Rassegna stampa 9 gennaio

 

Giustizia: ddl per modificare l'ex-Cirielli, stop alla prescrizione

 

Ansa, 9 gennaio 2006

 

Processi più veloci con interventi sui tempi morti delle varie fasi e con un cambio di rotta sulla ex-Cirielli, vale a dire la contestata norma varata dalla Casa delle Libertà che ha tagliato i termini di prescrizione per gli incensurati e inasprito le pene per i recidivi. Con una bozza di disegno di legge di 26 articoli il ministero della Giustizia si appresta a intervenire su ben 150 norme che riguardano il processo penale. Il testo - una cinquantina di pagine ancora oggetto di limature verrà probabilmente presentato in Consiglio dei ministri tra gennaio e febbraio.

I capisaldi di questa complessa riforma, che sarà affiancata da un altro incisivo intervento nel settore civile, saranno illustrati dal Guardasigilli nel vertice di Caserta e potrebbero diventare oggetto di un serrato confronto con il collega-rivale di sempre, il ministro delle Infrastrutture (ed ex pm di Mani Pulite) Antonio Di Pietro. Ecco i punti principali della bozza.

La questione della "competenza territoriale o per materia". Può essere posta una sola volta. E se la parte che ha sollevato la questione vede rigettata la richiesta, avrà un’unica possibilità: ricorrere in Cassazione per una decisione definitiva. In tal modo sarà impossibile sollevare a più riprese questioni di incompetenza con il rischio che anni di processi siano azzerati in terzo grado, come è stato per Imi-Sir a carico di Cesare Previti.

Prescrizione: cambia la "ex-Cirielli". L’orologio che segna il conto alla rovescia del tempo oltre il quale l’imputato è fuori dal processo potrà essere bloccato. La prescrizione sarà sospesa se l’imputato condannato in primo grado fa ricorso in appello. Si pensa di bloccare la prescrizione anche nel caso di irreperibilità dell’imputato. E ancora: se la ex-Cirielli calcolava i tempi di prescrizione sulla base della pena edittale massima, ora si pensa a un calcolo sul massimo della pena prevista per ciascun reato aumentata di un quarto oppure della metà (opzioni ancora in fase di valutazione).

La ex-Cirielli nega benefici carcerari e attenuanti generiche a tutti i recidivi. La bozza di legge torna a prenderli in considerazione per i recidivi "non specifici". L’esclusione dai benefici e dalle attenuanti scatterà solo in presenza di delitti della stessa indole o che offendono lo stesso interesse. Il difetto di una notifica o di un atto va eccepito e deciso nel grado successivo a quello in cui si verifica e poi non può essere più riproposto. Notifiche, avvisi e comunicazioni avverranno per mezzo della posta elettronica.

Proroga delle indagini. La bozza di disegno di legge prevede che il pm indichi i motivi per cui le indagini non sono state concluse nel termine dei sei mesi; e che il giudice emetta un provvedimento in cui si indicano gli atti da prorogare e in cui si fissi un termine di proroga che può essere anche inferiore a sei mesi.

Riti alternativi rafforzati. Si pensa di portare da 90 giorni a sei mesi il termine entro il quale chiedere il giudizio immediato, e così anche di portare le misure interdittive da due a sei mesi. Se nel corso di un processo cambia il giudice, si ricomincia da capo solo in presenza di una richiesta articolata e motivata, e si sospende il decorso della prescrizione.

Riaprire i termini del patteggiamento se la pena rientra nell’indulto. Mastella punta a varare un decreto per evitare di celebrare processi che, in caso di condanna, sono destinati a concludersi con una pena condonata.

Erba: i vicini di casa negano, ma una foto forse li "incastra"

 

Ansa, 9 gennaio 2006

 

Una foto diffusa da Sky Tg24 metterebbe in dubbio l’alibi di Olindo Romano. La foto - secondo quanto ha reso noto l’emittente televisiva - è stata scattata con un cellulare da un uomo che l’11 dicembre che si trovava vicino al luogo della strage.

La foto ritrae una persona in primo piano il cui profilo richiamerebbe quello di Olindo Romano, come mostrato dalla tv. Sullo sfondo i vigili del fuoco al lavoro. La foto, insieme ad altre, è stata consegnata alcune ore fa ai carabinieri da una persona che ha chiesto di rimanere anonima. Olindo Romano e la moglie Angela hanno sempre sostenuto di non trovarsi a casa all’ora della strage ma di essere stati in una pizzeria a Como.

Quattro morti per 3.500 euro? Questo potrebbe essere il movente che ha spinto i coniugi Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi a compiere il massacro Erba la sera di lunedì 11 dicembre.

Un’ipotesi agghiacciante, un movente che, come disse pochi giorni fa l’avvocato Pietro Bassi che assiste Azouz Marzouk, marito di una delle vittime, "quando lo si saprà, stupirà tutti". E tutti sono rimasti scioccati nel trovare conferma in quelle parole. Almeno secondo le convinzioni del pool di magistrati che per un mese ha indagato per risalire al possibile mostro.

Convinti, i cinque magistrati di avere in mano un "quadro probatorio articolato, eterogeneo e convergente" anche se il procuratore capo, Alessandro Maria Lodolini, in una stringatissima nota ha sottolineato che "essendo il procedimento in fase cautelare, vige la presunzione di non colpevolezza dei due indagati".

Respingono le accuse. Olindo Romano e Rosa Bazzi, i coniugi fermati ieri per la strage di Erba, continuano a negare di essere i responsabili della morte di Raffaella Castagna, sua madre Paola Galli, il figlio della Castagna, di soli due anni, Youssef, una loro vicina di casa, Valeria Cherubini. E lo fanno nel corso di un lungo interrogatorio durato tutta la notte nel carcere di Como. I due, che in passato avevano avuto una serie di violente liti con Raffaella Castagna, sono stati fermati nel pomeriggio di ieri con l’accusa di omicidio plurimo pluriaggravato, anche se, secondo i pm comaschi, il ruolo della donna sarebbe più defilato rispetto a quello del marito.

Nel frattempo comincia a delinearsi meglio la personalità dei due. Olindo viene descritto come un uomo mite, mentre la moglie come una donna pronta a scattare per futili motivi. Anche se a Erba non tutti vorrebbero credere che quella donna apparentemente dolce abbia partecipato al massacro. Gli inquirenti, invece, la accusano di concorso in omicidio plurimo e pluriaggravato.

Ma lei insiste: "Quella sera siamo usciti alle 19 per andare in qualche negozio. Anche se era lunedì erano aperti. Siamo sotto le feste". Ed ancora: "Siamo andati in una pizzeria sul lungolago di Como", Ma lo scontrino che mostra non aiuta lei e il marito Olindo. Anzi lascia un buco di tre ore. Ma il loro avvocato spiega: "Sono lucidi e sereni e continuano a dire di non essere stati a Erba al momento della strage".

Lettere: Sollicciano; le feste non sono state né belle né serene

 

www.informacarcere.it, 9 gennaio 2006

 

Le feste non sono state né belle né serene ma piuttosto un incubo. La mia ex compagna di cella è uscita di senno, ha dato libero sfogo alla rabbia bestiale per mesi repressa.

Ha colmato i vuoti con l’autolesionismo. La mia cella era ridotta a un maleodorante mattatoio, mi ci sono voluti giorni per renderla pulita e sentirla nuovamente il mio spazio detentivo. Ho ancora impresso nella mente l’orrida immagine delle sue braccia affettate grondanti di sangue e nelle orecchie il suo rabbioso imprecare urlato accompagnato dallo sfracello di quanto poteva afferrare, compreso lo sbattere con forza come Hulk i vari cancelli ferrati; di celle ne ha devastate tre o quattro, mi sono astenuta dal chiedere sue notizie dirette.

 

Peppina Pireddu, Carcere di Sollicciano

Civitavecchia: il sogno "possibile", dal carcere al palcoscenico

 

Il Giornale, 9 gennaio 2006

 

Nasce dentro la Casa di reclusione di Civitavecchia lo spettacolo atteso al Piccolo Eliseo da domani. E nasce lì come esito di un complesso progetto di reinserimento sociale a beneficio dei detenuti che, avvalendosi della compartecipazione del ministero di Grazia e Giustizia e del ministero dei Beni e delle Attività culturali, vede coinvolte numerose carceri della nostra penisola.

Scopo: utilizzare il teatro, la scrittura e la pratica teatrali, come vettori di nuove prospettive di vita e di conoscenza personale. Già l’anno scorso, d’altronde, l’Eliseo aveva fatto un primo e importante passo in questa direzione (ricorderete le repliche del lavoro Ballata dal carcere di Reading e il suo debutto a Rebibbia), ma adesso con Via Tarquinia 20 - Biografie di un sogno, su regia di Emanuela Giordano, la formula "teatro e carcere" si concretizza in un’operazione che chiama in causa direttamente i detenuti, la loro fantasia, la loro creatività, i loro sogni aldilà del luogo che li ospita.

Il testo che costituisce la struttura base dell’allestimento è infatti l’opera vincitrice del Premio Annalisa Scafi 2006 (concorso bandito dalla stessa Amministrazione penitenziaria cui hanno partecipato un centinaio di opere elaborate negli istituti penitenziari di tutta Italia). Ma quanto vedremo sul palcoscenico le prossime sere (in replica fino al 14 gennaio) è in realtà un agglomerato di materiali diversi che, immaginato come un gioco di fantasia dove confluiscono echi anche degli altri testi redatti in seno al concorso, spazia nella geografia e nel tempo imponendosi, pur nelle sue declinazioni più ironiche, come vero e proprio esperimento di scrittura collettiva.

Laddove l’evasione, il mistero, la fuga lontano sono molto più di semplici temi ridondanti. "Via Tarquinia 20 - spiega la regista - è un interessante tentativo di scrittura collettiva, fusa in un unico stile leggero e popolare. Ha saputo raccontarci la necessità imprescindibile di ogni essere umano di immaginarsi un futuro. Più che un desiderio di redenzione emerge dal testo una palese voglia di evasione ma è raccontata con un candore talmente spudorato che per forza di cose mi ha coinvolto".

Imperia: diario di cella; io sono "prigioniero della giustizia"

 

Il Giornale, 9 gennaio 2006

 

"Attualmente prigioniero politico presso carcere di Imperia", recita la sua carta intestata fatta a mano. Roman Antonov, cittadino russo, è dentro dal 18 maggio scorso, due giorni dopo il suo trentatreesimo compleanno, come la moglie Maria. È dentro perché avrebbe dovuto essere dentro una macchina distrutta dalle fiamme. Morto carbonizzato. Mentre sua moglie intascava un assegno milionario, frutto di una polizza sulla vita stipulata a suo nome. Ma era tutto falso. Anzi, no, il cadavere, in quella macchina finita fuori strada e divorata dal fuoco, c’era sul serio. Non era il suo, ma quello di un uomo adescato su internet dalla moglie e finito a fare la controfigura con un ruolo tutt’altro che felice. Questa è l’accusa del pm. Questa è l’accusa contenuta nell’ordinanza di carcerazione firmata dal gip il 18 maggio 2006.

Ma lui non ci sta. Si professa innocente. Di più, "prigioniero politico", e ancora vittima di "gravissime violazioni dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali". Lo fa scrivendo dal carcere. Roman Antonov ha preso carta e penna e ha iniziato a scrivere. Proprio con tutti gli errori di ortografia di un russo dei migliori film di James Bond. Ma anche con una conoscenza del codice penale e della costituzione italiana da far invidia a un avvocato.

Infatti si appella al Tribunale della Libertà di Genova e fa un "ricorso per ottenere il diritto ad una riparazione" di tutti i torti subiti, in forza della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e della legge n. 848 del 4 agosto 1955. Divide il suo elaborato, scritto rigorosamente a mano su fogli a quadretti con i buchi, in "motivi preliminari" e non meglio chiariti "motivi continui".

Ma sa tutto di procedure, di arresti che vanno convalidati entro 48 ore e di interrogatori di garanzia. Di diritti degli stranieri che devono poter leggere tutte le carte nella loro lingua e di tempi della custodia cautelare. Letto così, il suo ricorso, sembra anche fatto bene, da uno che in cella deve aver passato questi sette-otto mesi a studiare tutti i codici che la biblioteca del carcere gli metteva a disposizione. Cita articoli e commi, persino pronunce della corte costituzionale. Sa che l’ordinanza di custodia cautelare sarebbe dovuta "scadere" il 28 agosto e assicura che da allora non ci sono stati fatti nuovi.

Da queste considerazioni parte per rivendicare tutti i motivi di nullità del suo arresto. "L’arresto diviene inefficace se il pm non osserva le prescrizioni del comma 1 dell’articolo 390.3 cpp", si lancia nella sua lettera di 5 pagine fronte e retro. Ovviamente, a suo dire, il pm non avrebbe rispettato queste regole. Roman Antonov scrive anche ad "Acnur - Unhcr", l’alto commissariato dell’Onu per i Rifugiati.

Invoca giustizia per sé e per la moglie, "femina incinta, con gravidanza di rischio, in carceri nella cela con fumatore". E chiede un intervento, citando la lentezza della giustizia italiana: "Cosa io deve attendere adesso? Decisione della Corte Cassazione? Se per ogni risposta uno anno attesa minimum. Cosa dire per bambini?" Già, in bambini, Antonov ne ha cinque, tutti sotto i dieci anni. E anche sua moglie è in cella. Giura di dire la verità: "Se io scrive bugia, dà per me una volta risposta. Nulla, perché tutto qui è scritto vero. Sono prigionieri politici in Italia? Chi salvaguardare i diritti qui?"

Verrebbe da chiedersi perché un buon avvocato non sia in grado di torarlo fuori in pochi istanti. Ma Antonov risponde in anticipo. Proprio raccontando di un interrogatorio del 10 agosto 2006 nel quale "giudice ferma udienza senza ascoltare difesa". Se fosse vera la versione di Antonov, l’avvocato avrebbe dovuto opporsi. Ecco la risposta, già contenuta nel ricorso: "Io chiamavo difensore, difensore fa dismissione. Io chiamo nuovo difensore, dopo due mesi, lei anche fa dismissione. Nuovo dalla altra città - lei dice - dai soldi e tu è libero subito, perché tuo arresto e detenzione illegale. Io niente soldi, io dico che ho diritto per ottenere patrocinio dallo Stato. Ma?" Ma ora ad Antonov non resta che lanciare questo appello anche attraverso la stampa. Cerca qualcuno che lo aiuti. E chiude: "Dove ancora posso cercare grazia? Se l’Onu è sordo, sono giustiziato innocente e mai macchinazione accetto". Dopo la giurisprudenza, l’arringa conclusiva. La parola, l’ultima, torna al giudice.

Immigrazione: cosa cambia per bulgari e rumeni dal 2007

 

Piazza Grande, 9 gennaio 2006

 

Dal primo gennaio 2007 la Romania e la Bulgaria sono entrate a far parte dell’Unione Europea. I cittadini di questi Paesi non sono più considerati extracomunitari, quindi, possono circolare liberamente in Italia e sottoscrivere un contratto di lavoro come qualunque altro cittadino italiano ed europeo. É un avvenimento importante che coinvolge migliaia di persone che vivono a Bologna: erano 1500 circa i rumeni in città nel 2005 in possesso del permesso di soggiorno (circa 150 i bulgari), ma sono stati in 5000 a fare richiesta del permesso di soggiorno a marzo del 2006 (circa un terzo delle 14000 domande consegnate a Bologna).

Attualmente quella rumena è la comunità più numerosa a Bologna, a dispetto di tutte le difficoltà d’accoglienza che ancora in questi giorni si trova ad affrontare. La circolare ministeriale emessa il 28 dicembre 2006 che ha disposto queste novità presenta le consuete difficoltà di interpretazione dei documenti burocratici ufficiali, che non vengono recepite facilmente nemmeno dalle Istituzioni, e che rischiano di rallentare enormemente gli effetti benefici di queste novità.

L’Associazione Amici di Piazza Grande, che da anni conosce le difficoltà dei moltissimi cittadini rumeni immigrati che non riuscivano ad integrarsi, in collaborazione con il Centro Lavoratori Stranieri della Cgil, ha preparato un volantino in due lingue, italiano e rumeno, in cui queste nuove norme vengono elencate in maniera semplificata.

Le novità legislative rappresentano un’ottima occasione per far uscire dalla clandestinità e dalla povertà assoluta migliaia di lavoratori stranieri che ancora adesso a Bologna sono costretti a vivere in strada o nelle baracche. Anche per questo motivo invitiamo tutti a far circolare il più possibile il nostro vademecum. Piazza Grande e il Centro Lavoratori Stranieri restano a disposizione per tutte le informazioni supplementari.

 

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Papa: disarmo e leggi giuste per immigrati favoriscono pace

 

Asca, 9 gennaio 2006

 

Nel mondo il disarmo non procede. Lo rileva il papa nel discorso al corpo diplomatico accreditato presso la S. Sede nel quale Benedetto XVI parla anche di lungimiranti leggi per gestire le migrazioni. Nell’ambito del disarmo - osserva il pontefice - si moltiplicano sintomi di una crisi progressiva, legata alle difficoltà di negoziati sulle armi convenzionali così come sulle armi di distruzione di massa e, d’altra parte, all’aumento delle spese militari su scala mondiale. Le questioni di sicurezza, aggravate dal terrorismo, che bisogna condannare fermamente, devono essere trattate in un approccio globale e lungimirante. Per quanto concerne le crisi umanitarie, occorre notare che le Organizzazioni che le affrontano hanno bisogno di un più forte sostegno, affinché siano in grado di fornire alle vittime protezione e assistenza. Un’altra questione che acquista sempre più rilievo è quella del movimento di persone: milioni di uomini e di donne sono costretti a lasciare le loro case e la loro patria a causa delle violenze oppure per ricercare condizioni di vita più dignitose. È illusorio pensare che i fenomeni migratori potranno essere bloccati o controllati semplicemente attraverso la forza. Le migrazioni e i problemi che esse creano devono essere affrontati con umanità, giustizia e compassione".

Libri: "Ali di piombo", l’anno di sangue che cambiò l’Italia

 

L’Espresso, 9 gennaio 2006

 

"Ali di piombo", il nuovo libro di Concetto Vecchio: il movimento, il terrorismo, le vittime È il gennaio dell’86 quando Repubblica, festeggiando il proprio decennale, pubblica una serie di fascicoli allegati al quotidiano, uno per ogni anno. Sulla copertina di quello del 1977, dopo il ‘76 dedicato a "L’alba di Craxi", campeggiano una enorme rivoltella, disegnata da Tullio Pericoli, e il titolo "I giorni delle P38". E a scorrere la cronaca di quei dodici mesi, si capisce quanto la scelta fosse obbligata.

Quello che anche Walter Veltroni ricorda come "l’anno più duro della nostra generazione" si chiude infatti con un bilancio di 2.188 attentati terroristici, contro i 1.198 dell’anno prima, con 32 persone gambizzate (tra cui Indro Montanelli e il direttore del Tg1 Emilio Rossi) e una dozzina di morti: avvocati come il presidente dell’ordine del Piemonte Fulvio Croce, giornalisti come il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno, tanti giovani militanti di sinistra (da Francesco Lorusso a Giorgiana Masi, da Walter Rossi a Benedetto Petrone) fino al povero Roberto Crescenzio, studente lavoratore torinese che non aveva mai fatto politica, una fine orribile nel rogo di un bar assaltato perché ritenuto un covo di fascisti. E poi agenti di polizia, da Antonino Custrà a Settimio Passamonti, da Giuseppe Ciotta alla guardia giurata Remo Pietroni.

Ma la prima vittima è il brigadiere della polizia stradale Dino Ghedini: è la sera del 19 febbraio quando, nell’hinterland milanese, ferma per un controllo una Simca guidata da Enzo Fontana, allora 25enne e già con un passato nei Gap di Giangiacomo Feltrinelli, ora invece brillante studioso di Dante e trentino d’adozione (è tra gli editorialisti dell’Adige). Sta per perquisire l’auto, Ghedini, quando il giovane estrae una pistola uccidendolo sul colpo e ferendo gravemente l’appuntato Adriano Comizzoli, Arrestato, Fontana si dichiara prigioniero politico: sul sedile posteriore trasportava documenti delle Brigate rosse. Sarà condannato a 26 anni.

Di quell’anno tremendo si occupa, meritoriamente, il giornalista del Trentino Concetto Vecchio nel suo "Ali di piombo" (281 pagine, 9,40 euro), che uscirà domani nella collana "Futuro Passato" della Biblioteca Universale Rizzoli. Catanese, 35 anni, Vecchio è al suo secondo libro, dopo quel "Vietato obbedire" dedicato due anni fa alle vicende e ai protagonisti di Sociologia e vincitore dei premi Capalbio e Pannunzio. Ma non aspettatevi uno dei soliti libri sul terrorismo: d’altra parte gli scaffali ormai sono stracarichi di memoriali e interviste di leader e manovali della lotta armata, l’ennesima autoanalisi difficilmente aggiungerebbe qualcosa di rivelatore per capire quella parabola di sangue.

Vecchio ne è consapevole, e sceglie invece la chiave che gli è più familiare: quella della cronaca. E il suo "Ali di piombo" è così un racconto formidabile e documentatissimo, serrato nei passaggi più tesi (l’uccisione di Lorusso negli scontri di piazza a Bologna, quella di Giorgiana Masi a Roma, la clamorosa contestazione del leader della Cgil Luciano Lama alla Sapienza), ma anche dolente di fronte, e accade spesso, all’insensatezza che pervade quel maledetto 1977.

Ed è un libro che, restando saggiamente lontano da sociologismi e politichese (e non era facile, dovendo spiegare ad esempio che cosa fosse Autonomia operaia), scava tanto a fondo da recuperare figure dimenticate o di secondo piano, a tutti i livelli: da Carlo Rivolta, giovane cronista di Repubblica che come pochi raccontò il movimento, morto stroncato dalla droga (un altro lato drammatico di quell’anno), ad Antonio Cocozzello, oscuro consigliere comunale della Dc, impegnato nel sociale e nei quartieri della Torino proletaria, bersaglio di un terrorismo cieco e ostinato.

Il metodo di Vecchio è trasparente: lasciar parlare i fatti. E quello che non è recuperabile dalle cronache di allora, le emozioni "di pelle" ma anche il senno di poi, "estrarlo" da decine di testimonianze. E così, a rafforzare una solida ragnatela cronologica di eventi, concorrono i racconti di Gad Lerner, del direttore di Repubblica Ezio Mauro (allora giovane cronista alla Gazzetta del Popolo di Torino), Diego Novelli, Giampaolo Pansa, Gianfranco Bettin, Arrigo Levi, Marco Boato, Enrico Deaglio e tanti altri, 37 in tutto, senza dimenticare il contributo fondamentale del procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli, allora in prima linea contro le Br, nel ricostruire gli esiti giudiziari di tanti fatti di sangue.

E che il metodo sia quello autentico del cronista, lo dimostrano i "sopralluoghi" compiuti dall’autore in alcuni dei luoghi più tragici di quell’anno: l’abitazione di Casalegno a Torino, ferito a morte nell’androne di casa, e soprattutto il centro storico di Bologna, teatro di guerriglia a marzo ma anche cornice di quel convegno sulla repressione che, in settembre, sarà il canto del cigno dell’ala "creativa" del movimento. Un po’ come l’anno prima quello a Rimini di Lotta continua, un "rompete le righe" che porterà molti a ingrossare le fila del partito armato.

Perché non c’è solo piombo, nelle ali del 1977. A Bologna ci sono Andrea Pazienza e Radio Alice, e "Bifo" Berardi ne rievoca peripezie e imprese (tutta da leggere, per chi ancora non la conoscesse, l’irruzione della polizia raccontata in diretta). E c’è un’Italia che cambia, con il femminismo e i "Porci con le ali" di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, con la prima Estate Romana di Renato Nicolini (pure tra i testimoni), ma anche con le università dei "baroni" e di migliaia di giovani, soprattutto del Sud, che ne escono inevitabilmente disoccupati. E c’è anche, è vero, un’Italia che in tv passa dal bianco e nero al colore, che si appassiona a Fonzie e Furia cavallo del West, o al duello Torino-Juventus per lo scudetto.

È un’Italia che Vecchio pure racconta, ma di passata, quel che serve per contestualizzare una realtà comunque fatta di altro: perché è anche l’anno dell’affare Lockheed in Parlamento, della fuga del criminale nazista Herbert Kappler dall’ospedale militare del Celio, delle polemiche per il "Mistero buffo" in tv di Dario Fo. E soprattutto del ministro degli interni Kossiga, disegnato da Forattini armato e vestito da autonomo dopo la morte di Giorgiana Masi. E di bollettini come quello del 1º luglio, citato non a caso anche da Guido Crainz nel suo "Il Paese mancato": una guardia giurata uccisa da tre fascisti durante una rapina, due dirigenti della Fiat gambizzati, l’esplosione di tre vagoni ferroviari carichi di elettrodomestici Zanussi, un attentato sventato per caso alla Liquichimica di Augusta dove vengono ritrovati quattro chili di gelignite, altri attentati a Bologna alle sedi dei vigili urbani e dell’Associazione industriali, bottiglie molotov a Roma, bombe delle Br contro il carcere di Spoleto, sparatorie dei Nap contro una caserma dei carabinieri a Catania e sabotaggi vari. Tutto lo stesso giorno.

Scrive Vecchio, alla fine nei ringraziamenti (dove rende anche merito all’efficienza del sistema bibliotecario trentino), di aver desiderato per anni scrivere la storia di Carlo Casalegno e del suo rapporto con il figlio Andrea, militante di Lotta continua. E d’altra parte proprio quel delitto, e la sua "rielaborazione" da parte della sinistra extraparlamentare, fu una sorta di spartiacque, grazie alla celebre intervista di Lerner e Marcenaro allo stesso Andrea Casalegno, in cui i due cronisti scrivevano che "ridurre il nemico a simbolo significa stravolgere la realtà credendo di semplificarla". E ammette, Vecchio, d’aver pensato a lungo che senza un racconto dell’intero contesto ("il terrorismo, la Torino fordista, le inquietudini dei ragazzi del ‘77, i tanti morti del movimento") la vicenda non avrebbe retto un intero libro.

Ha ragione: l’"Ali di piombo" che ne è uscito è infatti molto di più di un ritratto di famiglia. Ma quella morte, quell’agonia di 13 giorni in ospedale a cui alla fine, il 29 novembre del ‘77, il fisico dell’ex partigiano Casalegno non resse, è comunque il filo rosso dell’intero libro. Ed è un bene che sia così: proprio perché rappresenta, in anticipo di pochi mesi sul delitto di Guido Rossa (l’operaio e sindacalista genovese ucciso nel gennaio del ‘79 perché "delatore"), l’inizio del tramonto delle Br. Non di quello militare, certo, il sequestro Moro deve ancora arrivare, ma di quella "contiguità" ideologica nel movimento, per non dire aperta simpatia, che era il terreno su cui fiorivano le azioni terroristiche.

Un solo appunto, al libro di Concetto Vecchio. Non cita l’editoriale che Eugenio Scalfari dedicò il 15 settembre a Felix Guattari, l’intellettuale francese allora impropriamente accomunato ai "nouveaux philosophes" e tra i promotori del convegno sulla repressione di quei giorni a Bologna, che in una lunga intervista a Repubblica aveva spiegato di non preoccuparsi dei detenuti di destra. "C’è dunque chi nasce cattivo e chi buono? - scriveva Scalfari - Chi è stato baciato dalla grazia una volta per tutte e chi si porta addosso il peccato originale? Guattari non sarà un nuovo filosofo, ma sotto a questa tesi c’è una gran puzza di sacrestia". E via così, per colonne e colonne: memorabile. Ma è un dettaglio, che non offusca i due grandi meriti di "Ali di piombo": l’arrivare per primo nella "corsa" editoriale già apertasi per il trentennale del ‘77 (sono infatti annunciate a breve opere analoghe di Lucia Annunziata e di Stefano Cappellini del Riformista). Ma soprattutto, il raccontare con la sobria passione del cronista un anno decisivo della storia recente d’Italia. E incredibile visto con gli occhi di oggi.

Guantanamo ha 5 anni, detenuti di nuovo in sciopero della fame

 

Articolo 21, 9 gennaio 2006

 

Nella base prigione per terroristi di Guantanamo alcuni detenuti hanno ripreso a fare lo sciopero della fame. Undici prigionieri rifiutano il cibo e cinque sono sottoposti all’alimentazione forzata, hanno indicato fonti militari. I carcerieri militari descrivono l’astensione dal cibo come un tentativo dei detenuti di attirare la simpatia della comunità internazionale che chiede la chiusura di Guantanamo. Oggi il Consiglio d’Europa ha definito Guantanamo "una vergogna per gli Stati Uniti".

La base prigione ha cominciato ad essere usata come centro di detenzione dei prigionieri catturati nella guerra al terrorismo l’11 gennaio 2002. "La tecnica dello sciopero della fame rientra nelle pratiche di al Qaida e riflette il tentativo dei detenuti di attirare l’attenzione dei media per portare sugli Stati Uniti la pressione internazionale per rilasciare questi uomini sul campo di battaglia", ha detto il portavoce della base, comandante di Marina Robert Durand.

Secondo gli esperti dei diritti umani lo sciopero della fame rispecchia la disperazione di chi lo pone in atto: "Non mi stupisce che siano disperati al punto di rifiutare il cibo", ha commentato Jumana Musa a nome di Amnesty International USA. Un mese fa digiunavano in cinque, due di questi dall’agosto 2005: il raddoppio del numero dei prigionieri che rifiutano il cibo è collegato l’anniversario. Cinque anni dopo l’arrivo dei primi venti prigionieri incappucciati nella base prigione nell’isola di Cuba sono ancora a Guantanamo 395 uomini sospettati di legami con i Taliban e al Qaida.

Guantanamo è diventato per l’amministrazione Bush il simbolo delle difficoltà a conciliare le esigenze della guerra al terrorismo con il diritto internazionale. Dall’11 gennaio 2002 poco meno di 800 prigionieri sono passati per il carcere. Per 380 di loro - di cui 114 nel corso del 2006 - c’è stata la possibilità del trasferimento ai paesi d’origine e in molti casi la scarcerazione. Per i rimanenti lo status di detenuto è segnato da molte incertezze: il Pentagono ha già stabilito che 85 di loro non costituiscono più un pericolo, ma non è riuscito al momento a trovare paesi disponibili ad accoglierli mentre gli altri dovrebbero venir processati da commissioni militari.

 

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