che nessuno si preoccupò di fermare (sarebbe stato facilissimo) e poi i reparti che si muovevano invece compatti contro il corteo che scendeva dalla parte opposta, verso Boccadasse, senza minacciare nessuno. O i ragazzi con le bandiere della Fiom che chiedevano protezione a me in virtù di quel rettangolo "stampa, stampa" che mi ballava sul petto.

Alla fine di tutto, dopo il sangue e le ciocche di capelli strappati lungo le scale, quel tappeto di biscotti, dentifrici, spazzolini da denti, pettini, maglie, asciugamani sul pavimento della palestra, dopo la macelleria notturna alla scuola Diaz, la conferenza stampa dai carabinieri e l’esposizione dei corpi di reato. Qualche passamontagna, le magliette nere , i birilli dei giocolieri, c’erano anche le bottiglie incendiarie (poi si seppe: un’invenzione, un trucco), ma soprattutto ricordo il fondo di una bottiglia di plastica, quelle per l’acqua, ricolme di chiodi da carpentiere, come si usa in qualsiasi cantiere: un’ala della scuola Diaz era in restauro ed era un cantiere. Probabilmente chi aveva ideato quella "strategia d’ordine pubblico" non s’era immaginato tanti spettatori: i giornalisti certo, poi i genovesi che raccontarono ai giornalisti (furono i condomini di uno stabile accanto alla scuola Diaz a rifarmi la cronaca dello sfondamento del cancello, delle urla, delle botte), le televisioni locali e una in particolare, che pagata per seguire le scenette ufficiali del G8 reso conto ogni attimo di quelle violenze, quasi sempre in diretta, Radio popolare e le altre radio, infine i manifestanti.

In corteo nelle mani di migliaia di persone comparvero le videocamere digitali e le macchine fotografiche digitali. Mai viste tante e fu una sorpresa: quella rivoluzione tecnologica era all’inizio, ma servì ugualmente per fissare tutto. Le prove, tutte le prove. Le prove sufficienti. Invece i processi si trascinano, l’attenzione s’è rarefatta, ogni tanto una fiammata. Questa volta, all’udienza numero novantasei, è stato necessario il pentimento di Michelangelo Fournier a ravvivare il clima. Altre cose importanti i tribunali avevano accertato: ad esempio il falso delle bottiglie incendiarie. Ma sei anni sono tanti, anche se la scena politica non è poi molto mutata. Macellerie del genere non si sono più viste: ci sarebbe da riflettere.

In queste ore, molti parlamentari hanno invocato la costituzione di una commissione d’inchiesta, per stabilire le responsabilità nella catena di comando, dal capo della polizia, Gianni De Gennaro, nominato nel 2000, in giù, Canterini, il capo della celere romana, Gratteri, La Barbera (che è morto) e gli altri. Sono ventinove gli agenti e i funzionari di polizia accusati di calunnia, falso, lesioni gravi, abuso d’ufficio per l’irruzione alla scuola Diaz. Per ora sono state più le promozioni che le bocciature o le condanne. Il ministro

Scajola si dimise per aver insultato il giuslavorista Biagi, assassinato dalla Br, non per i giorni neri di Genova. Francamente, pur trovandomi tra quelli che hanno visto tutto, non riuscirei a chiudere i miei giorni di Genova, leggendo della condanna di qualche poliziotto.

Viene il sospetto che loro, i poliziotti, i loro conti li stiano chiudendo e che il pentimento di Fournier sia una mossa. Mi mancherebbero sempre la politica e i nomi dei politici, quelli che firmarono la cambiale in bianco e quelli che semplicemente "aizzarono".

Giustizia: dopo il G8 di Genova... la "macelleria" della politica

 

Il Manifesto, 15 giugno 2007

 

Il senso di appartenenza a un corpo di stato e la carità di patria sono due brutte bestie, non estranee a quello che Hannah Arendt definì, a proposito dei gerarchi nazisti, "banalità del male". Fa parte invece dell’imprevedibilità del bene il fatto che Michelangelo Fournier abbia tradito l’una e l’altra per amore di verità, ribadendo in aula, al processo sui fatti di Genova 2001, quello che già aveva detto nel suo primo interrogatorio, "Macelleria messicana", ecco cosa fu, parola del vicequestore, l’agguato alla scuola Diaz.

"Metodi cileni", commentò all’epoca Massimo D’Alema, accompagnato da pochissimi e meritori esponenti diessini ma nel silenzio tombale del grosso dell’Ulivo. Àbsit iniuria verbis: sarà facile, per i post-coloniali latino americani di oggi, definire d’ora in poi "metodi italiani" eventuali efferatezze in casa loro, E del resto, dopo il massacro della Diaz e le torture di Bolzaneto, fu per primo il presidente del Senegal a dirsi esterrefatto che lo stato di diritto fosse in Italia meno solido che in casa sua.

I parlamentari italiani, invece, a larghissima maggioranza lo ignorarono finché poterono. La macelleria risultava dettagliatamente dalle cronache: sangue, ciuffi di capelli strappati, oggetti personali fuoriusciti dagli zainetti abbandonati, pianti, paura di morire, ferite sui corpi e lividi nelle mentì fu ciò che vedemmo, chiamati a testimoni dai ragazzi sopravvissuti al pestaggio quella lugubre notte. Ma tornati a Roma, poco o niente dello stato d’eccezione sperimentato sulla pelle a Genova sembrava turbare la normalità del palazzo, il centrodestra di governo militava per il teorema berlusconiano della colpa del movimento.

Il centrosinistra d’opposizione era più preoccupato di scongiurare il ritorno dei fantasmi "violenti" degli anni 70 che di denunciare la rottura dello stato di diritto. Altro che intercettazioni: se c’è una data della morte della rappresentanza in Italia, è in quei giorni che va fissata.

Ci volle l’intenso agosto della commissione parlamentare d’indagine, le audizioni dei leader del movimento, l’ostinazione degli esponenti Verdi e Prc (che a Genova c’erano stati) nel lavorare ai fianchi chi nella sinistra moderata era in ansia più per le sorti di Gianni De Gennaro che per l’accaduto, perché la nebbia su Genova si dissipasse.

Molte verità sono depositate e documentate nelle due relazioni di minoranza, dell’Ulivo e di Rifondazione, di quella commissione. Abbattuta in diretta, il pomeriggio dell’11 settembre, dagli aerei kamikaze puntati contro le Twin Towers. Il teorema della colpa, a quel punto, venne riscritto su scala planetaria Genova fu dimenticata, il garantismo ritornò peloso, i magistrati vennero lasciati a lavorare nell’ombra, i testimoni a elaborarsi il trauma ciascuno a casa propria, o in un movimento costretto da allora a occuparsi più della guerra globale che delle sue prove generali genovesi.

La deposizione di Michelangelo Fournier non è solo un atto morale dovuto e un’ammissione di responsabilità. È una rivalsa della memoria, che chiama ciascuno, la politica per prima, alle proprie responsabilità. Sangue, pianti, paura: quelle immagini tornano a scorrere in tv e ci interpellano. C’è chi chiede, e non da oggi, un’altra commissione parlamentare, con poteri giudiziari. C’è chi toma a presentare il conto al capo della polizia. Sono cose buone e giuste, ma prima ce n’è un’altra più buona e più giusta e più urgente: riaprire il fascicolo di Genova nel dibattito pubblico. Fu una macelleria Lasciò molte ferite. Quelle ferite sono ancora aperte, come labbra che aspettano di dire quello che non possono tacere.

Giustizia: lasciate Pribke alla vendetta di Dio, di Lidia Menapace

 

Liberazione, 15 giugno 2007

 

Non sono intervenuta ieri sul caso Priebke perché bisogna lasciare alle emozioni il tempo di sedimentare: la mostruosità del personaggio consiste, ancor più che in quello che ha fatto, nella sua visibile convinzione di essere nel giusto: l’espressione orgogliosa, la postura diritta, lo sguardo sprezzante verso tutti. Mi ha sempre fatto venire in mente un famoso versetto della Bibbia: "la vendetta è mia, dice il Signore".

Ecco, Priebke è uno da lasciare, per così dire, alla vendetta del Signore. In termini giuridici gli antichi romani dicevano questo stesso disgusto etico e sentimento di mostruosità con un’espressione specifica: "Si pater filium ter venum-darit, sacer esto", se un padre ha venduto tre volte suo figlio sia sacer, cioè esecrando, abbandonato alla vendetta degli Dei. Ricordo che il giorno delle Fosse Ardeatine, Priebke si rivolse anche a uno dei bolzanini appartenente al battaglione contro il quale era stato eseguito l’attentato di via Rasella dicendogli: "Hanno ammazzata i tuoi, sparagli!". Il bolzanino, che è ancora vivo, gli rispose: "Questi non mi hanno fatto niente, al mio paese non capirebbero".

E non accettò dì sparare. Priebke non aveva difficoltà a trovare altri, e la cosa fini lì. La morale di questo episodio è che i mostri campano sul molti, moltissimi mostriciattoli vivi e accomodanti che non gli dicono mai no. C’è qualcosa di molto saggio nella forma con cui gli antichi affrontavano gli atti di straordinaria crudeltà: sia nel testo sacro, che nei testi giuridici il rinvio alla divinità significa una cesura e una sospensione. Come dire che di fronte a certi eventi bisogna segnare un distacco, un rifiuto, una chiusura di discorso. Qualunque risposta che sembri voler pareggiare i conti non solo è impossibile, ma ha anche il grave difetto di prolungare la stessa catena di orrori. Per questo nel diritto non viene mai chiesto alle vittime di dare un giudizio sulla pena, ma il giudice è per l’appunto una figura terza.

In ogni caso si vede che questi eventi possono essere adeguatamente giudicati solo nella storia, per essere correttamente elaborati in un codice di etica politica.

Giustizia: Roma; ricerca sul suicidio tra i detenuti minorenni

 

Redattore Sociale, 15 giugno 2007

 

E sono più gli italiani a tentate di togliersi la vita. Indagine su 77 ragazzi dell’Istituto di Casal del Marmo (Rm) promossa dal Garante dei diritti dei detenuti e l’Università La Sapienza.

L’avevano arrestato per una scazzottata, a Pescara. Rumeno, 16 anni. In tre giorni è finito nel carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma, e lì, dopo nemmeno ventiquattro ore, si è impiccato. Tre anni dopo, lo stesso istituto di pena è il capofila di un progetto pilota per la prevenzione dei suicidi nei carceri minorili.

Il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Roma e l’Università La Sapienza hanno presentato oggi a Roma una ricerca condotta su 77 ragazzi del carcere di Casal del Marmo (Rm), passato alla cronaca per due suicidi nel 2001 e nel 2003. I giovani più a rischio sono quelli con disturbi psicopatologici e con lunghi periodi di detenzione. Critico il passaggio alle strutture per adulti. La ricerca sarà pubblicata e resa disponibile a tutti gli istituti italiani.

Il Garante, Gianfranco Spadaccia ha detto: "La diffusione del suicidio in carcere è un prezzo amaro che la società paga alla tutela della propria sicurezza. Il progetto ci ha dato strumenti scientifici per diagnosticare il rischio di suicidio. Si tratta di un test da utilizzare al momento dell’ingresso in carcere ma anche dopo un primo periodo di detenzione. Proporremo di estendere il monitoraggio in tutto il Paese". Messaggio raccolto dall’assessore alle Politiche del lavoro del Comune di Roma, Dante Pomponi, che ha augurato "un’azione capillare di studio in tutti gli istituti".

La ricerca, condotta tra novembre 2006 e marzo 2007, prevedeva l’utilizzo di due questionari per i 77 ragazzi detenuti nel periodo in esame. Il Maysi-2, un test dell’Università del Massachussets (Usa), e un secondo elaborato dalla Sapienza. I ragazzi, per il 71% maschi, erano di età compresa tra i 14 e i 18, per lo più rumeni (57%) e italiani (20,8%). Uno su tre analfabeta, il 40% aveva una licenza elementare e il 29% la scuola media.

In due casi su tre si trattava del primo ingresso in carcere. L’uso del test ha migliorato - sostiene la ricerca - la possibilità di riconoscere situazioni di rischio, in particolare con i minori zingari, jugoslavi e rumeni, le cui prese in carico sono aumentate tra il 50 e il 60% rispetto all’anno precedente. Tra i fattori di rischio, 49 ragazzi hanno dichiarato di provare depressione e ansia, 41 hanno avuto lamentazioni somatiche, 34 rabbia e irritabilità, 28 esperienze traumatiche, 19 ideazioni suicidarie e 13 problemi di abuso di alcool e droghe. Alta la correlazione tra diverse di queste aree. Soprattutto tra ansia e depressione, ideazione suicidaria, rabbia ed irritabilità, abuso di alcool e droghe. L’ideazione suicidaria cresce al crescere dell’età.

Nell’Istituto di Casal Del Marmo è stata parallelamente condotta un’indagine su 7 casi di gravi tentativi di suicidio, di cui 2 riusciti, registrati negli ultimi anni nel carcere romano. Ne emerge che il rischio suicidario è più alto per la popolazione detenuta italiana: sei casi su sette. Un dato opposto all’80% di ragazzi stranieri tra i detenuti. Un dato che però rispecchia la più elevata frequenza di disturbi psicopatologici tra i detenuti italiani rispetto a quelli stranieri.

Nel marzo 2004, l’associazione "A buon diritto" pubblicò una ricerca curata da Luigi Manconi, Andrea Boraschi ed Elina Lo Voi, secondo cui il tasso di suicidi nelle carceri italiane, per adulti e minori, è 17 volte superiore al dato medio. Nel 2003 i suicidi erano stati 65, su 56.000 detenuti, con un tasso dell’1,1 per mille. Il 17,4% annunciati. Nel 2002, così come nel 2003, il 93% dei casi di suicidio si verificava in carceri sovraffollate, come erano tre istituti su quattro, prima dell’indulto.

Più a rischio i detenuti in attesa di giudizio, circa il 19% del totale, tra i quali si registrava nel 2003 il 31% dei suicidi. E il 62% dei casi di suicidio riguardava reclusi da meno di un anno. Di questi, uno su due si verificava nei primi sei mesi di reclusione e uno su sei nella prima settimana di reclusione. Già allora, la ricerca concludeva sottolineando il rischio maggiore per i giovani dietro le sbarre. Nella fascia tra i 18 e i 24 anni i suicidi sono quasi 50 volte più numerosi che tra la popolazione non reclusa.

Sardegna: recidiva allo 0,04% fra detenuti aiutati a reinserirsi

 

Agi, 15 giugno 2007

 

Degli ex detenuti sardi inseriti in "progetti di vita" grazie alla rete di connessione tra istituzioni-volontariato e impresa, solo lo 0,04% è tornato a delinquere. Un dato al di sotto della media nazionale dello 0,15%, che fa della Sardegna una regione all’avanguardia nel reinserimento di chi ha commesso un reato.

L’analisi dell’Ufficio esecuzione penale esterna del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria, dimostra l’importanza dei piani di inclusione come strumento di prevenzione della criminalità. Per approfondire le analisi territoriali e dei bisogni dei condannati, i dirigenti del Prap, tecnici del servizio sociale e del terzo settore seguiranno un corso di formazione sulle possibilità di creare percorsi di vita, finanziato dal Fondo sociale europeo - Pon Sicurezza, nell’ambito del progetto Asis destinato alle Regioni dell’ Obiettivo 1.

La Sardegna non è a digiuno in tema di inclusione sociale - ha spiegato la responsabile dell’Ufficio esecuzione penale esterna, Rossana Carta - nel corso del workshop di stamattina all’Hotel Mediterraneo, organizzato dal provveditore regionale Francesco Massidda.

Il 2 agosto 2006, la Giunta regionale, a soli due giorni dall’approvazione dell’indulto, aveva stanziato un milione di euro per i detenuti che hanno ritrovato la libertà. In gran parte, queste risorse sono state utilizzate per avviare percorsi formativi che si sono conclusi anche con molte assunzioni in cooperative, come la "San Lorenzo" di Iglesias, che ne ha assorbiti 40. In altri casi, i comuni hanno gestito i finanziamenti per aiutare coloro che avevano perso tutto: con tremila euro a testa, i meno abbienti hanno potuto pagare gli affitti arretrati, aggiustare una vecchia casa di campagna, saldare i debiti che impedivano la "rinascita".

"Il progetto Asis serve ad implementare il lavoro che stiamo già compiendo da diversi anni", ha precisato la Carta. "I risultati delle analisi sulla recidiva dimostrano l’efficacia dei progetti integrati, della rete tra servizi sociali, magistratura, volontariato e azienda per aiutare coloro che scontano la pena fuori dal carcere a ritrovare la loro vita". Prima del provvedimento di clemenza, i condannati ai quali erano state applicate misure alternative, e che perciò riuscivano ad avvicinarsi al mondo del lavoro, erano 1.264, diventati 223 dopo l’indulto, mentre oggi, al vaglio dell’Ufficio esecuzioni esterne ci sono ancora 508 casi.

Catania: resta in carcere 17enne accusato dell'omicidio Raciti

 

La Sicilia, 15 giugno 2007

 

Resta in carcere il 17enne accusato dell’omicidio dell’ispettore Filippo Raciti. Ma resta in carcere non per questo reato - per il quale il gip ha già revocato la misura restrittiva - bensì per quello di resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Lo hanno deciso i giudici del Tribunale per i minorenni (presidente Maria Francesca Priococo, a latere Umberto Zingales) che ieri hanno rigettato l’ennesima istanza di scarcerazione presentata dagli avvocati del ragazzo, Giuseppe Lipera e Grazia Coco. A quanto pare alla base del "no" ci sarebbero ripetuti episodi (una rissa in discoteca, una in carcere, il fatto di essere stato fermato tra tifosi facinorosi durante una partita del Catania con il Verona).

"Sconcertati" i legali del ragazzo che hanno annunciato ricorso contro questa decisione al Tribunale della libertà ricordando che, come minorenne, "è l’unico tifoso del Catania che è rimasto in carcere per i disordini del 2 febbraio". Secondo i penalisti per il 17enne incensurato "detenuto da quattro mesi", è "venuta meno l’accusa di omicidio volontario" e quindi "non esistono motivazioni per giustificare la continuazione di una così dura misura cautelare" anche alla luce "della disparità tenuta rispetto agli altri indagati per resistenza aggravata che sono già liberi da tempo o agli arresti domiciliari".

Il Tribunale che ha deciso di mantenere lo stato di detenzione del ragazzo sarà quello che il 5 luglio (giorno del 18° compleanno del giovane) dovrà celebrare il processo proprio per l’accusa di resistenza aggravata. Processo che avrebbe dovuto aprirsi domani ma che è stato rinviato al 5 luglio per l’assenza del sostituto tabellare e degli altri giudici che si trovano impegnati in un corso di aggiornamento organizzato dal Csm a Roma.

Terrorismo: Mastella; perizia su collegamenti Lioce con l'esterno

 

Adnkronos, 15 giugno 2007

 

Sarà effettuata una perizia tecnica per verificare se e in che modo esistano collegamenti tra Nadia Desdemona Lioce, militante delle Br-Pcc detenuta nella casa circondariale de L’Aquila, e persone esterne al carcere. La perizia verrà disposta il 18 giugno prossimo nel corso di un incidente probatorio chiesto dal pm. Lo ha reso noto al question time il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, riferendo le informazioni fornitegli dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a seguito del ritrovamento di una busta da lettere nella cella della Lioce, appartenente alle Br-Pcc, e sospettata di essere tra i mandanti delle minacce al presidente della Cei, monsignor Angelo Bagnasco.

Siracusa: la cura del verde pubblico è affidata ai detenuti 

 

La Sicilia, 15 giugno 2007

 

Un protocollo d’intesa è stato firmato ieri mattina a palazzo Ducezio tra il Comune, la Casa di Reclusione di Noto e Legambiente per la realizzazione di un progetto di pubblica utilità. L’attività di volontariato, per il recupero del patrimonio ambientale e culturale nel territorio netino, sarà svolta da cinque detenuti ospiti della Casa di Reclusione di Noto. Il progetto è stato redatto dall’ufficio comunale dei servizi sociali, dalla Casa di Reclusione, dalla Magistratura di Sorveglianza, dall’Ufficio penale esterno di Siracusa e dal circolo Legambiente di Noto.

Il protocollo è stato firmato dal sindaco Corrado Valvo, dal direttore del Carcere Angela Lantieri, dall’assistente sociale Giuseppina Ferlisi, dalla educatrice Francesca Alì e dal responsabile di Legambiente, Sebastiano Tiberio. Presente alla cerimonia anche l’assessore comunale ai servizi sociali Carmelo Tardonato e Vincenzo Belfiore di Legambiente.

"La Casa di Reclusione - ha sottolineato il sindaco Valvo - fa parte integrante del tessuto sociale del nostro terriotrio poiché molti suoi ospiti partecipano attivamente alle manifestazioni culturali che vengono organizzate nel corso dell’anno. Alla luce di ciò si è sentita l’esigenza di sperimentare la suddetta iniziativa, quale appunto il recupero del patrimonio naturale, utilizzando il lavoro di volontariato dei detenuti ai quali sono stati concessi dei permessi premio. La rinascita della città - ha concluso il sindaco - parte anche da queste iniziative di socializzazione per il reinserimento nella società di coloro che hanno espiato una pena".

"Il progetto - ha evidenziato poi la direttrice del carcere Angela Lantieri - è nato in seguito ad una telefonata con il Dipartimento nazionale penitenziario e dopo aver contrattato il Comune, l’Ufficio servizi sociali e la Legambiente". I detenuti iniziano la loro attività oggi e proseguirà nei giorni 15 e 16 giugno con il lavoro di giardinaggio alla villa comunale e con la cura del verde pubblico.

A godere del permesso premio, dalle 7 alle ore 16, saranno soltanto tre dei cinque detenuti, e, durante lo svolgimento del lavoro di volontariato saranno seguiti da un tutor. Il progetto, in via sperimentale, avrà la durata di mesi sei ed oltre al giardinaggio, all’attività di pulizia delle spiagge, delle aree naturali degradate nonché delle aree archeologiche, i detenuti si occuperanno dell’attività di sorveglianza nelle chiese e nei monumenti. Un progetto positivo ed utile per i detenuti sia per il loro reinserimento nella società che per la cittadinanza per il lavoro positivo che viene svolto.

Teatro: Faenza; "Premio Ustica" con i detenuti di Castelfranco

 

www.teatro.org, 15 giugno 2007

 

Il 15 giugno a Faenza va in scena Frammenti, Il progetto di reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti curato dal Teatro dei Venti insieme ad Arci - Comitato di Modena e con il sostegno di Provincia e Comune di Modena. Il Teatro dei Venti - Centro per la Ricerca Teatrale, circolo affiliato ARCI, ha superato le semifinali dell’importante Premio Ustica per il Teatro con "Frammenti" progetto di spettacolo con la partecipazione di, Gjoni Alkedi, Giorgio Ciavarella, Ciro Lista, Francesco Mitrano neo-attori che hanno passato gli ultimi anni della loro vita nelle prigioni italiane.

La finale si svolgerà a Faenza il 15 giugno dopo un percorso di selezione iniziato a fine 2006 che si è svolto attraverso tre tappe. Solo 8 progetti di spettacolo su oltre 200 presentati hanno avuto la possibilità di accedere alla fase finale che si concluderà con la proclamazione del vincitore il 27 giugno 2007 in occasione delle celebrazioni dell’anniversario della strage di Ustica cui il Premio è dedicato.

Chiunque sia interessato ad assistere ai 20 minuti del progetto che verranno messi in scena per la selezione finale può entrare gratuitamente e assistere agli spettacoli in scena il 15 giugno. In Teatro dei Venti sarà sul palco alle ore 12.00 nella sala della Casa del Teatro di Faenza (per informazioni: www.teatrodeiventi.it - 059.3091011 - 3897993351)

Il Laboratorio teatrale da cui prende spunto il progetto di spettacolo si è svolto grazie all’interessamento Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia e del Comitato ARCI di Modena. Dodici gli incontri a cadenza settimanale di tre ore e trenta minuti ciascuno. Tra i dodici e i quindici i partecipanti che nonostante i permessi, che li tengono periodicamente lontani dalla Casa Penitenziaria, hanno mostrato continuità, molto interesse e dedizione. Esercizi di gruppo, di concentrazione e di memorizzazione, sono stati affiancati da una riflessione costante sul loro vissuto e sulle necessità che li caratterizzano, cercando di utilizzare il teatro come elemento educativo e come mezzo di comunicazione, anche per persone detenute in un carcere.

Il Teatro dei Venti ha deciso di investire sul progetto anche per venire incontro alla passione e all’energia che i partecipanti al laboratorio hanno profuso durante l’esperienza. Vista l’eccezionalità del progetto e i riconoscimenti ricevuti anche le istituzioni modenesi come la Provincia e il Comune hanno deciso di contribuire alle spese da sostenere in vista dell’importante traguardo da raggiungere. In finale sono arrivati in 4, Gjoni Alkedi, Giorgio Ciavarella, Ciro Lista, Francesco Mitrano, che nonostante le difficoltà organizzative e burocratiche hanno messo tutto il loro impegno nel seguire e portare a termine quest’esperienza.

Durante la semifinale lo spettacolo è stato visionato dall’Osservatorio critico del Premio composto da esperti del settore e misurato con altri progetti provenienti da tutta Italia. Seppur amatoriali nella tecnica teatrale gli attori di "Frammenti" sono stati premiati per la capacità di trasmettere emozioni al pubblico presente in sala e di stupirli con l’energia della loro prova sul palco.

L’accesso alla finale ha comportato anche l’aumento delle questioni tecniche e organizzative tra le quali l’ospitalità dei partecipanti in permesso e l’allestimento dei 20 minuti di spettacolo che verranno messi in scena il 15 giugno. Le istituzioni e le organizzazioni di volontariato modenesi hanno risposto a questa richiesta e in particolare: la Provincia di Modena - Assessorato alle Politiche Sociali, il Comune di Modena, Paola Cigarini di "Carcere e Città".

 

Lo spettacolo

 

"Frammenti" è uno studio teatrale di messa in scena che fonde stralci di memorie d’infanzia, frustrazioni, gioie, rabbie e bisogno di riscatto di un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Castelfranco E.

Lo studio è composto da materiale scenico, elementi testuali e coreografici proposti dai detenuti e cuciti tra loro dalla composizione registica, orientata a mettere in risalto le tappe che segnano il percorso verso la delinquenza e il carcere, poeticamente e non descrivendone le storie, con ironia e leggerezza evitando di stimolare in chi guarda, compassione. Uomini che compongono la società in cui viviamo, spesso come scomodi esclusi, si mettono alla prova mostrandosi nei limiti e nei pregi che questo studio cerca di cogliere trattandoli da protagonisti, da individui in grado di comunicare anche il loro bisogno di un mondo diverso, nuovo, dove l’uomo è al centro dell’universo, i suoi diritti e non il denaro, il guadagno, l’arricchimento nevrastenico, il potere

 

Cos’è il Premio Ustica

 

Il Premio Ustica è nato nel 2003 dalla collaborazione tra l’Associazione Scenario e l’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica che rese possibile inaugurare l’edizione "zero". Il Premio a partire dal 2005 si è posto come progetto organicamente collegato al Premio Scenario, rivolgendosi a nuovi lavori incentrati sui temi dell’impegno civile e della memoria.

Droghe: Camera; ieri il "question time" dei Radicali Italiani

 

Agenzia Radicale, 15 giugno 2007

 

Pubblichiamo la trascrizione del question time dello scorso 14 giugno 2007 dell’on. Bruno Mellano (Rosa nel Pugno) sui "tempi di adozione del decreto interministeriale in materia di accertamenti sull’assenza di tossicodipendenza per particolari categorie di lavoratori".

Bruno Mellano. Signor Presidente, signor Ministro, questa interrogazione nasce a seguito di alcune vicende di cronaca, in particolare quella che ha visto coinvolta una scolaresca del Vercellese che, durante una gita scolastica, ha subito un incidente stradale. A seguito di indagini e accertamenti, è risultato che l’autista, forse, nei giorni precedenti poteva aver assunto droghe.

Al di là dell’episodio specifico, sul quale non voglio intervenire e non chiedo notizie al Ministro, ho potuto verificare, però, che l’articolo 125 del testo unico delle leggi sugli stupefacenti fin dal 1990 - quindi da diciotto anni, con tredici Governi che si sono succeduti, di collocazione politica diversa - prevedeva degli accertamenti rivolti verso persone appartenenti a determinate categorie che con il loro lavoro avrebbero potuto mettere a rischio l’incolumità altrui. Tale parte del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 non è mai stata attuata. In questa fase in cui, per fortuna, il nostro Governo ha in previsione di rivedere la legislazione sulla droga, chiedo se quella parte della normativa sia in corso di attuazione.

 

Risposta del Ministro per l’attuazione del programma di Governo, Giulio Santagata

 

Signor Presidente, onorevole Mellano, questa interrogazione solleva l’attenzione sul decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 recante il testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e, in particolare, sull’attuazione dell’articolo 125, inerente agli accertamenti di assenza di tossicodipendenza.

In merito si evidenzia primariamente che, ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione, l’attribuzione della materia della tutela e sicurezza del lavoro alla competenza concorrente di Stato e regioni comporta che lo Stato non possa esercitare autonomamente la potestà regolamentare sulla materia, così come invece previsto dall’articolo 125 del decreto del Presidente della Repubblica suddetto, antecedente alla riforma del Titolo V.

Per questo motivo il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, unitamente al Ministero della salute, ha riproposto nel corso dell’anno 2006 al coordinamento tecnico con le regioni e le province autonome due schemi di decreto, uno riguardante le alcool-dipendenze e l’altro le tossicodipendenze, da sottoporre alla decisione della Conferenza Stato-regioni.

In sede tecnica, al momento, è stato già approvato un accordo sullo schema legislativo relativo alle alcool-dipendenze dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome nella seduta del 16 maggio 2006. In tale sede, vi è stata anche un’assunzione di impegno da parte delle regioni di far pervenire delle proposte in ordine allo schema sulle tossicodipendenze elaborato dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale e da quello della salute. Tale riformulazione dello schema è stata solo di recente inoltrata dal coordinamento delle regioni ai suddetti Ministeri che, attualmente, ne stanno esaminando i contenuti e stanno lavorando alla elaborazione di un accordo da sottoporre al più presto alla Conferenza Stato-regioni.

 

Replica dell’on. Bruno Mellano

 

Signor Presidente, signor Ministro, sono soddisfatto della risposta perché testimonia un lavoro in corso, quanto mai importante e decisivo, su un tema che vede la classe politica, ma anche i media, occuparsi del problema, anche in modo emergenziale, solo quando ci sono episodi che hanno il colore della cronaca o il colore della tragedia. Noi, come Rosa nel Pugno, con l’appoggio convinto che diamo al Governo, siamo in attesa che il Governo stesso dia attuazione alle pagine 186 e 187 del suo programma, dove si prevedeva la riforma drastica della legislazione attuale sulla droga.

Nei giorni scorsi il Ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero, ha illustrato le linee guida, sia al Senato sia alla Camera, di un possibile intervento governativo per riformare la normativa e, all’interno di questa riforma complessiva, speriamo si possa dare piena attuazione anche a quelle norme non attuate del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, che possono recare un vantaggio ed un’agevolazione rispetto ad una sicurezza generale dell’opinione pubblica. Ciò sempre, però, tenendo conto che il consumatore di droghe dovrebbe essere punibile solo se provoca danni ad altri. Lo Stato deve, invece, riservarsi il lavoro di prevenzione, di cura, di informazione, con un taglio che vorrei antiproibizionista, ma che fosse almeno di limitazione del danno.

Il 26 giugno prossimo ricorre la giornata mondiale contro la droga. Speriamo che, almeno in quella data, le Commissioni parlamentari possano cominciare a lavorare sulla riforma del testo unico sugli stupefacenti.

È quanto mai allarmante la relazione che nello scorso anno il Ministro ha presentato al Parlamento, in cui emerge un raddoppio soprattutto dei consumatori di droghe pesanti, ma anche di droghe leggere; emerge, altresì, la sconfitta evidente di un sistema proibizionistico che non ha saputo limitare i danni, neanche rispetto ai consumatori.

 

Segue il testo integrale dell’interrogazione n. 3-00984 dei deputati radicali della Rosa nel Pugno Bruno Mellano e Donatella Poretti. Ai Ministri del Lavoro e della Salute, premesso che:

1) l’art. 125 del DPR 309/90 (Testo unico delle leggi sugli stupefacenti) così recita:

(Accertamenti di assenza di tossicodipendenza)

1. Gli appartenenti alle categorie di lavoratori destinati a mansioni che comportano rischi per la sicurezza, la incolumità e la salute dei terzi, individuate con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità, sono sottoposti, a cura di strutture pubbliche nell’ambito del Servizio sanitario nazionale e a spese del datore di lavoro, ad accertamento di assenza di tossicodipendenza prima dell’assunzione in servizio e, successivamente, ad accertamenti periodici.

2. Il decreto di cui al comma 1 determina anche la periodicità degli accertamenti e le relative modalità.

3. In caso di accertamento dello stato di tossicodipendenza nel corso del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a far cessare il lavoratore dall’espletamento della mansione che comporta rischi per la sicurezza, la incolumità e la salute dei terzi.

4. In caso di inosservanza delle prescrizioni di cui ai commi 1 e 3, il datore di lavoro è punito con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da lire dieci milioni a lire cinquanta milioni.

2) a quasi diciotto anni dall’entrata in vigore della suddetta disposizione di legge, diciotto anni caratterizzati dall’alternarsi al potere di ben 13 governi, il decreto di individuazione degli appartenenti alle "categorie a rischio" non è stato ancora emanato. Si interrogano i Ministri competenti per sapere se intendono dare attuazione al più presto alla legge di cui in premessa.

 

Roma, 24 maggio 2007

Diritti: poliziotto licenziato perché "notato" con abiti da donna

 

Libero on-line, 15 giugno 2007

 

Nell’ottobre del 2005 un poliziotto viene notato da alcuni colleghi, libero dal servizio, con addosso abiti femminili. L’incubo comincia da qui.

 

"Sono il Vice-Sovrintendente che è stato espulso dalla Polizia Postale di Venezia per aver indossato abiti femminili fuori dell’orario di servizio". Un sito personale, un fiume di parole (quelle cose che si scrivono di getto tutte d’un fiato), un appello ai politici, molti commenti. Giorgio Asti è in attesa della sentenza del Consiglio di Stato. Ci ha raccontato la sua storia.

 

Come sono andate le cose?

Per diversi anni ho subito una pesante attività di mobbing, sia da parte dei colleghi che di alcuni superiori in grado, di un’intensità tale da far uscire di senno anche la persona più tetragona. Tale situazione non era dovuta ad atteggiamenti discriminatori relativi alla mia condizione di identità di genere, che non era mai stata manifestata, ma ad altri conflitti che si erano sviluppati all’interno dell’Ufficio di appartenenza Nel momento in cui pensavo di aver trovato pace, in quanto assegnato a una squadra abbastanza coesa e nella quale mi impegnavo con soddisfazione, nel mese di ottobre del 2005 alcuni colleghi mi hanno notato, libero dal servizio, con addosso degli abiti femminili. Da lì iniziava una serie di controlli, comandati da un funzionario della Questura di Venezia (come risulta dagli atti), e dopo giorni di appostamenti per controllare la mia vita privata, veniva aperto un procedimento disciplinare a mio carico, con richiesta di destituzione dal servizio. Il 28 aprile 2006 mi hanno espulso dalla Polizia. La vicenda è stata resa ancor più cupa dal tentativo di rafforzare tale provvedimento riportando alla luce un precedente episodio, una lite con una persona per futili motivi, nella quale ho dovuto difendermi estraendo l’arma d’ordinanza a fronte di un’aggressione. Per quel gesto avevo subito una punizione (sulla quale pende tuttora un ricorso al TAR) nonostante la Procura della Repubblica di Venezia avesse archiviato la pratica, riconoscendo la "legittima difesa".

 

Sul tuo sito parli esplicitamente di un "complotto per incastrarti". Chi lo avrebbe ordito?

I colleghi che hanno effettuato i primi avvistamenti, guarda caso, sono quelli con cui mi trovavo in acceso conflitto. Non voglio fare troppa dietrologia, ma quasi tutti quei colleghi e il funzionario che ha comandato i controlli a mio carico, fanno capo ad una precisa fazione ideologica, che dettava legge all’interno della Questura di Venezia, e il Questore di allora, unitamente ad un sindacato "autonomo", gli offrivano ampia "copertura".

 

"Tutto questo per una minigonna", dice chi sta dalla tua parte. Ammetterai che per l’immagine della polizia di stato non si trattava di acqua fresca?

Ho cercato di mettermi nei panni dei responsabili dell’Amministrazione della P.S. e di fare un esame di coscienza: con tutta la comprensione che posso avere in ordine alla necessità che un’istituzione come la Polizia di Stato abbia di garantire la propria immagine, comunque una sanzione come il licenziamento appare eccessiva a qualsiasi persona di buon senso, sia in termini assoluti che relativi (sarebbe troppo lungo disquisire sulla discrezionalità che la Polizia di Stato ha in questi casi, visto che mantiene al proprio interno dipendenti che non hanno più le attitudini al servizio di Polizia, o che si sono macchiati di reati, evitando il carcere solo grazie al patteggiamento). Non si può sottacere, inoltre, che non risulta agli atti alcun nominativo di persone estranee all’Amministrazione della P.S. che abbiano riferito di avermi visto abbigliato da donna, quindi non vi è stato alcuno scandalo e si poteva risolvere il caso con una sanzione più appropriata (anche in termini di regolamento) ossia l’applicazione di una pena pecuniaria, con impegno a non reiterare il comportamento.

 

Rabbia, imbarazzo, solitudine. Qual è il sentimento che ti ha accompagnato dall’estate del 2005?

La rabbia momentanea può essere istintiva, ma da lungo tempo ho imparato a dominarla. L’imbarazzo credo possa averlo solo la Polizia, visto che qualche tempo fa ho appreso che attualmente stanno impiegando due persone per compiere la stessa attività che svolgevo da solo, e credo di essere stato certamente uno che faceva il proprio dovere. Direi piuttosto tristezza. Tristezza innanzi tutto per la deriva che sta avendo questa istituzione, che non dispone della cultura necessaria a distinguere una persona "immorale" da un cross-dresser, e che è tuttora impregnata di un’insana omofobia. Che crede di tutelare il proprio onore sbattendo fuori omosessuali e transgender, ma non i violenti del G8 di Genova.

 

Hai ricevuto attestati di solidarietà dai tuoi colleghi?

Nulla di nulla. Vi è stato una sorta di climax nell’atteggiamento dei colleghi: quando ero ancora all’interno dell’amministrazione ed era in corso l’iter disciplinare, molti di coloro che erano a conoscenza dei fatti non perdevano occasione per ribadire che si trattava di un provvedimento assurdo. Dopo l’espulsione, ma in attesa della sentenza del TAR, pur essendosi creato un vuoto attorno a me, potevo ancora fare affidamento sulla solidarietà di qualcuno. Adesso è il vuoto totale, perché questo è un Paese di opportunisti.

 

Chi ti ha deluso, da chi ti aspettavi maggiore appoggio?

Devo ringraziare sicuramente la Cgil-Ufficio Nuovi Diritti di Venezia, nella persona della Sig.ra Mara Siclari, che è forse l’unica che veramente ha preso a cuore il mio caso. Ma sinceramente mi sarei aspettato un maggiore appoggio dalla direzione romana di tale ufficio, che dispone di ben maggiori possibilità di intervento così come dall’Arcigay. Probabilmente per i dirigenti di tale associazione il mio è solo uno dei tanti casi di discriminazione che avvengono, e non si può pretendere che essa si mobiliti per ogni singolo caso. Magari pensavo che il mio fosse meritevole di più attenzione, in quanto emblematico, visto che la discriminazione è stata attuata da un’amministrazione pubblica, che per prima dovrebbe rispettare la Costituzione e le Direttive Europee. Pur continuando a rispettare e ad ammirare l’impegno politico di Vladimir Luxuria e Franco Grillini in merito a questi problemi, devo dire che mi hanno deluso, perché quando sono venuti a conoscenza della mia vicenda hanno eretto le barricate, dichiarando di voler presentare un’interrogazione parlamentare urgente, ma a tutt’oggi non mi risulta che tale iniziativa sia stata intrapresa. Non so il perché di questo "voltafaccia", nessuno dei due ha risposto alle e-mail che ho loro inviato.

 

Il 3 giugno hai inviato a politici e organi d’informazione un appello per il tuo reintegro. Risposte? Riscontri?

È troppo presto per avere dei riscontri. In realtà, se devo essere sincero, non mi aspetto alcuna risposta concreta da parte delle istituzioni, volevo solo che il caso non finisse nel dimenticatoio.

 

Recenti fatti di cronaca hanno riacceso il dibattito sulla sovrapposizione tra sfera pubblica e sfera privata per i politici (o di qualunque persona al servizio dei cittadini). Si è detto che i due piani non vanno confusi. Questo non vale per un poliziotto?

Secondo me i due piani vanno completamente distinti. È chiaro che una personalità pubblica ha maggiori responsabilità nella gestione dell’immagine di ciò che rappresenta, ma nel mio caso questo tipo di raffronto non ha alcun senso: io non ero nessuno, addirittura alcuni miei amici, non stretti, non sapevano esattamente che lavoro facevo. Il regolamento di disciplina della Polizia di Stato potrebbe rimanere così com’è, o quasi, se i responsabili lo applicassero cum grano salis; essendo essi incapaci di questo, rimane solo la strada di una modifica normativa. Sarebbe opportuno che si aprisse un dibattito tra le forze politiche su questo tema.

 

La tua destituzione è stata formalmente motivata: "mancanza di senso dell’onore e della morale (uso di abiti femminili)". Che effetto ti fa, da ex servitore dello Stato, essere descritto come immorale?

È stata un’esperienza devastante, per una persona come me sempre corretta nei confronti dei colleghi, dei superiori e dei cittadini, sempre irreprensibile nello svolgimento del proprio servizio, quella di essere improvvisamente segnato con lo stigma dell’immoralità e del disonore. La motivazione del provvedimento disciplinare appare, sotto questo aspetto, quasi surreale.

 

Che cosa fai adesso nella vita?

Scrivo in un blog.

 

Cosa ti aspetti dal futuro?

Se dovessi perdere questa battaglia, vedo solo un futuro di disperazione davanti a me. Se ripenso alla difficoltà che ho avuto a trovare un lavoro stabile, a un’età compresa tra i venti e i trent’anni, il solo pensiero di dover ripetere la stessa esperienza, con l’aggravante dell’età avanzata e di un mercato del lavoro flessibile, mi fa desiderare la morte.

 

E se alla fine ti reintegrassero....

Se dovesse trionfare la giustizia, io riprenderei a svolgere il mio lavoro, nella misura in cui mi sarebbe consentito, con tutto l’entusiasmo di prima. Le ferite fatte a me, ma soprattutto ai miei poveri genitori anziani e malati, ai quali poteva essere risparmiata questa ennesima sofferenza, non potranno mai essere rimarginate. Se dovessi rientrare in servizio credo che la maggior parte dei colleghi non mi sarebbe ostile. Sicuramente l’aria che dovrei respirare sarebbe pesante, a causa dell’ostilità di pochi, della dirigenza e del sindacato: tutto "normale" quindi visto che è quello che è accaduto negli ultimi anni.

Usa: pena di morte; ucciso 36enne, nel 2007 già 23 esecuzioni

 

Ansa, 15 giugno 2007

 

Lo stato dell’Indiana ha giustiziato oggi un detenuto reo di aver assassinato un poliziotto, 16 anni fa, dopo essere stato arrestato per ubriachezza. Michael Lambert, 36 anni, è stato dichiarato morto alle 1.29 dopo aver subito un’iniezione letale. Lo hanno reso noto le autorità penitenziarie dell’Indiana. Lambert, nel dicembre del 1990, aveva ucciso a Muncie, nell’Indiana, il poliziotto Gregg Winters.

Il poliziotto lo aveva fermato per ubriachezza e lo aveva fatto sedere nel sedile posteriore dell’auto di servizio. Lambert aveva una pistola nascosta e con questa ha sparato cinque volte nella testa di Winters. Questa è la 23ma esecuzione negli Usa di quest’anno, la seconda nell’Indiana e la numero 1080 da quando la pena di morte è stata reintrodotta negli Stati Uniti nel 1976.

 

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