Rassegna stampa 11 febbraio

 

Giustizia: Opg di Aversa; interrogazione di Francesco Caruso

 

Comunicato stampa, 11 febbraio 2007

 

Un internato immigrato di 35 anni, D.H., è deceduto la settimana scorsa nell’Opg di Aversa. La notizia della sua morte, avvenuta il 29 gennaio, è stata resa nota da Francesco Caruso, che appena un mese fa si era recato in visita alla struttura penitenziaria e che in seguito alla visita aveva presentato un’interrogazione parlamentare sullo stato della struttura.

"Ho appena appreso, ha dichiarato il deputato indipendente del Prc, che un internato straniero è deceduto all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Ritengo indispensabile, considerato la giovane età, le inaccettabili condizioni di detenzione in cui versano la maggior parte degli internati, e il fatto che solo nel mese di ottobre-novembre, si siano registrati due suicidi di internati, un indagine immediata, accurata e approfondita.

È indispensabile avviare un percorso che porti alla chiusura e al superamento degli Opg, e, in attesa dell’annunciato disegno di legge del governo, presenterò una proposta di legge in tal senso. Ma, in attesa che questo percorso di chiusura si compia, dobbiamo assicurare condizioni di vita dignitose agli internati e dimettere da subito quelli per i quali non sussiste alcun tipo di pericolosità sociale.

Avverto poi, ha concluso Caruso, maggiori responsabilità per gli internati di Aversa, che mi hanno confidato il loro malessere e la loro sofferenza. Ho il dovere di tutelare la loro fiducia. Si faccia chiarezza, subito, sulle cause di questo decesso. Lo chiedo alla magistratura, ma lo chiedo anche la Ministro della Giustizia."

 

Atto Camera - Interrogazione a risposta scritta 4-02405, presentata da Francesco Saverio Caruso mercoledì 31 gennaio 2007 nella seduta n° 101

 

Caruso. - Al Ministro della giustizia, al Ministro della salute. - Per sapere - premesso che: in data 28 dicembre 2006 l’interrogante si è recato in visita presso l’ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa "Filippo Saporito", che ospita circa 300 internati e ha visitato la Sezione cosiddetta "Staccata" e i reparti 5 e 6 della struttura; nell’Opg di Aversa, si sono registrati, nel 2006, due suicidi in soli trenta giorni, uno nel mese di ottobre e un altro nel mese di novembre; gli internati presentati nella sezione cosiddetta "Staccata" versavano tutti in condizioni di evidente degrado fisico, vestiti con abiti laceri e maleodoranti, presentando molti di loro segni di evidenti dermatiti e una ancora più evidente assenza di cura dell’igiene personale; la condizione di abbandono fisico non era legata a stati di scarsa lucidità psichica, visto che molti degli internati, durante il colloquio, si mostravano presenti a se stessi e, seppur in condizioni di disagio psichico, consapevoli dello stato di degrado in cui versavano; tra gli internati incontrati nel cortile ve ne erano, però, diversi che apparivano in stato di grave abbandono fisico e psichico, ripiegati su stessi e completamente assenti o impegnati in gesti ripetitivi nella completa indifferenza e assenza di personale medico; le celle di questi internati erano completamente spoglie, prive, cioè, al di là del letto e delle coperte, di ogni tipo di arredo o suppellettile, senza neppure un tavolo o delle sedie; la sala dei letti di contenzione è una saletta composta da tre letti adiacenti, rimasta immutata in questi anni, e alla quale ancora oggi si fa ricorso; dalla consultazione del registro è emerso che un internato Marco Orsini è stato costretto al letto di contenzione per oltre 11 giorni di seguito nel mese di dicembre c.a.; pur "ospitando" la struttura circa 300 internati vi è un solo educatore, a fronte di circa, 80 agenti di custodia; gran parte del personale infermieristico e quello psichiatrico è a contratto, con un monte ore di consulenza inadeguato ad ogni principio di cura; il personale di polizia penitenziaria che lavora in OPG non riceve una specifica formazione per persone con problemi psichici e proviene da ordinari istituti di pena; la cifra per il vitto che l’Amministrazione penitenziaria spende per ciascun internato è di appena 1,50 euro al giorno; si è verificata l’assenza di farmaci, in particolare il Depatox, per la cura di epatiti, e l’impossibilità o la difficoltà ad effettuare visite dermatologiche; in molte celle manca carta igienica e sapone; molti internati lamentano che non siano concessi i colloqui telefonici straordinari; nel mese di dicembre è venuto a mancare per lungo periodo il riscaldamento; i tempi di attesa per un colloquio con l’educatore professionale sono lunghissimi; i tempi di permanenza in Opg di moltissimi internati sono sproporzionati al tipo di reato addebitato e molti degli internati sono in proroga di misura di sicurezza; ad esempio, durante la visita lo scrivente ha incontrato Costantino Corona, internato da circa 30 anni, che era in un evidente stato di abbandono e di assenza di pericolosità sociale, dato che stentava a reggersi in piedi e che si comportava come un bambino di pochi anni; non vi è nessun raccordo tra amministrazioni penitenziaria, territori, istituzioni locali e Asl, per cui, anche in presenza di protocolli di intesa, gli internati si vedono prorogata la misura di sicurezza perché la pericolosità sociale dell’internato è data dall’assenza di strutture di accoglienza -:

se non ritenga opportuno, alla luce di quanto esposto, attivare una immediata ricognizione delle condizioni di internamento dell’OPG di Aversa e se non ritenga opportuno porre in essere atti e provvedimenti tesi a porre rimedio allo stato di abbandono e degrado in cui versano molti degli internati, in particolare quelli ristretti nella sezione "Staccata"; se esistano protocolli di intervento per internati costretti al letto di contenzione e quali direttive abbia il personale medico nel determinare modalità e tempi della contenzione; quanti siano, secondo le stime del ministero, gli internati in proroga di misura di sicurezza e se tale proroga sia accompagnata, invece, da una perizia psichiatrica favorevole alla cessazione della misura, nei sei Opg presenti nel nostro paese; se, contestualmente al sensibile miglioramento delle condizioni di detenzione che vanno almeno riportate a quanto prescritto dall’ordinamento penitenziario, il Ministro intenda adottare iniziative volte ad attivare percorsi di dimissione degli internati per i quali non sussista più la condizione di pericolosità sociale; se, come annunciato dalla stampa, il Governo abbia intenzione di presentare un progetto di legge per la chiusura e il superamento degli Opg.

Roma: medici penitenziari sono senza stipendio da 6 mesi

 

L’Unità, 11 febbraio 2007

 

Da sei mesi non ricevono lo stipendio e adesso, da tre giorni, hanno deciso di incrociare le braccia. A protestare sono i medici penitenziari convenzionati che lavorano al carcere Regina Coeli. "Una situazione di estrema difficoltà - denuncia il garante regionale dei detenuti Angiolo Marroni - soprattutto se si considera che il carcere di Regina Coeli è uno dei Centri Diagnostici e Terapeutici nazionali, con detenuti qui trasferiti da tutta Italia e in attesa di visite o interventi anche di una certa entità da mesi".

Non è comunque tutto. È lungo, infatti, l’elenco dei disagi denunciati dal garante dei detenuti. Per la precisione acqua che allaga le celle e inzuppa i muri e i soffitti, bagni troppo piccoli, porte strette e detenuti che si improvvisano infermieri per aiutare chi non riesce a muoversi autonomamente. Disagi che secondo il garante dei detenuti della regione Lazio Angiolo Marroni si registrano nel Centro Diagnostico e Terapeutico (Cdt) del carcere.

Situazioni drammatiche che rischiano di diventare paradossali, soprattutto perché il carcere di regina Coeli è considerato, nel settore della sanità carceraria una sorta di eccellenza. "Il Centro clinico di un carcere - è la denuncia del garante - è il luogo dove vengono ricoverati non solo i detenuti bisognosi di cure ma anche quelli che, per motivi diversi, non possono vivere nelle condizioni igienico-sanitarie, logistiche e ambientali di una cella. Un luogo che dovrebbe essere estremamente accogliente ma che, evidentemente, nel caso di Regina Coeli non lo è".

Secondo quanto riferito dal garante nei tre piani del Centro diagnostico e terapeutico di Regina Coeli, dove attualmente sono ricoverate una sessantina di persone, l’acqua calda non è sempre garantita, mancano i campanelli sui letti per segnalare le necessità durante la notte, i guanti monouso per accudire e lavare i detenuti malati e i materassini antidecubito. "Una situazione che potrebbe essere ancor più drammatica - prosegue - se non fosse per l’innegabile impegno degli operatori e della direzione del carcere che si trovano a fare i conti con i limiti finanziari, nonché strutturali di un edificio ultracentenario".

Roma: detenuto 24enne sofferente psichico tenta il suicidio

 

L’Unità, 11 febbraio 2007

 

Francesco (il nome però è di fantasia) ha 24 anni ed è un sofferente psichico. In carcere non ci voleva stare e, secondo quanto racconta il presidente della consulta penitenziaria di Roma, "forse non ci sarebbe dovuto essere". Ha cercato di uccidersi impiccandosi con il lenzuolo in una cella del carcere di regina Coeli. L’hanno salvato all’ultimo momento gli uomini della polizia penitenziaria e ora sta nella settima sezione dello stesso carcere, dove ci sono i detenuti sotto stretta osservazione.

"Francesco in carcere non ci deve stare - spiega Lillo di Mauro, presidente della Consulta del Comune di Roma, è un ragazzo con gravi problemi psichici e c’è il rischio che possa fare un altro atto di questo tipo. È chiaro che ora sia sotto osservazione, la sua è una storia di ordinaria disperazione. Quella di chi in carcere non ci dovrebbe stare".

Francesco in carcere ci è finito qualche giorno fa. "È stato arrestato perché è andato in un negozio - racconta di Mauro -, ha dato il suo nome ed anche il cognome e l’indirizzo ed ha aggiunto "Da domani vengo a tutti i giorni a ritirare da voi i soldi"". Francesco che in negozio si è presentato senza armi ha salutato ed è andato via. Subito il commerciante ha chiesto l’intervento dei carabinieri. "I militari sono andati a casa e lo hanno arrestato - prosegue di Mauro -. Il giudice ha poi imposto per lui gli arresti domiciliari presso una struttura pubblica.

Ma in realtà sono tre giorni che sta in carcere dove non dovrebbe assolutamente stare". E dietro le sbarre Francesco, che viene puntualmente seguito dal Cim, il centro di igiene mentale, ha mostrato subito i segni dell’insofferenza e quanto è rimasto solo in cella ha cercato di uccidersi trasformando il lenzuolo in un cappio.

L’hanno salvato gli uomini della polizia penitenziaria che hanno chiesto l’intervento dello psichiatra per sedarlo. Adesso, che è fuori pericolo, lo controllano 24 ore su 24 mentre i volontari della consulta si stanno attivando per farlo trasferire in una struttura protetta. "In carcere non ci deve stare - conclude di Mauro - e dato che la madre non ha un lavoro, questo ragazzo deve essere portato in un centro di assistenza sanitaria".

Treviso: un biliardino da Padova in regalo ai ragazzi dell’Ipm

 

Il Gazzettino, 11 febbraio 2007

 

A consegnarlo è andato l’assessore ai Servizi Sociali del Comune di Padova Claudio Sinigaglia, che sta collaborando attivamente con le associazioni di volontariato che si occupano del recupero dei ragazzi che finiscono dietro le sbarre." Al penitenziario minorile Treviso - spiega il vice sindaco di Padova - finiscono anche i giovani padovani. L’altro giorno sono andato a visitare la struttura e in effetti ce n’erano due o tre. Molto importanti sono le iniziative che si stanno portando avanti coinvolgendo anche le scuole che, dopo un’adeguata preparazione, hanno visitato il carcere". "È venuto anche don Luigi Ciotti - ha detto ancora l’assessore al Sociale - che ha speso una vita per aiutare i detenuti: è un personaggio straordinario e spero di poterlo avere come ospite a Civitas". I giovani gli hanno fatto un sacco di domande sulla sua attività e in particolare gli è stato chiesto come mai abbia deciso questo percorso di vita.

Gli incontri in carcere a cui partecipano anche le scolaresche saranno contenuti un Dvd che Sinigaglia sta realizzando con il regista Bisatti. Nei progetti del vice sindaco c’è anche quello di avviare un osservatorio minorile in collaborazione con il magistrato di sorveglianza, sempre coinvolgendo il mondo del volontariato che si occupa di queste tematiche.

Udine: nel carcere 95 detenuti, prima dell’indulto erano 190

 

Il Gazzettino, 11 febbraio 2007

 

"I detenuti nel carcere di via Spalato sono 95, esattamente la metà dei 190 reclusi presenti all’inizio di agosto 2005, prima dell’effetto della legge di indulto; 39 sono italiani e 54 extracomunitari; la sezione femminile è chiusa da alcuni anni; i semiliberi, ammessi al lavoro esterno, oggi erano 2 mentre prima dell’indulto erano ben 22; lavoranti interni 17. La popolazione detenuta, in gran parte in attesa di giudizio, è comunque con condanne inferiori ai 5 anni".

È quanto si legge in una nota a firma della delegazione radicale che ieri ha visitato la Casa Circondariale di Udine. C’erano il deputato della Rosa nel Pugno Bruno Mellano, accompagnato da Lorenzo Lorenzon, presidente dell’Associazione Radicali Friulani, Gianfranco Leonarduzzi e Alessandro Rosasco, membri del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, Valter Beltramini, militante storico radicale di Udine. Al termine della visita Bruno Mellano ha dichiarato: "Con i compagni radicali friulani, che da sempre seguono attivamente la situazione del circuito penale delle 5 carceri in Fvg, ho visitato una struttura profondamente rinnovata e riaperta nel 2005 dopo significativi lavori di adeguamento funzionale".

Sanità: la medicina legale in carcere, di Lucio Alecci

 

Società di Medicina Penitenziaria, 11 febbraio 2007

 

Le problematiche medico-legali che gli operatori sanitari affrontano giornalmente durante l’attività negli Istituti di Pena sono molteplici per numero e notevoli per importanza. Ricordo quando, ancora studente universitario, assistetti alla mia prima lezione di medicina-legale, presso l’Università di Pavia e l’allora Direttore, il prof. A. Fornari, disse a noi tutti "per diventare dei bravi medici-legali dovreste lavorare per un periodo in carcere.

In ambiente penitenziario gli aspetti medico-legali li affrontate giornalmente e sin dal primo momento che avete accesso in un Istituto di Pena; ogni intervento medico, sia in favore dei detenuti che degli agenti di polizia penitenziaria, è intriso di spunti medico-legali e ogni decisione che dovete prendere è, a tutti gli effetti, un provvedimento medico-legale.

Dovreste disaminare accuratamente il Diario Clinico dei detenuti, per capire l’accortezza con cui è redatto e la precisione con cui è compilato da parte dei medici penitenziari, la novizia di particolari che è riportata su ogni certificato medico. Dovrebbero imparare dai medici penitenziari i clinici degli ospedali, che molte volte redigono le cartelle cliniche in modo frettoloso ed inesatto".

Forse è stato proprio quanto detto dal mio grande maestro a spingermi ad affacciarmi al mondo della medicina penitenziaria, ambiente dal quale, ormai da 15 anni, non sono più riuscito ad allontanarmi. Ogni giorno, tutti noi che operiamo all’interno degli Istituti di Pena, dovremmo tenere saldo il principio espresso del cattedratico pavese, dovremmo portare le sue parole come fiore all’occhiello per la nostra professione, ancor più per molti di noi che medici-legali non lo sono sulla "carta", ma che di fatto ne svolgono l’attività ogni giorno.

E gli aspetti medico-legali all’interno di un Istituto di Pena sono tanti, e Voi lo sapete bene. Non mi stancherò mai di ripetere che la realtà carceraria è enormemente differente dalla realtà del mondo esterno. I pazienti "liberi" si rivolgono alle cure del medico per essere curati e, se possibile, per guarire. I pazienti "detenuti" hanno bisogno del medico per fare sapere che esistono, in alcuni casi per riscoprire la propria dignità. E allora il lavoro del medico penitenziario diventa ancora più difficile. Sono numerosi i casi e molteplici le forme di simulazione, e lì il bravo medico penitenziario deve coglierne la veridicità e capire le motivazioni di tale manifestazione.

Vi sono i casi di autolesionismo, che richiedono certificazione clinica ma soprattutto medico-legale affinché, a tutela del sanitario, vengano indicate l’entità delle lesioni, la prognosi e i rischi compatibili con eventuali ulteriori episodi che potranno avere espressione. In questi casi i provvedimenti da intraprendere spettano alla Polizia Penitenziaria, ma l’indicazione sanitaria al trattamento diventa indispensabile per meglio affrontare il problema.

La stessa tutela della salute del detenuto è un principio intriso di aspetti medico-legali. Bisogna riuscire a cogliere quei sintomi o segni, soggettivamente riferiti o oggettivamente riscontrati, che implicano la necessità di segnalazione alle autorità competenti o l’accortezza di prendere semplici provvedimenti interni all’Istituto.

Non si può poi dimenticare che in una collettività molto spesso è necessario mettere in atto provvedimenti medico-legali finalizzati a prevenire il propagarsi o il reiterato perpetrarsi di situazioni e che, se non idoneamente contrastati, si corre il rischio possano, come un boomerang, ripercuotersi sui sanitari che non hanno idoneamente operato. E ancora la gestione dei soggetti in astensione volontaria dall’alimentazione, che richiede provvedimenti (a tutela dei sanitari) che vanno ben oltre il semplice certificato giornaliero di vista medica.

Al riguardo Vi narro velocemente un fatto accaduto alla fine del 2006 (dico velocemente in quanto ritengo che tutti questi argomenti dovranno essere sviluppati con un certo criterio e comunque secondo un programma che verrà stabilito dall’Uosp). Sono stato contattato da un GIP di un Tribunale (non della nostra regione), in quanto un Sanitario Incaricato di un Istituto di Pena risulta essere indagato per la non corretta gestione di un detenuto, tossicodipendente fino al momento dell’arresto, in astensione volontaria dall’alimentazione.

Il suddetto detenuto, sebbene regolarmente sottoposto alle visite mediche giornaliere, la seconda settimana di sciopero della fame, a causa di uno stato vertiginoso, sarebbe caduto al suolo battendo il capo contro il montante di una finestra. Ne è derivato, come accertato con l’esame Tac encefalo eseguita, un ematoma sub-durale. Ebbene, secondo il P.M. che ha formulato l’accusa, il sanitario incaricato, sebbene abbia effettuato diligentemente le visite mediche giornaliere, avrebbe dovuto (anche!) sottoporre il detenuto a visita da parte del medico del Ser.T., in quanto, quest’ultimo, avrebbe potuto fornire utili indicazioni circa il trattamento medico da seguire, in quanto secondo il PM, la decisione del detenuto di perpetrare tale forma di protesta poteva essere condizionata dall’astinenza da sostanze stupefacenti. Mi chiedo quanti di voi hanno sottoposto (o anche gli è mai lontanamente venuto in mente di sottoporre) un detenuto in sciopero della fame a consulenza da parte degli operatori del Ser.T. soltanto perché questo in regime di libertà era un tossicodipendente? Penso nessuno di voi (se vi consola neanche io lo ho mai fatto).

Questo ci fa capire, comunque, che, come disse il "buon" prof. Fornari, le problematiche medico-legali in carcere le affronti dal primo momento che fai l’ingresso in istituto. Numerosi altri sono gli aspetti medico-legali nell’attività del medico penitenziario. Per citarne alcuni: il separare, come avviene in alcuni Istituti, i soggetto portatori di malattie infettive quali le epatiti o il virus Hiv, dovrebbe essere cosa da evitare in quanto ciò finirebbe con il ghettizzare i soggetti "malati" creando dei lazzaretti all’interno degli Istituti di Pena.

Viceversa, se il soggetto siero-positivo, a tutela della sua privacy, non accetta che il compagno di cella venga informato della sua condizione di malattia, il medico penitenziario può essere perseguibile in quanto c’è lo stato di necessità che impone l’informazione ai conviventi. A ciò si può aggiungere che può diventare più facile il contagio, in quanto l’attenzione ad evitare le possibili fonti di contagio non è reciproca ma soltanto del soggetto malato (pensa il caso in cui il detenuto, non sapendo che il concellino è portatore di malattia contagiosa, ne utilizza gli asciugamani, lo spazzolino, la lametta).

Provate poi a pensare se un detenuto entra in carcere sano e contrae un’epatite o l’HIV in carcere. Ne diventa responsabile l’Amministrazione Penitenziaria ed il medico della struttura (il dirigente sanitario o il coordinatore sanitario), se si viene ad evidenziare che il soggetto ha "abitato" con altro detenuto malato e se la trasmissione virale tra i due coabitanti la cella viene confermata dal medesimo genotipo.

Altro caso emblematico, di tipo prettamente medico-legale, è quello della compatibilità carceraria. Secondo le linee guida più comuni, per incompatibilità carceraria si deve intendere una compromissione importante dell’integrità fisica e psichica di un individuo, tale da non consentire le cure necessarie in stato di detenzione. O ancora, condizioni di salute particolarmente gravi che possano ulteriormente essere pregiudicate dall’essere reclusi e conviventi di una collettività a stretto contatto. Io direi che all’idea di incompatibilità oggettiva bisogna sempre accostare il punto di vista soggettivo, da rapportare alla "realtà locale". Mi spiego meglio.

I parametri della gravità devono essere sempre rivolti e modulati alla natura delle cure da prestare ma soprattutto all’idoneità di quella struttura penitenziaria a praticare la terapia adeguata al singolo caso. Un caso clinico può essere ritenuto grave nell’Istituto in cui risultino vane o del tutto inefficaci le misure terapeutiche ed il monitoraggio clinico e strumentale che si può garantire, mentre può essere gestibile in altro carcere in cui possono essere perpetrate idonee cure mediche e formulata giusta diagnosi.

Altri casi medico-legali sono la necessità di certificazioni mediche su richiesta del detenuto, non tanto per esigenze giuridiche, quanto le certificazioni necessarie per le domande di invalidità civile che, almeno formalmente, dovrebbero per noi non essere obbligatorie, in quanto il detenuto può ricorrere alle prestazioni di consulenti medici esterni per tali necessità, ma che diventano tali laddove il soggetto è indigente ed è suo diritto poter usufruire del sostegno delle pensione di invalidità laddove avesse i requisiti.

State pur certi che non scevro da rischi è il vostro rifiuto a redigere la certificazione se venisse accertato che un soggetto, a cui voi avete negato tale tipologia di certificazione medica (non bisogna dimenticare che il medico penitenziario è il medico curante delle persona detenuta), avrebbe potuto usufruire della pensione di invalidtà magari parecchi anni prima?

E ancora altri casi (sono solo alcuni degli innumerevoli che si presentano giornalmente): la responsabilità dei sanitari in caso si assunzione massiva di farmaci da "accumulo"; gli aggravamenti delle condizioni patologiche preesistenti l’attività lavorativa, propria di quei detenuti lavoranti a cui avete certificato l’idoneità alla mansione; l’idoneità a somministrare la terapia da parte delle infermiere generiche, Asa e Ota (sebbene "sulla carta" equiparate per mansioni ed economicamente agli infermieri professionali); i detenuti che rifiutano i farmaci "salvavita" con ingravescente andamento delle condizioni generali; i diabetici che rifiutano la somministrazione dell’insulina; le relazioni sanitarie di compatibilità richieste dai magistrati, che pongono il sanitario in una condizione di "conflitto" sia con il detenuto che deve essere periziato che con la stessa attività di medico curante; le certificazioni di lesioni personali a seguito di colluttazione tra detenuti.

 

Lucio Alecci, medico nella C.C. di Pavia

Sanità: fare il medico in carcere, di Michelangelo Poccobelli

 

Società di Medicina Penitenziaria, 11 febbraio 2007

 

Quando mi capita di parlare con qualche amico del mio lavoro al carcere di Milano-Opera, la domanda che spesso mi viene fatta è:" com’è lavorare in carcere"? La risposta è in realtà descrittiva: io posso raccontare cosa accade ma non mi è possibile comunicare quello che sento ,e che è la vera essenza dell’attività del medico penitenziario, con parole che si limitano semplicemente a descrivere. Nel tentativo di trovare il modo di far partecipi i non addetti ai lavori dell’essenza di questo mondo poco conosciuto, mi sono reso conto che l’immagine più immediata e più verosimile è il gioco del Monopoli.

Lavorare in carcere è come iniziare una partita di Monopoli: ti siedi al tavolo conoscendo le regole (quelle scritte) e se giochi per un poco di tempo impari lentamente anche quelle non scritte (che a differenza di quelle scritte non ti consentono solo di giocare ma anche e soprattutto di vincere o perdere). I giocatori sono tanti: alcuni giocano per loro esplicita decisione (gli operatori civili, la polizia) altri vi sono costretti (ovviamente i detenuti).

Ciascuno dei giocatori gioca per vincere: per gli operatori ciò significa portare a termine il proprio compito istituzionale e riceverne il meritato (non sempre) compenso. Per i detenuti vincere significa paradossalmente uscire dal gioco (leggi: uscire dal carcere; leggi: la libertà).

Nessuno dei giocatori proviene da qualche pianeta extra galassia: ognuno di loro può essere ritrovato per strada, ai grandi magazzini, al cinema. I simboli che li differenziano sono attribuiti solo durante il gioco; al di fuori di esso nessuno è riconoscibile come giocatore. L’unica cosa che differenzia il giocatore dal non giocatore è la conoscenza delle regole del gioco, scritte e non scritte. Fra i giocatori si crea una sorta di società per cui è molto più facile che si comprendano due giocatori (qualunque sia il simbolo che indossino) piuttosto che un giocatore e un non giocatore. Questo perché i giocatori conoscono e accettano le regole del gioco.

Ai non giocatori le regole non interessano ma, e qui devo introdurre un "ma" denso di significati,ogni non giocatore può diventare un giocatore di entrambi i tipi (cioè per scelta o per costrizione). Una volta introdotta questa chiarificazione (o meglio quello che credo sia una colorita chiarificazione) è più facile affrontare la domanda di cosa significhi lavorare in un carcere.

Si tratta di un mondo inizialmente strano (come tutti i mondi che hanno regole peculiari) e sempre triste (anche il riso ha un suo timbro particolare in cui manca la serenità). Progressivamente la stranezza scompare e diventa strano chi dall’esterno pare non capire; la tristezza non scompare mai:fa parte delle regole del gioco. La stranezza consiste,e non potrebbe essere altrimenti nella mancanza di conoscenza: per chi lavora (o vive) in carcere questo mondo non è per nulla strano.

La tristezza è inevitabile in un luogo che,per quanto si voglia identificare con un ambiente di rieducazione (non vengono in mente le "missioni di pace"?) in realtà e fino a che uno spirito illuminato ed innovatore non accenderà la lampadina, rimane un luogo di pena. Parte di questa pena rimane attaccata addosso anche agli operatori che per loro merito (o fortuna?) ad una certa ora rientrano nel mondo vero (è proprio vero?). Cosa vuol dire lavorare in carcere? Forse vuol dire partecipare al gioco con il Male, vedendolo in parte riflesso in noi stessi ma sforzandoci di operare con quella parte di Bene che vi convive.

 

Michelangelo Poccobelli, medico nella C.R. di Opera

Sanità: riflessioni di due infermiere professionali penitenziarie

 

Società di Medicina Penitenziaria, 11 febbraio 2007

 

Quando un infermiere professionale si candida per una collaborazione professionale con una struttura penitenziaria, diverse possono essere le ragioni che lo inducono a ciò. All’inizio la curiosità, il bisogno di fare nuove esperienze, la consapevolezza di essere più facilmente accolti, vista la difficoltà di reclutamento in altre sedi, il bisogno di un guadagno più immediato e sufficientemente garantito, in termini di continuità, possono essere tra i fattori determinanti.

Spesso a ciò può associarsi la falsa percezione che la struttura penitenziaria sia un luogo di scarso impegno, con standard sanitari non elevati ed un’organizzazione interna precaria e provvisoria. Uno scarso livello motivazionale può essere accentuato dai compensi fissati dal Dipartimento che sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli proposti da strutture private o convenzionate.

Poi accade (per quelli professionalmente più dotati o eticamente più orientati) di rendersi conto che la Medicina Penitenziaria è un ambito in cui l’impegno professionale ha una sua specificità e può essere interessante ed appassionante. Questo spinge a fare scelte professionali globali, che consentano di conservare uno spazio per tale attività. Con il passare degli anni ci si rende conto di avere acquisito esperienza ed competenze specifiche e qualificate.

Quando una collega ci raggiunge in struttura per la prima volta, ci rendiamo conto che, a prescindere da quanto è già nel suo bagaglio esperienziale (con il quale può contribuire alla crescita sanitaria di tutti) chi già svolge tale attività ha in più competenze organizzative specifiche, enfatizzate dalla necessità di garantire la "sicurezza" interna, nella sua più ampia accezione, di curare la tenuta in ordine e la gestione delle documentazioni, di contribuire alla gestione dei farmaci e dello spazio interno adibito a deposito di questi.

Competenze giuridiche, correlate alla natura degli interventi infermieristici che si devono compiere ed alle informazioni che bisogna acquisire, ai fini di una corretta collaborazione con i medici; capacità di approccio al disagio psichico, ricorrente e costante in persone private della libertà.

Competenze specialistiche in ambiti come la psichiatria, la tossicologia, l’infettivologia, l’odontoiatria, presenti in tutte le strutture o anche in relazione ad altre branche specialistiche attivate all’interno. Di counselling, visto che un’adeguata informazione e supporto su problematiche sanitarie specifiche è essenziale in un ambito multietnico e quindi con più culture.

Ci rendiamo conto di come le esigenze di supervisione sulla tenuta igienica degli ambienti o il supporto alle persone possa incidere notevolmente sulla qualità dell’esperienza detentiva e che anche noi, nel nostro piccolo, possiamo essere espressione della civiltà dello Stato, al cui servizio (sia pure, in genere, da libere professioniste) ci siamo poste.

Essere Infermieri Penitenziari, non è dequalificante; non siamo operatori di serie B, anzi siamo assolutamente convinti della nostra specificità e cercheremo, con umiltà, di testimoniarlo anche attraverso questa pagina. In conclusione riteniamo di potere affermare che per un infermiere motivato non c’è differenza tra un posto di lavoro ed un altro, l’importante è che la voglia di scoprire situazioni nuove sia sempre viva.

 

Rosy Francone e Cristiana De Luca 

 

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