Rassegna stampa 31 dicembre

 

Giustizia: Opg di Napoli; non trasferite gli internati...

 

La Repubblica, 31 dicembre 2007

 

"A Sant’Eframo non trasferite i reclusi, ma fate i lavori di ristrutturazione per lotti". La richiesta è dei parlamentari Marcello Taglialatela (An) e Tommaso Pellegrino (Verdi), che insieme al presidente del Consiglio comunale Leonardo Impegno, ieri mattina hanno visitato l’ospedale psichiatrico giudiziario, da una settimana sotto minaccia di "sfratto".

L’amministrazione penitenziaria vuole spostare ("per impellenti motivi di sicurezza") 30 dei 78 detenuti nell’Area verde di Secondigliano. E da giorni è battaglia tra gli operatori dell’ospedale, che parlano di " "una vera e propria deportazione", e il provveditore regionale alle carceri, Tommaso Contestabile, che difende il trasferimento ("momentaneo e che sarà effettuato con tutte le accortezze necessarie"). Ora, in questa battaglia a due voci si aggiunge quella della piccola delegazione che ieri ha varcato i cancelli dell’ospedale giudiziario e ha visto senza filtri le condizioni delle celle di San’Eframo.

"Abbiamo fatto un lungo giro nell’ex convento. Abbiamo visto le stanze, che dividono in quattro detenuti, ma che sono ampie e ben tenute, il campo di calcio, la sala multimediale. E almeno una parte della struttura ci sembra in buone condizioni", dice all’uscita da Sant’Eframo Leonardo Impegno. "Qui stiamo bene - incalzano gli operatori - perché grazie agli agenti che vigilano sul lavoro curato dagli stessi internati e ad alcuni detenuti abbiamo costantemente curato la manutenzione ordinaria".

"Certo c’era anche una parte del muro di recinzione cadente - continua Impegno - e una grande area della struttura abbandonata e fatiscente. Però, perché spostare repentinamente i detenuti, che hanno anche problemi di salute, e invece non prendere in considerazione l’ipotesi di cominciare la ristrutturazione dall’area abbandonata? Anche perché è stato finanziato solo il primo lotto (su quattro) dei lavori e non si sa con certezza né quando comincerà la ristrutturazione, né quando arriveranno i fondi per gli altri lotti".

Ed è stato proprio questo il cuore del fitto botta e risposta tra la delegazione, il direttore dell’ospedale giudiziario, Salvatore De Feo, e i due delegati di Contestabile, Cosimo Giordano e l’ingegnere Luigi Vecchio (responsabile della Visag, l’organo per la verifica della qualità delle strutture"). Ecco alla fine la conclusione dei visitatori: "La migliore cosa possibile sarebbe quella di non trasferire i detenuti e procedere nella ristrutturazione per lotti", come dice Impegno.

"Al momento un’ala dell’ospedale è vuota - ribadisce Taglialatela - ed i lavori potrebbero cominciare da lì, in seguito si potranno ristrutturare le celle ed adeguare il resto delle aree dell’edificio, che comunque non sono proprio in cattive condizioni". Pellegrino promette: "Verificheremo in commissione Bilancio di quali fondi disponiamo, ma l’ipotesi di traslocare i detenuti a Secondigliano è l’ultima spiaggia".

Seguono la vicenda Sant’Eframo anche gli onorevoli del Pd, Donato Mosella e Maria Fortunata Incostante e Francesco Maranta, responsabile sanità del Pdci in Campania, che ha chiesto un intervento urgente all’assessore regionale alla Sanità, Angelo Montemarano. "Il 2007 è ormai finito. Noi non sappiamo cosa ci aspetta con l’anno nuovo, ma ora più che mai continueremo a mantenere alta la guardia" assicurano gli operatori.

Giustizia: legge Basaglia… dopo trent’anni ancora il caos

 

La Gazzetta di Modena, 31 dicembre 2007

 

Coniugi che uccidono e si uccidono, madri che ammazzano i propri figli, ragazzi che usano tutti i tipi di droghe per uscire da giorni sempre uguali pieni di noia. Suicidi, soprattutto di giovani e anziani in aumento: si chiude un anno nero per la psichiatria di casa nostra. Le diverse tragedie all’interno di mura domestiche con l’inferno dentro, causato dalla presenza in famiglia di un malato di mente, riportano in primo piano la legge 180 o legge Basaglia o quella che ha chiuso i manicomi.

Sin dalle prime settimane dell’anno che arriva, il 2008, sono previsti infatti convegni, seminari, congressi per celebrare o accusare i trent’anni di questa legge che avrebbe dovuto (almeno sulla carta) eliminare il concetto di "pericolosità per sé e per gli altri". La realtà è invece ben diversa: il manicomio va progressivamente ritornando addirittura nelle strutture territoriali, al punto che è entrato in uso un nuovo termine: il terricomio.

A distanza di trenta anni dalla legge che avrebbe dovuto cancellare per sempre i manicomi, siamo costretti infatti a constatare che la comunità dei malati di mente si è oggi parcellizzata in una società impreparata culturalmente oltre che strutturalmente ad accoglierli. Le paure dell’uomo della strada nei confronti dei matti si sono addirittura moltiplicate, e queste persone vengono, giorno dopo giorno, considerate sempre più pericolose per sé e per gli altri.

Tutti i gesti estremi che evidenziano situazioni di profondo disagio psichico, le cosiddette tragedie della follia vengono addirittura pubblicizzati ed enfatizzati dai vari mass media che hanno trovato nella psichiatria biologica e nelle industrie farmaceutiche i più grossi sostenitori. Al manicomio, istituzione ingombrante, complessa, problematica e che crea profondi sensi di colpa all’interno delle famiglie, si è sostituita oggi la chimica che circoscrive la follia non nel recinto di una costruzione, ma all’interno dell’individuo, nel chiuso della sua mente o, se si preferisce, dell’anima.

Accade così che i pazienti psichiatrici sono paradossalmente più soli di prima, e ancora più sole e disperate le famiglie che hanno in casa un malato di questo tipo. Famiglie abbandonate soprattutto dai servizi sanitari che hanno praticamente cancellato l’assistenza domiciliare alla continua ricerca di situazioni di ricovero: posti letto ospedalieri o residenziali.

Dove sono tornati i letti di contenzione, e dove massicce dosi di psicofarmaci sono diventati di fatto vere e proprie camicie di forza chimiche. E dove purtroppo lavora un personale insufficiente sia quantitativamente che qualitativamente e al quale si richiede sostanzialmente il controllo. Addirittura in psichiatria è ormai del tutto assente nelle istituzioni gravi il volontariato. Necessitano il prima possibile radicali cambiamenti. Che senso hanno infatti convegni e congressi sulla 180 nel prossimo 2008 in queste condizioni?

 

Camillo Valgimigli, psichiatra Ausl di Modena

Giustizia: quattro poliziotti penitenziari suicidi in 10 giorni

 

Comunicato stampa, 31 dicembre 2007

 

Dalla preoccupazione all’emergenza. Assume aspetti estremamente preoccupanti il fenomeno dei suicidi tra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. Negli ultimi dieci giorni di dicembre 2007, infatti, ben 4 Baschi Azzurri in servizio nei vari penitenziari italiani si sono tolti la vita. Dopo gli episodi verificatisi nei giorni scorsi a Modena, Verbania e Imperia, ieri 30 dicembre 2007 a Tempio Pausania si è suicidato un sovrintendente di Polizia Penitenziaria, assegnato al carcere genovese di Marassi e attualmente in servizio nel penitenziario di Sassari.

"È una vera e propria emergenza" commenta con preoccupazione Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’Organizzazione più rappresentativa della Categoria con oltre 12mila iscritti. "4 suicidi in poco più di 10 giorni è davvero un dato da leggere con estrema preoccupazione, rispetto al quale il Ministro della Giustizia Clemente Mastella ed il Capo dell’Amministrazione penitenziaria Ettore Ferrara devono assumere con urgenza provvedimenti.

Da molto tempo, come Sindacato più rappresentativo della Polizia Penitenziaria, cerchiamo di monitorare questa drammatica realtà, anche se in realtà in Italia non esistono molti studi riguardanti gli operatori penitenziari. Nel 2001 è stata effettuata una ricerca in un penitenziario di media grandezza dell’Emilia Romagna per studiare la presenza o meno di "burn-out" negli operatori.

Per "burn-out" si intende una forma di disagio professionale protratto nel tempo e derivato dalla discrepanza tra gli ideali del soggetto e la realtà della vita lavorativa. Il "burn-out" interessa categorie lavorative in cui il rapporto con gli utenti - nel nostro caso principalmente i detenuti, ma non escluderei anche le conflittualità interprofessionali in una struttura fortemente gerarchizzata quale è la nostra - ha un’importanza centrale in termini di coinvolgimento umano, di realizzazione lavorativa e dello stress che esso produce, anche in relazione ad oggettive difficoltà quali le carenze di Personale e la vetustà degli ambienti di lavoro. Ed è perfettamente comprensibile che chi lavora in carcere possa andare incontro a questa sindrome, .

"È per questo" conclude Capece "che riteniamo che anche l’istituzione di appositi Centri specializzati in grado di fornire un buon supporto psicologico possa essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile, all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la Polizia Penitenziaria. In tal senso, rivolgiamo un pubblico appello al Ministro Mastella ed al Capo Dap Ferrara perché aprano un confronto con le Organizzazioni sindacali del Corpo sulla drammatica realtà dei suicidi nella Polizia Penitenziaria." Il Sappe preannuncia infine la predisposizione di una nota sull’argomento alle Autorità istituzionali e politiche, in particolare a quelle con competenze in ordine a giustizia, sicurezza e sanità.

 

Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

Giustizia: Bruno Contrada; mi trattano come Totò Riina...

 

Il Giornale, 31 dicembre 2007

 

"Non voglio la grazia ma la revisione del processo, non mollo. Di fatto chi sta trattando la mia situazione sta equiparando la mia posizione a quella di un capomafia in regime di 41bis". L’ingiustizia: "Kappler fu lasciato al Celio, a me si nega perfino una passeggiata, chiuso qui dentro e non altrove, rischio di morire".

Vederlo camminare così, biascicare parole, umiliarsi nel procedere a tentoni nelle corsie dell’ospedale Cardarelli, fa rabbia. Rabbia vera. Perché lo sbirro che ancor oggi vanta più benemerenze antimafia di qualsiasi altro poliziotto, almeno ora meriterebbe ben altro trattamento. Almeno da questo Stato che Bruno Contrada ha servito lealmente e che in assenza di prove, l’ha condannato basandosi sulle parole di quegli stessi pentiti che Contrada ha braccato, perseguito, arrestato. Ecco perché il faccia a faccia nella corsia del "reparto Palermo" tra l’ex 007 del Sisde e il suo battagliero avvocato, Giuseppe Lipera, si colora di toni forti e tinte fosche.

 

Allora dottor Contrada, perché questa mossa a sorpresa? Perché ha deciso di non ricoverarsi?

"Se in questa drammatica situazione non vi fosse da piangere, mi verrebbe anche da ridere. Tutto ciò che sta accadendo intorno a questa storia comincia ad avere risvolti surreali, patetici, incredibili. In parole povere: in questa nuova struttura sanitaria, con la scusa dei controlli medici, mi hanno sepolto vivo. Qui, non altrove, rischio di morire".

 

Prego?

"A differenza dell’ospedale militare di Santa Maria Capua Vetere dove sono stato trasferito alla luce del verdetto della Cassazione, qui la cella è ininterrottamente chiusa, come si dice in gergo, è serrata H-24. Mattina, sera, notte inclusa. Non ho diritto nemmeno a un’ora d’aria, non posso leggere i giornali, fare una passeggiata, giocare a carte.

Prima, almeno, per buona parte della detenzione, la cella rimaneva aperta e avevo modo di socializzare con i detenuti, a cominciare da quella splendida persona che è il collega Ignazio D’Antone, altra vittima delle conclamate calunnie di delinquenti mafiosi convertitisi per interesse. Di fatto chi sta trattando la mia situazione sta equiparando la mia posizione a quella di un capomafia in regime di 41bis. Contrada come Riina o Provenzano. Carcere durissimo per chi, come me - stando ai medici - ha serissimi problemi di salute. Niente male come trattamento umanitario, no? Ma c’è dell’altro".

 

Dica, dottor Contrada, dica pure.

"Come tutti sanno, gli appartenenti alle forze di polizia, per ovvii motivi, non possono coabitare nel medesimo reparto con detenuti comuni, criminali incalliti, mafiosi. Per me si è fatta un’eccezione: io convivo con costoro. Ma soprattutto per il sottoscritto non si è tenuto conto del fatto che avendo avuto un enfisema polmonare e un’ischemia, essendomi state diagnosticate malattie gravi con problemi respiratori, la scelta di ficcarmi in una cella stretta e angusta non può essere definita delle più intelligenti.

Qui i problemi si ingigantiscono, compresi quelli circolatori che mi hanno quasi paralizzato gli arti inferiori. Ma c’è una cosa (dice Contrada rivolgendosi all’avvocato Lipera, ndr) che mi lascia senza parole: nell’ultimo provvedimento il giudice, ragionando forse sul mio pedigree criminale, ha chiesto ai carabinieri di non mollarmi mai di vista e di piantonarmi giorno e notte, dimenticandosi però che il reparto era già presidiato dalla polizia penitenziaria!".

 

Cosa chiede, dottore?

"Voglio una sistemazione umana, nient’altro. Che tenga conto del mio grado di generale della polizia di Stato e del mio grave stato di salute. A Kappler fu concesso di restare all’ospedale militare del Celio, per me, 76enne acciaccato e semiparalizzato, esistono problemi più grandi. Quando anni fa finii in galera riaprirono a Palermo un carcere tutto per me (sì, ero il solo detenuto). E quando poi si trattò di decidere se mettermi fuori, su mandato del Tribunale, una commissione medica stilò una perizia allucinante nella quale si diceva che non solo non c’era incompatibilità tra le mie condizioni psicofisiche e il carcere ma che (testuale) qualora fossi stato rimesso in libertà "avrei subito uno choc di ordine psicologico notevole perché la mia psiche si era abituata alla carcerazione". Quindi era sconsigliabile un mio ritorno a casa. Ecco, mi sembra di essere tornato a quegli anni...".

 

Ci scusi Contrada, ma rispetto alla grazia lei come si pone. La chiede o non la chiede?

"Non la chiedo e mai la chiederò al capo dello Stato. Se non erro è stato il presidente Giorgio Napolitano a parlare della possibilità di questa cosa, e lo ringrazio. Come ringrazio il ministro Mastella e tutti coloro, e sono tantissimi, che stanno finalmente prendendo a cuore il mio caso interessandosi ad un processo che come dice mia moglie, grida vendetta. Non voglio grazie ma un "grazie" per tutto quello che ho fatto per questo Stato. Rivoglio l’onore che mi è stato tolto".

 

Chiede una revisione del processo?

"Sì, la chiedo perché occorre fare definitivamente luce su una delle più vergognose vicende giudiziarie di questo secolo. Supplico il Signore di darmi la forza per seguirla da vicino questa revisione, di aiutare i miei splendidi avvocati a smascherare un’operazione chirurgica compiuta, nel tempo, da loschi personaggi con la fattiva collaborazione di delinquenti mafiosi che non sono mai stati perseguiti, e dico mai, quando hanno mentito spudoratamente. Vorrei tranquillizzare tutti, a cominciare da mia moglie e mia sorella (per finire ai miei detrattori implacabili) che non mi lascio andare, non mollo. La testa c’è e ci sarà sempre. È il fisico che mi sta lasciando".

 

Rassicura anche i familiari delle vittime di mafia che hanno criticato la richiesta di grazia?

"Rispetto le opinioni di tutti, anche di chi crede che Contrada sia stato colluso con Cosa Nostra. Dico solo che per parlare bisogna sapere, non basta dire c’è una sentenza, bisogna rispettarla. Non è così. Leggetele queste sentenze, studiateli bene gli atti del processo, guardate quante incessanti e reiterate bugie hanno detto i pentiti che a tavolino si sono vendicati di me, aggiustando le dichiarazioni ogni qualvolta queste venivano smentite dai riscontri. Il processo Contrada, e ve lo dirà chiunque l’ha seguito da vicino, è tutto così. Tutto. Purtroppo ci sono, e ci saranno sempre, sciacalli e iene".

 

Antonio Di Pietro sostiene che la sua è una scorciatoia per sfuggire a una condanna per associazione mafiosa…

"Non mi faccia commentare. Di Antonio ricordo un pranzo nella caserma dei carabinieri di Roma, presente il colonnello Vitagliano, quando scese per recapitare un’informazione di garanzia a Bettino Craxi. Era su di giri, con me fu molto affettuoso. Quel pranzo (con un uomo della mafia) forse oggi gli andrebbe di traverso".

 

Favorevole o contrario a una commissione d’inchiesta sui pentiti?

"Favorevolissimo. È assolutamente necessaria. Non per Contrada ma per ristabilire la verità su tantissimi fatti di mafia. Ma non verrà mai fatta, hanno il terrore di scoperchiare la pentola".

 

Da dove cominciare per riaprire il caso Contrada?

"La prima cosa da fare è la lettura contestuale dell’ordinanza d’arresto del Gip del 23 dicembre 1992 e la richiesta a firma di quattro pubblici ministeri fatta appena due giorni prima: sono una la fotocopia dell’altra. Secondo voi, in meno di due giorni, il Gip ha esercitato un vaglio serio e approfondito delle accuse?".

 

Che cosa la disturba di più, oggi?

"Che possa apparire come un uomo vecchio, decrepito e piagnone. Sono malato, è vero, ma non voglio elemosinare nulla né pietire commozione. Chiedo solo il rispetto dei miei diritti. Mi chiamo Bruno Contrada, non sono Totò Riina".

 

Il legale: istanza in carcere o al celio

 

"Domani il magistrato di turno a Santa Maria Capua Vetere dovrà dare una risposta alla mia istanza perché Bruno Contrada sia riportato in carcere o nell’ospedale militare del Celio, come prevede il suo grado". Così l’avvocato Giuseppe Lipera, ai giornalisti, appena uscito dal padiglione Palermo dell’ospedale di Napoli Cardarelli nel quale ha incontrato il suo assistito Bruno Contrada.

Secondo il legale, le condizioni di salute dell’ex capo del Sisde rispetto al 24 dicembre sono peggiorate, anche perché "rimane dentro quel padiglione nonostante voglia andare via". Lipera sottolinea che se esistono le condizioni di salute indicate dai magistrati come causa del ricovero in ospedale, non si capisce perché Contrada non sia stato portato nell’ospedale militare, ma trasferito in una struttura civile in un padiglione per detenuti comuni.

Giustizia: Uno Bianca; niente permessi per Pietro Gugliotta

 

Ansa, 29 dicembre 2007

 

La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da Pietro Gugliotta, uno dei componenti della banda della Uno Bianca, contro la mancata concessione di un permesso-lavoro.

Nel febbraio scorso l’ex poliziotto, in carcere dal 1994, aveva ricevuto il via libera dal giudice di sorveglianza del capoluogo emiliano ma l’opposizione della Procura di Bologna aveva bloccato l’iter per la concessione del permesso di cinque giorni presso la struttura di don Giovanni Nicolini, l’ex responsabile della Caritas diocesana di Bologna.

Lo scorso 17 aprile l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza ha nuovamente chiuso le porte del carcere accogliendo il reclamo del Pm del capoluogo emiliano. Di qui il ricorso per Cassazione presentato dall’avvocato Stefania Mannino, legale di Gugliotta, secondo cui il Tribunale si era pronunciato oltre i termini previsti. Lo scorso 19 dicembre la Cassazione ha rigettato il ricorso.

L’ex poliziotto in servizio alla centrale operativa della Questura di Bologna era stato condannato a 15 anni per le rapine bolognesi della banda composta da poliziotti e a 13 per quelle riminesi, ma non per gli omicidi commessi dal gruppo guidato dai fratelli Savi. Tra la metà del 1987 e l’autunno del 1994 la banda si è resa responsabile di 24 morti e oltre cento feriti tra Bologna, la Romagna e le Marche rapinando banche, uffici postali, supermercati e sparando a testimoni, nomadi e immigrati. Nel 2000 la Corte d’Assise d’Appello aveva riconosciuto a Gugliotta la continuazione dei reati e i 28 anni erano diventati 20 di cui 12 già scontati. Grazie all’indulto, e ai benefici di legge, la sua pena terminerà nel giugno del 2008.

Milano: un caso di meningite nel carcere di San Vittore

 

Ansa, 31 dicembre 2007

 

Caso di meningite anche nel carcere milanese di San Vittore dove un detenuto italiano è stato scoperto "positivo" e sottoposto alle cure con antibiotici. Per prudenza, a profilassi sono state sottoposte anche le guardie carcerarie con le quali era entrato in contatto e verifiche sono state disposte anche in altri penitenziari nei quali era stato ristretto nelle scorse settimane.

Padova: accordo Uepe - Cooperative per reinserimento

 

Il Gazzettino, 31 dicembre 2007

 

Dopo la Conf-cooperative, ieri mattina anche l’Agci del Veneto, l’Associazione generale delle cooperative italiane, ha siglato il protocollo d’intesa con l’Uepe, l’Ufficio di esecuzione penale esterna, di Padova e Rovigo, per agevolare il reinserimento sociale delle persone sottoposte, o in attesa di esserlo, a misure alternative alla detenzione. Prima dell’entrata in vigore dell’indulto, l’Uepe di Padova e Rovigo aveva in carico 300 persone in misura alternativa, che oggi sono scese a 90.

"All’indomani dell’indulto - osserva Daria Morara, dell’Uepe - molte persone si sono trovate sulla strada senza che nessuno avesse pensato a nulla per loro. È stato quindi un provvedimento preso senza alcuna progettualità. Così, attraverso il progetto "Spazio lavoro" e la convenzione che abbiamo firmato con Conf-cooperative, prima, e oggi con Agci Veneto ci proponiamo di facilitare l’individuazione di spazi-lavoro per soggetti che provengono da circuiti penali e che possono scontare la pena in misura alternativa".

"L’accordo che abbiamo firmato - termina Daria Morara - e che sarà monitorato anche dalla Magistratura e dagli Istituti di sorveglianza rappresenta un importante passo per favorire il raggiungimento sia della riabilitazione che della sicurezza sociale". Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria infatti il ricorso all’illecito da parte dei detenuti usciti dal carcere a fine pena senza aver partecipato ad un progetto di reinserimento sociale attraverso una misura alternativa è del 68,4 per cento, mentre solo il 19 per cento è tornato a delinquere dopo avere espiato la pena seguendo un percorso alternativo. Inoltre solo nello 0,29 per cento dei casi la misura alternativa viene revocata perché chi ne usufruisce durante la fruizione commette un reato.

"La cooperazione è fondamentale - aggiunge Olga Pegoraro, presidente di Agci Veneto - per il coinvolgimento e il rispetto della persona che viene a trovarsi in determinate situazioni. Alla fine rappresentiamo una forma di calmierazione e di tranquillità non solo per il mercato, ma anche per la società".

Napoli: detenuti-donatori di sangue per bambini leucemici

 

Il Mattino, 31 dicembre 2007

 

È la loro richiesta al cardinale Sepe: donare il proprio sangue per i bimbi malati di leucemia dell’ospedale Pausilipon. Con una lettera - consegnata all’arcivescovo, alla presenza del ministro Mastella, in visita ieri mattina al padiglione Venezia, dopo la messa nella cappella dell’istituto - raccontano la loro voglia di aiutare chi sta male con ciò che hanno, scrivono la voglia di guardare avanti, ma anche la solitudine, il bisogno di occupare il tempo in attività sportive, la mancanza di spazio per momenti di socialità.

Citano Gian Battista Vico per dire che la redenzione è possibile, per ogni uomo. L’arcivescovo annuisce, lo aveva già detto in chiesa, qualche minuto prima, ai 230 detenuti scelti in rappresentanza dei diversi padiglioni: "Chi non ha commesso errori? Il Bambino nel presepe ci ricorda la fragilità di ciascuno, ma nella debolezza si può sentire la voce di un riscatto". "Nell’ammettere lo sbaglio, l’inizio di una nuova vita. Per tutti".

Perché tutti - non smette di ripetere Sepe - hanno uguale dignità e meritano rispetto. "Siamo una sola famiglia - dice - che non può contrapporsi, litigare, scontrarsi: ritrovate nel vostro cuore la voce di Dio che vi grida giustizia e pace". Poi, due promesse che diventano realtà. Sepe annuncia, per la prima domenica di Quaresima, una giornata di preghiera dedicata ai detenuti: "Per dire che la Chiesa vi è vicina, che non siete soli". Poi, una casa di accoglienza per chi esce dal carcere e non sa dove andare: un impegno assunto dall’Arcivescovo al suo arrivo qui a Napoli.

"Stiamo pensando a voi - dice - e siamo a buon punto nel progetto annunciato". "Siate liberi dentro - l’augurio - perché Cristo ha spezzato tutte le vostre catene". In regalo un tau, il segno visibile del Cristo. L’Arcivescovo lo dona a tutti i 1850 detenuti di Poggioreale. Lo consegna personalmente ai quindici detenuti del padiglione Venezia. Qui viene portato anche un biliardino. I detenuti lo avevano chiesto espressamente: "Quando possiamo cerchiamo di venire incontro ai vostri desideri - dice l’arcivescovo -. Magari dopo ci facciamo una partita?", aggiunge scherzando.

Poi la parola passa a Clemente Mastella, presente con il capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria Ettore Ferrara e il vice-capo Armando D’Alterio, per un saluto che diventa un invito a "costruire una città diversa e l’augurio di un anno non segnato dalla violenza che serve solo ad arretrare le istanze di concordia e pace".

Quella pace da perseguire, cercare e costruire anche in carcere - concorda il direttore Salvatore Acerra - "cambiando il proprio stile di vita, nel segno della speranza, uscendo da un tunnel che dà solo dolore e sofferenza". Al cardinale Sepe i detenuti hanno regalato un Pulcinella vestito da cardinale. Un dono molto apprezzato: "Mi rassomiglia parecchio", ha ringraziato.

Bergamo: appello per il trasferimento di Fabio Canavesi

di Checchino Antonini

 

Liberazione, 31 dicembre 2007

 

Fabio Canavesi sperava di passare Natale in famiglia, sperava anche di essere trasferito da Biella nella sua Bergamo. E invece, senza motivazione, a settembre, era stato spedito a Sulmona, a 650 chilometri dalla sua famiglia. E perdipiù nel carcere dei suicidi, malfamato tra i luoghi malfamati. Massima sicurezza, la chiamano.

Da poche ore, Canavesi ha strappato un piccolo risultato. Adesso è a Voghera, nel pavese. Questo grazie a seicento firme, le prime in calce all’appello del Comitato per Fabio, che chiedono la riconsegna del prigioniero denunciando l’accanimento nei suoi confronti. Cittadini e associazioni che hanno già firmato (bergamasche e biellesi soprattutto, primi firmatari don Biagio e don Primo della comunità di S. Fermo) lamentano che il trasloco forzato lede i diritti alla continuità di un trattamento di reinserimento iniziato l’anno scorso con un primo permesso di 5 ore.

Fabio poté incontrare Cinzia, la moglie, e la loro figlia lontano dalle sbarre. Più tardi sarebbe perfino riuscito a tornare a Bergamo per 48 ore, da solo e senza scorta, rientrando in perfetto orario. Fabio Canavesi ha lavorato parecchio per attivare relazioni tra carcere e territorio, a Biella, contattando valdesi, non vedenti, giornali, assessorati e ottenendo corsi di informatica e visite specialistiche gratuite per i detenuti. Basta questo per essere spedito alle 3 di notte in un carcere lontanissimo da casa? Se Biella era lontana 200 km da Bergamo, Sulmona è a più di 650.

Da quanto se ne sa, Canavesi è stato una sorta di detenuto modello. "Forse era un detenuto scomodo?", si chiede l’appello, indirizzato al sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi, denunciando il trasferimento d’urgenza, "inspiegato e inspiegabile", come una violazione del dettato costituzionale dove dice che i trattamenti non dovrebbero essere inumani e dovrebbero tendere al reinserimento. Un caso emblematico di una visione solo punitiva del carcere per i deputati Ezio Locatelli di Rifondazione e Antonio Misiani, democratico, che hanno chiesto un intervento ispettivo nel penitenziario della cittadina piemontese.

Come lui altri detenuti sono stati trasferiti nello stesso periodo e il comitato si domanda se questi provvedimenti, in qualche modo, abbiano a che fare con l’arrivo del nuovo capo delle polizia penitenziaria a Biella. "Abbiamo già assistito in passato a "strani movimenti" determinati dall’arrivo di nuovi responsabili della polizia penitenziaria e hanno portato sempre effetti negativi per tutti i detenuti!

Certo è che le affermazioni di principio dei responsabili sulla necessità di aprire il Carcere di Biella al rapporto con il territorio e la "società civile" vengono così contraddette e viene smentita nei fatti la volontà effettiva di costruire un legame positivo e costruttivo con il territorio!", scriveva a ottobre il comitato locale "Sprigioniamo diritti".

Fabio Canavesi (che aveva già scontato una pena per la sua appartenenza a Prima Linea) è in carcere ormai da quasi 8 anni. Era stato arrestato con l’accusa di aver partecipato alla tragica rapina di via Imbonati nel 1999 a Milano dove era rimasto ucciso un agente di polizia. Assolto da questa accusa e da quella vicenda, Canavesi si era visto tuttavia condannare a 27 anni per una diversa rapina.

Una pena, in ogni caso decisamente sproporzionata, comminata a seguito della condanna senza prove suffragata solo dalla parola di un "pentito" (uno strano rapinatore intercettato mentre parlava di un certo Fabio), che ha ricevuto in cambio soldi, programma di protezione e scarcerazione sebbene la sua ricostruzione è contraddetta da fatti e altri testimoni ben più attendibili come le guardie giurate vittime della rapina.

Ma nei processi, i testimoni a favore sono stati trattati alla stregua di complici. E Canavesi, che aveva accettato la condanna per i fatti di Prima Linea poiché era una storia a cui aveva partecipato, si ritrova a scontare una pena ingiusta e abnorme, vittima del pregiudizio e in balìa di un sistema carcerario vendicativo. Per tutto ciò, chi domanda la riconsegna a Bergamo, chiede anche la riapertura del processo (il testo dell’appello su www.bergamoblog.it).

Immigrazione: tra Italia e Libia un accordo anti-migranti

di Laura Eduati

 

Liberazione, 31 dicembre 2007

 

Gheddafi cede al lungo corteggiamento dell’Unione Europea e si impegna a contrastare l’immigrazione clandestina. L’accordo è stato siglato a Tripoli dal ministro dell’Interno Giuliano Amato e dal ministro degli esteri libico Abdurrahman Mohamed Shalgam.

Il patto è chiaro: "collaborazione nella lotta contro le organizzazioni criminali dedite al traffico degli esseri umani e allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina".

In questo modo la Libia finalmente parteciperà ai pattugliamenti marittimi congiunti organizzati da Frontex, l’agenzia per la protezione delle frontiere europee incaricata di respingere i barconi provenienti dall’Africa. Amato è molto soddisfatto: "Sarà possibile contrastare efficacemente la partenza dei natanti e bloccare il tragico traffico degli esseri umani". Il Viminale spera inoltre di salvare "molte vite umane" dai naufragi che hanno trasformato il Canale di Sicilia in un cimitero d’acqua.

Esulta il vicepresidente della commissione europea Franco Frattini, impegnato nella lotta all’immigrazione clandestina e uno dei più grandi fautori di Frontex, che nel prossimo anno raddoppierà budget e missioni.

Il negoziato con la Libia, specifica la scarna nota del ministero, è stato "lungo" ma soprattutto "riservato". E dunque non è dato sapere che cosa ha chiesto Gheddafi in cambio della cooperazione per fermare le decine di migliaia di migranti che attraversano la Libia per raggiungere l’Europa. Il Paese nordafricano è tra i crocevia principali per i migranti sub-sahariani, ed esiste il fondato sospetto che il Colonnello abbia atteso di concludere un accordo per alzare la posta in gioco.

Il governo italiano non ha preteso formalmente alcuna garanzia per i diritti dei migranti e dei rifugiati che partono dalla Libia e che rischiano di rimanere vittime della dura repressione da parte delle forze dell’ordine libiche. Da anni le ong denunciano le violazioni dei diritti umani nei confronti dei migranti in Libia. Un rapporto di Fortress Europe, pubblicato a fine ottobre, documenta torture, stupri e omicidi commessi dalle forze dell’ordine.

Nei circa 20 centri di detenzione per migranti costruiti dal governo di Tripoli, passano ogni anno 60mila persone che non hanno commesso alcun reato. Nel calderone dei penitenziari finiscono anche i rifugiati, i quali avrebbero invece diritto ad un trattamento di riguardo in base alla Convenzione di Ginvera.

Che la Libia non ha mai firmato. I testimoni raccontano le condizioni estreme dei prigionieri, vessati dai secondini, violentati, stipati in celle, con poco cibo e poca acqua. Seicento eritrei si trovano detenuti da un anno a cinque mesi nel carcere di Misratah, raccontano di essere stati bastonati e spogliati nudi al loro arrivo. A questo si aggiungono le deportazioni di massa verso il deserto, dove centinaia di migranti trovano la morte.

Immigrazione: De Zulueta; dimenticati i diritti umani...

 

Agi, 31 dicembre 2007

 

"Suscita perplessità la notizia che il ministro dell’Interno abbia firmato oggi un accordo con la Libia che prevede pattugliamenti congiunti italo-libici al largo delle coste del paese nordafricano, senza garanzie per i diritti umani". È quanto dichiara Tana De Zulueta (Verdi), vicepresidente della commissione Esteri della Camera e presidente della commissione Migrazione dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea.

"La Libia - prosegue de Zulueta - è un paese retto da un regime dittatoriale in cui le violazioni dei diritti umani, ed in particolare dei diritti delle migliaia di migranti e rifugiati che lo attraversano o vi si stabiliscono, sono gravissime e quotidiane. Come sottolineato in numerosi rapporti di organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International, in Libia migranti e rifugiati sono vittime di arresti arbitrari, aggressioni fisiche da parte delle forze dell’ordine e rimpatri forzati in paesi dove le loro vite o la loro incolumità fisica sono a rischio. Decine di migliaia di migranti sono inoltre detenuti in condizioni disumane per mesi o anni, ed altre migliaia sono abbandonati ogni anno nel deserto ai confini meridionali del paese".

Dunque, aggiunge De Zulueta, "qualsiasi accordo di polizia con la Libia deve essere preceduto da garanzie formali per quanto riguarda la tutela dei diritti umani. L’Italia è tenuta al pieno rispetto del principio di non-refoulement (non-respingimento) di chi fugge da persecuzioni e violenze, sancito dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, che la Libia, peraltro, non ha firmato. Questo principio è stato, finora, largamente rispettato dalle autorità marittime italiane, ma l’operazione annunciata oggi - conclude l’esponente dei Verdi - rischia di rendere l’Italia corresponsabile delle violazioni del diritto internazionale perpetuate dalla Libia".

Droghe: Roma; tre decessi per overdose in poche ore

 

Notiziario Aduc, 31 dicembre 2007

 

Tre morti nel giro di poche ore a Roma e nelle vicinanze per overdose di droga. Le forze dell’ordine temono che ci sia in giro una partita di eroina killer. Ieri mattina nella campagne vicino Tivoli sono stati ritrovati all’interno di un’auto due giovani privi di vita, mentre la scorsa notte un uomo di 40 anni è morto stroncato da un’overdose di eroina in un’abitazione non lontana da San Giovanni in Laterano a Roma.

I due giovani trovati morti a Tivoli avevano circa 30 anni. I loro corpi sono stati trovati in un’automobile parcheggiata in una stradina chiusa di campagna. "Basta anche una piccola partita di eroina pura, troppo buona, per sentirsi male ed andare in overdose". Lo ha detto il presidente della Croce Rossa Massimo Barra.

"Ogni anno a Roma muoiono circa 100 persone per overdose - ha sottolineato il fondatore della Fondazione Villa Maraini, che si occupa dell’assistenza ai tossicodipendenti - un rischio che durante le feste natalizie aumenta perché i servizi di assistenza ai tossicodipendenti subiscono rallentamenti".

Una cifra che arriverebbe al doppio se, ha aggiunto Barra, "non fossero centinaia gli interventi svolti nei casi di overdose, dove si trovano le unità di strada della fondazione Maraini, una a Tor Bella Monaca e una alla stazione Termini. Ogni giorno sono circa 400 i tossicodipendenti contattati dai volontari a Roma, e purtroppo sono frequenti i casi di overdose". In seguito a questi tre casi di morte per overdose, dalla Fondazione Villa Maraini gli operatori hanno detto di essere "pronti ad intervenire in qualunque momento se si dovessero verificare altri episodi del genere".

"Negli ultimi mesi c’è stato un aumento dell’uso dell’eroina soprattutto tra i più giovani". Lo ha detto il direttore del’Unità operativa complessa servizio dei Sert dell’Asl Roma C Claudio Leonardi. Un fenomeno che dipende, ha spiegato Leonardi, da un minore costo dell’eroina rispetto alla cocaina: "I produttori di droga hanno interesse ad immettere sul mercato maggiore quantità di eroina che dà dipendenza al 100%, mentre la cocaina dà una dipendenza del 25%". "Una dose di eroina - ha detto il responsabile dei Ser.T. (Servizio recupero tossicodipendenti) dell’Asl Rmc - ora può arrivare a costare pochi euro e si tratta di dosi con maggiori concentrazioni del principio attivo rispetto a prima".

Secondo alcuni esperti del settore della tossicodipendenza il costo di una dose di eroina è passato da 47 euro a 30 euro, e a volte in strada si trova anche a 20 euro. Questa è una strategia dei produttori, spiegano gli esperti, per contrastare l’invasione della cocaina che ora si attesta sui 50 euro a dose.

Germania: detenuti stranieri in "campi di rieducazione"?

 

La Repubblica, 31 dicembre 2007

 

La legge tedesca deve usare il massimo rigore contro i giovani criminali stranieri. E sarebbe opportuno, se e ove necessario , rinchiuderli in campi di rieducazione chiusi e strettamente sorvegliati. Lo dice la Cdu tedesca, il partito della Cancelliera Angela Merkel. La proposta-shock arriva sulla duplice onda di gravi atti di violenza contro anziani tedeschi da parte di giovani criminali stranieri, e dell’allarme della Cdu per le imminenti elezioni nello Stato dell’Assia (lo stato - regione di Francoforte), dove il partito, guidato sul posto dal governatore Roland Koch, rischia di perdere la maggioranza.

Ma nel Paese è rivolta, e la Spd, alleata di Merkel nella Grande Coalizione a livello nazionale, parla di gravissimo e pericoloso sbandamento. Il tema dell’integrazione degli stranieri e della criminalità straniera fa così quasi vacillare il governo di Berlino a Capodanno. E Angela Merkel tace.

Campi di rieducazione, un termine che evoca il terribile passato nazista della Germania, e anche tremende esperienze del dopoguerra, dal maoismo agli khmer rossi, diventa vocabolario corrente nella politica del paese numero uno dell’Unione europea.

Il silenzio della Cancelliera non è certo casuale. Le sparate dei suoi compagni di partito - guarda caso tutti maschi dell’Ovest, tutti esponenti dell’ala ultraconservatrice della Cdu, tutti rivali di lei, la "fanciulla dell’est" per il potere nella Cdu e nel governo - la mettono in gravissima imbarazzo. È stato ancora una volta il governatore dell’Assia Roland Koch; a lanciare il sasso nello stagno. "Il tema della criminalità straniera non può essere sempre un tabù", ha detto. "Non può certo essere un tabù solo perché nel Bundesland (lo Stato della Federazione) da me guidato, l’Assia, e in altri Stati, ci troviamo in campagna elettorale". E giù con le richieste di linea dura: punizioni esemplari, espulsioni, sorveglianza.

"Koch ha il pieno appoggio del partito intero", ha detto il segretario generale della Cdu, Ronald Pofalla. "La criminalità straniera in Germania è stata troppo a lungo un tabù, invece deve essere considerata come un problema reale".

Ancora più duro il capogruppo parlamentare, Volker Kauder, Il problema della delinquenza giovanile straniera e specie extracomunitaria, ha detto rincarando la dose, è reale, grave e quotidiano. Per cui, ha aggiunto, occorre pensare ad affrontare mali estremi con estremi rimedi. Pensiamo per esempio, ha sottolineato, a creare campi di rieducazione per i giovani stranieri violenti e criminali.

L’idea è stata esposta da Volker Kauder con precisione, fin nei dettagli. Siccome secondo lui ci vogliono, contro i giovani criminali stranieri, dei "warnsch tiesse", cioè dei colpi d’avvertimento, e misure radicali di educazione, occorre pensare ai campi di rieducazione. Vale a dire, a strutture di reclusione chiuse, con duri e chiari principi pedagogici.

Campi di rieducazione: l’espressione fa tremare. Cosi all’inizio i nazisti definirono il loro universo concentrazionario. Il principio, rieducare con la violenza reclusiva spezzando animi e fisico, fu quello di Beria in Urss e di Himmler nel Terzo Reich. Poi di Pol Pot in Cambogia.

È inaccettabile, protesta il vice cancelliere socialdemocratico, il ministro degli Esteri Frank Walter Steinmeier. "Le proposte di Koch e compagnia bella sono il populismo più brutale, che i politici conservatori si occupino piuttosto del grande, vero problema: ai giovani stranieri poveri e ai loro figli la nostra società e la nostra scuola non offrono alcuna vera possibilità di integrazione".

La pesantissima polemica, con la richiesta di istituire campi di rieducazione - che peraltro sarebbero probabilmente incompatibili con la Carta europea dei diritti e con principi e trattato costituzionale della Ue - è nata dopo alcuni gravissimi, pesanti episodi di violenza ai danni di anziani tedeschi da parte di giovani stranieri.

Soprattutto il dramma di Monaco di Baviera. Nella ricca capitale bavarese un pensionato tedesco di 76 anni, mentre viaggiava nel metrò, ha chiesto a due giovani, un turco ventenne e un greco diciassettenne, di spegnere le loro sigarette, visto che nella sotterranea è vietato fumare. I due giovani non solo hanno continuato a fumare, ma prima hanno insultato l’anziano come "tedesco di merda", poi lo hanno picchiato a sangue.

Usa: Guantanamo; muore un detenuto malato di cancro

 

Ansa, 31 dicembre 2007

 

Gli Stati Uniti hanno annunciato la morte a Guantanamo di un detenuto catturato quasi cinque anni fa in Afghanistan. Abdul Razzak, 68 anni, era malato da tempo di cancro al colon ed era stato sottoposto a chemioterapia. Era stato catturato in Afghanistan e trasferito a Guantanamo nel gennaio 2003. Razzak è il quinto detenuto a morire a Guantanamo. Nei casi precedenti si era sempre trattato di suicidio.

 

 

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