Rassegna stampa 2 aprile

 

Giustizia: la nuova paura, i rapimenti fatti da bande di "balordi"

 

La Repubblica, 2 aprile 2007

 

"All’anonima sarda, alla ‘ndrangheta e ai "giostrai" del Nord Est sono subentrate, oggi, bande di balordi che improvvisano sequestri lampo". Dopo il rapimento di Barbara Vergani, durato 24 ore circa, le forze dell’ordine lanciano un nuovo allarme: quello dei "sequestri di persona commessi da improvvisati, gente incapace e per questo pericolosa per gli ostaggi". Le premesse del sequestro della ragazza novarese, tuttavia, non avevano fatto pensare a una soluzione lampo tanto che anche una persona esperta come l’ex procuratore nazionale antimafia, Pier Luigi Vigna, aveva manifestato dubbi e pessimismo.

In realtà - ha commentato un investigatore dopo la liberazione della ragazza - la banda non s’è rivelata fortunatamente così solida come sembrava. La pressione delle forze dell’ordine, i posti di blocco, le ricerche e l’attività investigative deve avere indotti i sequestratori a liberare l’ostaggio.

Vigna è la memoria storica in Italia dei rapimenti a scopo di estorsione. "L’industria dei sequestri - ha detto - che ha avuto al suo attivo 663 rapimenti fra il ‘68 e l’88, è stata stroncata da un provvedimento legislativo: quello sul blocco dei beni del 1991. Ad eccezione del sequestro della Silocchi, dove ci fu l’intromissione di alcuni anarchici sardi, furono tutti sequestri per ottenere un riscatto. Da allora, la malavita organizzata si è ritirata da quel crimine che aveva assunto le dimensioni di una vera industria perché ha capito che il sequestro a scopo di estorsione non era più redditizio".

Il blocco imposto dalla direzione distrettuale antimafia torinese sui beni della famiglia di Barbara Vergani ha sollevato ieri, prima della liberazione della ragazza avvenuta nella notte, numerose polemiche. Il più critico è stato il presidente del Coordinamento nazionale famiglie ex sequestrati, Fabio Broglia, secondo il quale la legge del 1991, "a conti fatti, sta favorendo il fenomeno dei cosiddetti sequestri lampo".

"Grazie alla norma che impedisce ai familiari delle vittime di pagare il riscatto - ha aggiunto Broglia - i rapimenti sono sicuramente stati debellati, ma i sequestri-lampo sono aumentati e, in molti casi, non vengono neppure denunciati. Ecco perché governo e Parlamento devono ampliare i casi di pagamento controllato".

Pur sostenendo che la "legge sul blocco è stata positiva", e che "non si può cedere alle minacce dei sequestratori", anche lo stesso Vigna ammette che i casi di pagamento potrebbero essere ampliati. "La legge - ha spiegato l’ex procuratore - autorizza a pagare solo in due casi: per arrestare gli autori o raccogliere elementi di prova.

Ebbene, i casi di pagamento autorizzato vanno ampliati, ad esempio quando la salute del rapito è compromessa o in caso di giovanissima età del sequestrato". Non sempre, infatti, cedere alle richieste dei rapitori significa salvare la vita dell’ostaggio. Vigna: "I rapiti che non sono tornati a casa sono 67. Nel 52 per cento dei casi il riscatto era stato pagato, ma le persone furono uccise lo stesso".

Anche per Giuseppe Soffiantini, l’imprenditore bresciano rimasto in mano ai rapitori dal 17 giugno del ‘97 al 9 febbraio del ‘98 (subì il taglio di un orecchio), "all’inizio il blocco dei beni non è negativo, perché in quel modo la famiglia non rimane sola a battersi con quei feroci banditi". Ma "dopo un certo periodo di tempo - ha spiegato - durante il quale le forze dell’ordine hanno avuto la possibilità di indagare, bisogna procedere col pagamento controllato, senza aspettare otto mesi come nel mio caso. Otto mesi sono troppi".

In termini percentuali i sequestri di persona a scopo di estorsione, in Italia, rappresentano oggi circa lo 0,4 per cento dei delitti denunciati. È considerato un tipo di crimine non tra i più diffusi, ma comunque più frequente dell’omicidio preterintenzionale, che si attesta allo 0,2 per cento, poco meno dell’associazione mafiosa che oscilla attorno allo 0,5%. Secondo la Cassazione - ma il dato comprende anche i sequestri durante le rapine in villa - nel 2006 le persone sequestrate sono state 545.

Giustizia: Mastella; contro i rapimenti serve una nuova legge

 

Il Mattino, 2 aprile 2007

 

"Sui sequestri la legge non è uguale per tutti". A dirlo è stato il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, rispondendo alla domanda di un giovane durante un dibattito nei locali della parecchia San Michele, nel rione Salicelle di Afragola, alle porte di Napoli. "Per i sequestri all’estero si tratta, in Italia no".

 

Allora, ministro, non hanno fatto bene i magistrati di Torino a bloccare i beni della famiglia della giovane rapita, prima di sapere che sarebbe stata rilasciata?

"È la legge e non si può fare diversamente. È giusto che si blocchino i beni anche perché la normativa ha dato finora buoni risultati".

 

Quindi non va annullata?

"Certo che no. Anche perché se si accettasse una logica diversa, quella in base alla quale ogni famiglia che subisce il ricatto di un sequestro tratti in proprio, aumenteremmo a dismisura il volume di affari della criminalità. Ci sarebbero ricatti in permanenza".

 

La legge fu fatta per questo.

"E sì, Anche se so, purtroppo, che qualche genitore che ha avuto un figlio rapito la percepisce come una norma dura, spietata. Però è anche vero che è stata utilissima contro i sequestri. Ha funzionato da deterrente".

 

Le famiglie allora non possono trattare, ma lo Stato sì?

"No, non dovrebbe farlo, ma quando comunque questo avviene, si pongono i problemi".

 

Quali?

"Se la norma che blocca i beni, e di fatto impedisce la trattativa, vale in Italia ma non all’estero, molti si chiedono come mai c’è questa disparità di trattamento. I problemi si pongono se tu dai mano libera allo Stato, mentre invece blocchi le famiglie".

 

Cioè bisogna finirla con lo Stato che può trattare e le famiglie no?

"Sì".

 

E allora che cosa propone?

"Non c’è una formula precisa. Ho i miei dubbi e non ho granitiche certezze per dire cosa bisogna fare. Ma è ovvio che qualche problema affiora e bisogna anche affrontarlo".

 

Ma non le pare che così dicendo si associa anche lei alla polemica del centrodestra contro il governo per la liberazione di Mastrogiacomo?

"No. Io non faccio riferimento a fatti recenti. Non c’è stato solo il rapimento di Mastrogiacomo. È ovvio che all’estero scattano centomila ragioni. Ma io credo che sia giusto introdurre con la legge degli ambiti certi, rendere tutto chiaro, trasparente".

 

Come?

"Partendo dal fatto che la vita umana è sacra e viene sempre prima di ogni altra cosa, stabiliamo che quando il rapimento avviene all’estero lo Stato può trattare. Non facciamo più finta che non c’è la trattativa quando, invece, ce ne sono diecimila".

 

Lo Stato ha trattato per Mastrogiacomo?

"Non lo so. Non sono stato protagonista della vicenda. Mi attengo a quanto ha dichiarato il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema. E ho il dovere di associarmi a quello che ha detto. E sono in sintonia con lui. Ma se debbo fare riferimento a quello che si sentiva dire prima che fossi ministro... beh si ritiene che sì sia trattato. Questo non mi scandalizza. Salvare una persona è doveroso e sacrosanto. Però, ripeto, facciamolo con una legge ordinaria in modo che chi si trova in territorio italiano sa che c’è una disparità regolata dalla lègge. Non ci deve essere un genitore che possa dire; avete trattato all’estero e io, in Italia, non posso farlo per salvare mio figlio. Se si conoscono quali sono i diritti e i doveri, non ci sarà più uno Stato che ha figli e figliastri. Discipliniamo il tutto. Visto che si tratta all’estero, tanto vale stabilirlo per legge".

Giustizia: Napoli; la violenza criminale e il governo della città

 

Il Denaro, 2 aprile 2007

 

Accantoniamo la commedia degli equivoci sulla tremenda questione della violenza, dell’ordine pubblico, della sicurezza a Napoli. La ciclica riproposizione della questione dell’esercito in città è addirittura parossistica. Qualcuno ricorderà come alla fine dell’ottobre 2006 in occasione della visita del ministro francese della Giustizia Clemenceau a Napoli, per un incontro con l’omologo italiano Mastella, quest’ultimo aveva colto l’opportunità di esprimere il suo pensiero sulla vicenda napoletana vessata su molti fronti (degrado, spazzatura, criminalità organizzata e altro).

Ai cronisti che sollecitano una risposta sull’argomento dell’esercito a Napoli per fronteggiare l’emergenza criminalità, sollevato in senso favorevole o contrario da politici nazionali e locali come Antonio Bassolino e il senatore Sergio De Gregorio, il Guardasigilli - così come ci informava il sito del Corriere della Sera - aveva risposto: "Prima era un tabù anche per me, oggi sono aperto alla discussione. La spietatezza dei fatti di questi giorni dimostra che il problema non era l’indulto, se l’esercito viene a risolvere questo problema annoso, non è male".

Anche il balletto, delle ultime ore, di dichiarazioni e smentite, a cui ci sottopone la nostra stressata sindaca, conviene metterlo da parte per non far cadere in un clima di farsa una drammatica situazione. Con ritmo ciclico imbarazzante - scrivemmo su queste colonne proprio in quella occasione di quasi un anno fa e poi prima e prima ancora - sull’urto di una drammatica cronaca quotidiana fatta di omicidi, scippi, violenze, traffico, aggressività e malessere diffusi, ecco ancora una volta la decomposizione di Napoli e del suo hinterland iscritta sul terreno secco e inesorabile della mera gestione dell’ordine pubblico.

Ma la domanda, non nuova, era e resta: i comportamenti delinquenziali ai quali assistiamo - con gli effetti disastrosi sull’immagine della città e della sua affidabilità verso l’esterno - sono riducibili a mere questioni di ordine pubblico, sebbene siano ovviamente problemi anche di ordine pubblico, di gestione e presenza delle forze dell’ordine? Ovviamente no.

Sono riducibili ad un numero sempre più ampio di poliziotti e carabinieri, di guardie della Finanza e di militari che assolvano ad una funzione deterrente contro una delinquenza endemica e sempre più agguerrita o di fronte a scellerati e nichilisti figli di una borghesia parassitaria alla ricerca di ebbrezza…".

I fenomeni di una metropoli violenta sono il frutto di molti fattori, ma in primo luogo di una errata e inadeguata azione di governo politico e culturale della città. Il prodotto dell’assenza di un progetto per la città stessa e il suo futuro. Per esempio proviamo a capire che tipo di città, oramai da oltre quindici anni, ci siamo abituati a sentirci raccontare.

Da una parte una visione fantastica, di meravigliosa e progressiva crescita esponenziale della metropoli e della sua consapevolezza (definita dalla icona "rinascimento napoletano"), e dall’altra la completa assenza di visione reale delle cose, dove il processo disgregativo avanza e si allarga, dove l’individuo (con tutte le sue arretratezze, le sue in-culture, le sue drammatiche contraddizioni) vive lo sdoppiamento di uno spazio fisico delimitato a cui non può sottrarsi, e una realtà sociale lontana e diversa che nessuno ha provveduto - con un progetto di città appunto - a colmare inserendolo in un percorso di civiltà democratica, di empirica e concreta visione di modernità industriale o post-industriale, di rispetto delle regole. Sciocchezze, solo sciocchezze, un racconto favolistico del "così è se lo diciamo…". Queste cose le abbiamo scritte tante volte anche su queste pagine.

È qui il carattere della frattura in cui si insedia la perversa specificità napoletana. A questo punto occorre, se non si vuole assecondare il ritmo pedante e inquietante della retorica cinica e impotente, che il registro delle cose venga ribaltato. Questa classe politica è stata votata anche di recente e gode del consenso popolare "copiosamente" ad essa riversato in occasione delle recenti elezioni comunali.

Se si ritiene che la situazione è insostenibile occorre che tutte le rappresentanze politiche, culturali, economiche, sociali diano un proprio vigoroso segno di non accettare questo stato di cose e organizzino un’azione politica che spinga al cambiamento anche con elezioni anticipate. È una ipotesi assurda? Forse, ma è la via maestra, l’unica, che in democrazia politica si deve percorrere di fronte ad una situazione così deteriorata.

 

Fu ferito dalla vittima, rapinatore muore

 

Tredici giorni, tanto è durata l’agonia del pregiudicato Giuseppe Izzo, 30 anni (nella foto), ferito dal sottufficiale della polizia penitenziaria che aveva tentato di rapinare nei pressi dello svincolo della statale 268. Il pregiudicato è deceduto nell’ospedale di Nocera Inferiore dove era stato trasportato in condizioni disperate la sera di domenica 11.

Il rapinatore era stato scarcerato grazie all’indulto l’estate scorsa. La vittima della rapina che aveva reagito era già stata indagata per tentato omicidio, ora il capo di imputazione è stato trasformato in omicidio colposo: l’agente di polizia penitenziaria A.N. di 50 anni aveva esploso quattro proiettili che avevano raggiunto Izzo alla testa. Per il difensore Donato de Paola la sorte di Izzo non muta il quadro di riferimento: "Il mio assistito - afferma l’avvocato del foro di Torre Annunziata - ha chiarito tutti i dettagli della vicenda e ha già ottenuto il dissequestro della macchina e dei telefonini che aveva con sé.

Evidentemente la pubblica accusa ha un’idea ben precisa di quello che è accaduto e si pronuncerà nelle prossime settimane. Per quanto ci riguarda siamo convinti di aver fornito tutti gli elementi in nostro possesso". Per cercare di ricostruire le varie fasi della colluttazione, il sostituto procuratore della Repubblica Emilio Prisco dispose, nelle ore immediatamente successive al fatto di sangue, un sopralluogo.

L’agente ha sempre riferito di essere stato assalito mentre tentava di uscire da una stradina adiacente via Passanti Flocco, nella quale aveva svoltato per sbaglio, e di aver risposto al fuoco del rapinatore. In auto, stando alla ricostruzione fornita agli inquirenti, sarebbe stato solo. Una circostanza alla quale gli inquirenti, coordinati dal capitano Pasquale Sario e dal maresciallo capo Renato Varriale, non credono ma che in sostanza non cambierebbe di molto la dinamica dell’episodio.

Giustizia: "no" a Opg da commissione congiunta Giustizia-Salute

 

Il Sole - 24 Ore, 2 aprile 2007

 

Sono il colpo di coda dei manicomi. Nelle intenzioni, carceri e ospedali; di fatto né carceri né ospedali. Ibridi e vetusti, carenti di operatori sanitari, buchi neri in cui cura e rieducazione restano un miraggio, nonostante gli sforzi di professionisti e volontari.

A restituire uno spaccato allarmante dei sei Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) italiani è la relazione finale del gruppo di lavoro interministeriale, incaricato nel 2004 dalla commissione Giustizia Salute sulla sanità penitenziaria di proporre modelli innovativi per gestire i soggetti pericolosi affetti da patologie psichiatriche ricoverati negli Opg.

Dopo aver visitato le sei strutture - Aversa e Napoli in Campania, Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia, Castiglione delle Stiviere in Lombardia,Montelupo Fiorentino in Toscana e Reggio Emilia in Emilia Romagna - la task force di otto esperti, coordinata da Guido Vincenzo Ditta per la Salute e da Adolfo Ferraro per la Giustizia, ha inviato alla commissione le sue conclusioni. Limpide: nel lungo periodo l’assetto attuale va superato, "attraverso la realizzazione di un sistema integrato di psichiatria penitenziaria".

Nel breve, c’è molto da fare. Il satellite degli ospedali psichiatrici giudiziari è congelato da quasi un secolo, a parte il cambiamento del nome, nel 1975,da "manicomi criminali " a Opg. La legge Basaglia non li ha scalfiti, così come il Dlgs 230/1999, che ha stabilito il transito delle competenze sanitarie in carcere dall’amministrazione penitenziaria al Ssn. Risultato: gli Opg sono un calderone in cui finiscono "ospiti" eterogenei dal punto di vista clinico e giuridico, che invece necessitano di interventi differenziati.

Nitida la foto scattata nelle 25 pagine del documento: a fronte di 534 operatori sanitari e sociali (340 di ruolo e 194 a contratto), i ricoverati risultavano 1.057 (ma al 31 dicembre scorso erano saliti a 1.274), circa il 70% con una diagnosi di disturbo schizofrenico e al 65,2%provenienti da regioni diverse da quella dell’Opg. Il 49,2% è sottoposto a una misura di sicurezza di due anni, il 16,5% di dieci anni. Nel 2004 sono entrate in Opg 817 persone e ne sono state dimesse 613. Il numero di chi entra è sempre maggiore del numero di chi esce. Le proroghe delle misure di sicurezza sono state 688 nel solo 2004. Castiglione dichiara il maggior numero di misure di contenzione (188 nel 2004, su 565 totali), ma i contenuti sono di più a Reggio Emilia (84, il 43,1% del totale).

"È un mondo a sé", spiega lo psichiatra Fabrizio Starace, direttore del coordinamento socio sanitario dell’Asl Caserta 2 e componente del gruppo di lavoro. "Comunità scientifica e opinione pubblica se ne occupano solo in occasione di drammi o casi limite. Come quello dei pazienti che passano la vita negli Opg soltanto perché, terminato il periodo loro comminato, i servizi per la salute mentale delle Asl di appartenenza dichiarano di non disporre di strutture idonee". Li chiamano "ergastoli bianchi". E vanno combattuti.

Come? Nell’immediato,i tecnici chiedono di applicare le sentenze 253/2003 e 367/2004 della Corte costituzionale, secondo cui l’internamento va limitato ai casi di reale pericolosità e la misura di sicurezza, quando possibile, va effettuata nelle carceri o sul territorio. Occorre poi potenziare le collaborazioni con i Dipartimenti di salute mentale e garantire la continuità terapeutica con i servizi territoriali al momento delle dimissioni. Perché,senza piani personalizzati di reinserimento, gli internati rischiano di restare tali per anni. Dimenticati.

Lazio: tre equipe di dentisti "a domicilio" per i detenuti

 

Asca, 2 aprile 2007

 

Grazie ad un protocollo d’intesa siglato fra Garante regionale dei detenuti, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e Società Italiana Maxillo Odontostomatologica (S.I.M.O.) nelle carceri del Lazio tre ambulanze attrezzate per curare i problemi dentari, gestite dalla S.I.M.O. effettueranno interventi clinici e terapeutici sui detenuti per rilevare e curare malattie della bocca e dei denti.

Il servizio, il primo del genere in Europa, intende sensibilizzare e formare alla buona salute orale e debellare eventuali patologie. Per svolgere questo lavoro la S.I.M.O. (società senza fine di lucro nata nell’Ospedale Odontoiatrico "George Eastman" di Roma) con un finanziamento della Regione Lazio, utilizzerà medici, odontoiatri, infermieri odontoiatrici che già da tempo svolgono attività di prevenzione delle malattie del cavo orale fra i ceti deboli.

"Fra le priorità del Garante - ha detto Angiolo Marroni - c’è la tutela del diritto alla salute dei reclusi, fra i più sacrificati in carcere. Le patologie del cavo orale sono al terzo posto per numero di incidenza in carcere.

"Abbiamo accolto con piacere questa iniziativa - ha aggiunto il Provveditore Ettore Ziccone - che riguarda tutti gli istituti del Lazio, e che è in stretta continuità con quella dello scorso febbraio che prevede la possibilità di avere protesi dentarie gratuite per i detenuti di Rebibbia".

Torino: lo Stato non paga? e noi ci vendiamo la questura

 

La Stampa, 2 aprile 2007

 

In Provincia lo dicono senza giri di parole. Cominciando da Alessandra Speranza, assessore con delega a un Patrimonio che costa più di quel che rende: "Vendere la Questura? Ci sbarazzeremmo volentieri di quell’edificio...".

Traduzione ci hanno pensato seriamente e si stanno facendo i loro conti per capire se gli conviene. Di certo all’amministrazione provinciale di Torino non conviene tenersi in carico edifici costosi, utilizzati dallo Stato senza pagare l’affitto. E lo stesso vale per il Comune.

Premessa numero uno. L’amministrazione provinciale di Torino è proprietaria di tre immobili speciali: il palazzo in piazza Castello, parzialmente occupato dalla Prefettura; la Caserma Bergia dei carabinieri in piazza Carlina; l’immobile in via Grattoni con gli uffici della Questura. È la dote rimasta all’ente, fatta salva la sede aulica di Palazzo Cisterna, dopo la vendita degli stabili su via Valeggio e su via Bogino (necessaria per finanziare la ristrutturazione della nuova sede su corso Inghilterra). Premessa numero due: lo Stato è moroso. Il Viminale è in bolletta, i tre "inquilini" sono in arretrato con gli affitti. Due contratti su tre, Questura e Bergia, sono scaduti da parecchi anni.

Il Comune, che anticipa le spese di gestione del Palagiustizia, non è messo meglio. Stando ai calcoli dell’assessore Passoni (Bilancio) il "credito residuo" verso il Ministero di Grazia e Giustizia, sfiora i cinque milioni.

La Provincia, invece, se la gioca con il Viminale. Ma il Viminale, invece di rinnovare i contratti di locazione, preferisce pagare le "indennità di occupazione". "E non è in regola nemmeno con quelle", lamenta Speranza. La precisazione non è diretta agli inquilini, imbarazzati dalla situazione e solidali con la proprietà, ma allo Stato.

"Dovrebbe osservare il rigore che impone a noi - protesta il presidente Saitta -. Siamo il terminale delle contraddizioni a livello centrale. Vogliamo parlare del contributo degli enti locali alla sicurezza?".

La Provincia, richiamata un giorno sì e l’altro no a risparmiare sulle spese, come gli altri enti locali, si chiede da tempo cosa ha fatto di male per meritarsi questa pena. Non solo incassa quel che può, mediamente una volta ogni tot anni, ma lo Stato (moroso) è esigente quando si tratta di intervenire sugli edifici. Un esempio? Nel 2006 la Questura ha chiesto, invano, la sopralevazione di due piani.

Si tratta anche sul prezzo: nel 2004 il Viminale ha sbloccato il pagamento di una "tranche" di arretrati relativi alla Questura e alla "Bergia" a condizione di ottenere una decurtazione del 10% sulla cifra. Anche per questo in Provincia matura l’idea di far fuori almeno l’immobile della Questura, il meno pregevole, con le difficoltà di caso: mantenere buone relazioni con gli inquilini e non perderci troppo.

"Il valore dell’edificio è determinato anche dalla sua reddittività - riflette l’assessore -. Nell’ipotesi di conferirlo ad un Fondo immobiliare, una delle opzioni, il reddito sarebbe decurtato dalla presenza di inquilini non certo ottimali". Inquilini che non pagano e che, di fatto, è impossibile sfrattare. Né è pensabile un qualche interesse del Ministero all’acquisto. Nel 2006 la Provincia gli aveva proposto di rilevare il palazzo, valore stimato circa 35 milioni di euro: quella lettera non ha ricevuto risposta.

Milano: contro il bullismo incontro tra ragazzi, vigili e detenuti

 

Il Cittadino, 2 aprile 2007

 

Il fenomeno del bullismo e delle baby gang va affrontato sul piano della prevenzione e della dissuasione. Ne sono convinti i vigili di Milano che hanno avviato una serie di incontri tra alcuni agenti e un gruppo di ragazzi "difficili", dello stesso giro di quelli che, nel maggio scorso, nella zona periferica di piazzale Corvetto, avevano ordito un vero e proprio agguato nei confronti delle pattuglie, colpevoli di disturbarli con controlli e multe.

Incontri con i giovani nei quartieri, dunque, ma anche con i detenuti del carcere di Bollate e monitoraggio delle situazioni calde nei quartieri: questa la ricetta del Comando di piazza Beccaria, come conferma il comandante della polizia municipale, Emiliano Bezzon: "Quello che si sta facendo al Corvetto è un esperimento pilota avviato nell’ottica di una strategia più ampia, che non vede esclusivamente nella repressione la via per contrastare il fenomeno della violenza giovanile".

Brescia: con "Vivicittà" studenti e detenuti in gara a Verziano

 

Giornale di Brescia, 2 aprile 2007

 

A vederli correre non ci sono troppe differenze. La stessa aria sbarazzina e la medesima voglia di tagliare il traguardo accomuna studenti e detenuti. Con la pettorina di Vivicittà corrono tutti quanti insieme, affrontando con allegria e spensieratezza le tornate del campetto di Verziano. Tra agonismo e solidarietà corre, inciampa e talvolta batte la fiacca, il serpentone dei partecipanti dell’ undicesima edizione della manifestazione "Porte - aperte". Rispetto alle iscrizioni si regista qualche defezione causata, a detta dei protagonisti, da strappi muscolari che per l’anno prossimo, avverte ridendo la direttrice Maria Grazia Bregoli, non costituiranno attenuanti sufficienti per scantonare la tradizionale gara dell’Uisp.

Nella mattina uggiosa di ieri hanno varcato per la prima volta le porte del carcere anche alcuni studenti dell’Abba Ballini, del liceo scientifico Leonardo, dell’istituto Lorenzo Gigli di Rovato e del don Milani di Montichiari. Una ressa di giovani, incuriositi da un mondo sconosciuto che lo sport ha saputo accompagnare nel vissuto degli under venti bresciani. Adesso la corsa campestre di Verziano colora di solidarietà il curriculum vitae di tanti giovani e ruba qualche ora alla monotonia della vita del detenuti.

La gara incalza e commenti sono riservati al dopo torneo davanti al punto ristoro. "Quando entri dalla porta presidiata dalla polizia penitenziaria - ammette Francesca - ti assale l’angoscia, poi mentre corri sembra tutto normale". Ebbene, proprio la normalità dirompe inaspettata nell’avventura degli studenti. "A vederli correre con noi - confessano Michela, Ilaria e Claudia - sembrano persone normali, potrebbero essere i miei vicini di casa e non ti viene neanche in mente di domandarti che cosa abbiano commesso".

Almeno fino a che non scorgi le spesse mura, la barriera fisica del "fuori" e "dentro", il marcatore della differenza. Con qualche perplessità sulla funzione rieducativa di un "ambiente che deprime anche solo per poche ore" il gruppetto dell’istituto di Rovato è disponibile a ripetere l’esperienza. "Mi sono stupito - dice Alessandro - di come chiacchierano tranquillamente con noi, quindi mi piacerebbe ritornare per capire meglio una realtà che avviciniamo per la prima volta". Non manca chi invoca pene ben più severe per i delitti efferati, ma poi nel vedere i volti di persone in carne ed ossa il preteso rigore traballa per lasciare posto alla mitezza del dubbio.

Presenti all’appuntamento che anticipa la prima tranche della ventiquattresima edizione della gara podistica Vivicittà anche gli assessori comunali Giorgio Lamberti e Fabio Capra."Anche il carcere rappresenta un pezzo della comunità - sostengono entrambi - quindi ben vengano iniziative come questa, capaci di portare un po’ di gioia e gettare uno sguardo sulle asperità del luogo". I flash dei fotografi immortalano tra risate e un pizzico di goliardia del pubblico il momento della consegna delle targhe ai vincitori. I giornalisti vergano la promessa di Mario Fappani, garante dei diritti delle persone private della libertà, che assicura, previo allenamento, la propria partecipazione alla gara dell’anno prossimo.

Verona: ex detenuti; non chiediamo sconti, ma la nostra dignità

 

L’Arena di Verona, 2 aprile 2007

 

La meditazione nella parrocchia di San Floriano sul mondo del carcere è terminata in un tripudio di fiocchi bianchi. Proprio quei simboli con i quali il padre di Pietro ha accolto il figlio nella sua casa dopo un lungo periodo di detenzione. Era il segnale che l’oramai ex carcerato aveva chiesto al genitore dal carcere pochi giorni prima del suo rilascio. Solo così avrebbe saputo, una volta arrivato a casa se sarebbe stato riaccolto dai suoi famigliari. E quei fiocchi bianchi erano appesi sugli alberi vicino al podere del padre in quantità industriale.

È stato il lungo applauso finale, durato alcuni minuti, a rompere definitivamente il clima di grande attenzione che aveva caratterizzato la meditazione su alcuni testi evangelici oltre ai racconti dei detenuti. L’incontro era stato organizzato ieri sera nella parrocchia di Poiano dal parroco don Luciano Ferrari.

Erano presenti anche don Marco Campedelli e fra Beppe, decano dei volontari del carcere. La meditazione era accompagnata dall’armonica del maestro Dario Righetti che con la sua musica ha caratterizzato i punti più importanti della cerimonia.

Ciò che ha più colpito ieri sera sono stati i racconti degli ex detenuti, ora usciti dal tunnel di un passato fuorilegge, che hanno raccontato il difficile vissuto in carcere. Tutti i brani letti sono stati estrapolati dal libretto "Il Vangelo secondo noi" che raccoglie oltre le storie di chi ha vissuto anni in cella, anche alcune letture della Bibbia.

Si tratta di 139 pagine che hanno il solo, unico obiettivo di dare un barlume di speranza a chi ha sbagliato e vuole ricominciare una nuova vita. "La detenzione mi ha aiutato a riflettere", scrive per esempio Fabrizio, "e mentre rifletto, mi sento libero". Poi lancia un monito a chi sta fuori ma anche a chi governa la vita nelle celle: "Anche in una situazione di prigionia si continua ad essere uomini".

Anche perché, riporta il brano di Pietro altro ex detenuto, "la persona che entra in questa comunità ha un’immediata sensazione di regresso, di ritorno al passato. Quando il cancello si chiude alle spalle, ci si rende conto di aver consegnato la propria vita nelle mani di altre persone".

Attenzione: nessuno tra i detenuti, autori del libretto, chiede benefici, scorciatoie o di non espiare la propria pena: "La pena che la giustizia ci ha assegnato", scrive ancora Piero, "la dobbiamo e la vogliamo scontare con privazione della libertà (come la legge prevede) ma non vogliamo essere degli zombie in un mondo che continua a vivere".

Chi vive in una cella, chi fa i conti tutti i giorni con una luce al neon sul soffitto e una branda quasi erosa dalle angosce di chi è privato di affetto, sentimenti e conforto non ha altro che aggrapparsi alla speranza. E chi forse meglio di chiunque altro spiega questo stato d’animo è Walter: "Penso sempre che là fuori ci sia anche il mio Buon Samaritano: io come molti altri aspetto che passi a trovarmi".

Ma sono sempre tanti gli ostacoli volti a riconoscere ad un detenuto un percorso di riabilitazione fatto, o una volontà di voler ricominciare lasciando alle spalle, manette, sbarre, brutte compagnie e, ancor peggio, propositi delinquenziali: "Ognuno di noi", scrive Antonio nel libretto il "Vangelo secondo noi", "porta la propria croce e vive il proprio calvario personale. Anche quando cambi, c’è sempre qualcuno pronto a farti ricordare quello che eri senza guardare quello che sei ora".

Ma forse il tormento di un detenuto che inizia la salita per raggiungere la vetta di una vita normale è ben rappresentato da "Pensieri di una notte", scritta da Fabrizio: "Il male che ho fatto non lo posso dimenticare né cancellarlo né risarcirlo. Il carcere non rieduca anzi spesso ti toglie ogni speranza e finisci per inasprirti di più e renderti più cattivo".

Basta, però, non farsi travolgere dalla corrente di quel fiume infernale che ti riporta sempre da dove sei partito: "Io resto fermo, io accumulo fuoco, raccolgo fuoco. Io sono tutto un graffio, brucio con atrocità, le labbra della mia anima, sanguinano dai tagli". Poi, però, c’è, come un regalo di Natale che non ti aspetti, una via d’uscita da quel labirinto dove le sbarre della cella sembrano insuperabili: "Il dolore", scrive ancora Fabrizio, "ha raccontato grandi cose al mio cuore. Voglio amare gli uomini senza limitazioni. Sì...gli uomini perché so cosa significa non essere amati".

Larino: Consigliera regionale alla Parità incontra i detenuti

 

Il Tempo, 2 aprile 2007

 

Oggi, presso la Casa Circondariale di Larino, la Consigliera di Parità regionale, Giuditta Lembo, con una delegazione dell’Associazione "Anteas" di Campobasso, incontra i detenuti per una premiazione relativa ai lavori realizzati dagli stessi che saranno pubblicati in una raccolta intitolata: "Pellegrino Cosmopolita".

L’iniziativa, partita dalla Consigliera Lembo, nasce dall’esigenza di voler celebrare la commemorazione di Papa Giovanni Paolo II tramite la valutazione degli acrostici formulati dai detenuti i quali hanno voluto così ricordare gli insegnamenti divulgati dal Papa.

La Consigliera di Parità prema i primi tre migliori elaborati con una targa in ricordo della giornata, realizzata grazie all’impegno profuso dalla Prof.ssa Italia Martusciello, docente presso la Casa Circondariale di Larino e dell’Istituto Tecnico Industriale Statale "Majorana" di Termoli, la Prof.ssa Filomena De Santis dirigente dell’ITIS di Larino e la direttrice della Casa Circondariale di Larino, la dr.ssa Rosa La Ginestra.

Diritti: caso Welby, il gip di Roma dice no all’archiviazione

 

La Repubblica, 2 aprile 2007

 

Si riapre il caso Welby, mentre - dopo 100 giorni dalla morte - la salma non è stata ancora restituita alla famiglia. Il giudice per le indagini preliminari di Roma Renato Laviola ieri ha rigettato la richiesta di archiviazione della posizione di Mario Riccio, l’anestesista che accettò di rispettare la volontà di morire di Pier Giorgio Welby.

Il Procuratore di Roma Giovanni Ferrara e il sostituto Gustavo De Marinis, firmatari della richiesta di archiviazione, hanno annunciato che non cambieranno la decisione: ribadiscono che con l’interruzione della ventilazione meccanica praticata da Mario Riccio a Welby è stato attuato un diritto del paziente che "trova la sua fonte nella Costituzione e nelle disposizioni internazionali recepite dall’Ordinamento italiano e ribadito dal codice di deontologia dell’Ordine dei Medici".

Il gip ha ordinato a Riccio di eleggere domicilio e nominare un legale di fiducia. Contemporaneamente, restituendo il fascicolo processuale all’ufficio del pubblico ministero, ha disposto la sua iscrizione nel registro degli indagati per l’ipotesi di reato di "omicidio del consenziente", riservandosi di fissare una camera di consiglio per la discussione del caso. Cosa può succedere adesso? Al termine del confronto con la Procura e l’indagato, il gip ha tre possibilità: archiviare il procedimento, ordinare al pubblico ministero ulteriori indagini oppure chiedere l’imputazione.

La decisione di Laviola ha colto di sorpresa Riccio: "Non mi aspettavo - ha detto - il rigetto della richiesta di archiviazione, ma resto dell’opinione che sia stato giusto fare quello che ho fatto. Sono mesi che vivo in una certa tensione - ha aggiunto - ma sono fiducioso nei confronti della giustizia. Siamo pronti a chiarire e dimostrare il percorso di legalità che abbiamo fatto. Avrei preferito che il gip avesse deciso per l’archiviazione, anche alla luce di tutti i passaggi della vicenda. A partire da quando Pier Giorgio Welby ha chiesto di ottenere il distacco della spina e rispetto anche alla posizione del Tribunale Civile di Roma".

Mina Welby, la vedova di Pier Giorgio, non nasconde il suo turbamento: "Lo sapevo da alcuni giorni. È la durata eccessiva di tutto l’iter che mi ha messo in agitazione. Sono convinta che dopo oltre tre mesi non ci possono essere altre novità rispetto a quello che è stato già accertato - afferma -.

Nel frattempo la salma di Pier Giorgio non ci è stata ancora restituita, è ancora in attesa di essere cremata come lui aveva esplicitamente richiesto. Questa è un’occasione per girare il coltello nella piaga. La ritengo una prassi strana, dopo le indagini di laboratorio, comprese quelle tossicologiche, che hanno dimostrato che non è stato messo in atto nessun tentativo di provocarne la morte".

Stupore è stato espresso dai radicali Marco Pannella e Marco Cappato. Nel ricordare che l’autopsia ha stabilito che la morte di Welby "è da attribuire unicamente alla sua impossibilità di ventilare meccanicamente in maniera spontanea a causa della gravissima distrofia muscolare da cui lo stesso era affetto" hanno aggiunto di "non comprendere la decisione del gip"; e hanno rinnovato a Mario Riccio il "profondo ringraziamento, anche a nome di Mina Welby, per aver accettato di fornire il suo contributo professionale ed umano".

Immigrazione: Roma; aperto centro ascolto per donne islamiche

 

Il Giornale, 2 aprile 2007

 

In ventiquattro ore oltre trenta donne hanno già chiesto aiuto all’Acmid, la nuova comunità di Roma per immigrate.

La cornetta si alza, il grido soffocato si libera dalla paura che lo strozza in gola, trova voce per esprimersi, e soprattutto qualcuno che abbia voglia di ascoltare. È bastato che la notizia della sua esistenza passasse in tv per convincere oltre trenta donne in sole ventiquattro ore a prendere il telefono e chiedere aiuto al neonato centro di ascolto per immigrate, aperto a Roma grazie all’impegno dell’Acmid (associazione delle donne marocchine in Italia), e all’interessamento istituzionale di Daniela Santanché, che dal governo Berlusconi ha ottenuto i finanziamenti necessari per l’iniziativa.

Un appartamento nel centro della capitale, dotato di spazi accoglienti e di una piccola biblioteca, dove volontarie italiane e straniere, insegnanti e professionisti, sono a disposizione delle donne musulmane, vittime di drammi come la violenza e l’analfabetismo, o impotenti di fronte ai problemi della quotidiana sopravvivenza.

Nessuna bacchetta magica, solo una grande capacità di ascolto, e la voglia di non veder vanificati gli sforzi compiuti dall’Acmid negli anni addietro "lavorando nelle nostre case, senza punti di riferimento - spiega la presidente Souad Sbai -, perché le nostre richieste di aiuto al Comune e alla Provincia erano rimaste senza risposta"

Poi è arrivato l’incontro con la combattiva parlamentare di An durante la stesura del libro "La donna negata",.la scoperta del sofferente e semi-sconosciuto mondo delle donne musulmane in Italia, la presa d’atto - spiega Daniela Santanché - "che una politica di immigrazione e integrazione che non ponga al centro l’universo femminile non va da nessuna parte".

Da qui il convincimento che bisognava prendere un’iniziativa, e l’interessamento presso l’allora governo Berlusconi, che con un sostegno finanziario ha reso possibile la nascita del centro d’ascolto dell’Acmid che ha visto la luce in questi giorni. "Un passo concreto", rivendica la parlamentare di An. Una struttura che all’assistenza legale per le donne vittime di violenza (previa presentazione della relativa denuncia), alla consulenza di medici volontari, all’aiuto burocratico e al lavoro di persone di buona volontà in grado di prestare attenzione e "girare" i casi più gravi alle case d’accoglienza, affianca un’importante opera di alfabetizzazione, in arabo e in italiano.

"Per far conoscere alle donne la cultura da cui provengono e quella in cui vivono - spiega Souad Sbai -, per far sapere loro che qui in Italia hanno dei diritti uguali a quelli degli uomini, e che rispettare le leggi del Paese in cui si vivo, pur senza rinnegare le proprie tradizioni, è il primo passo verso l’integrazione". Un’integrazione declinata al femminile, quella auspicata da Daniela Santanché, che al governo in carica chiede nuovi fondi per aprire centri d’ascolto in altre città d’Italia a cominciare da Milano e Torino, l’istituzione di un registro degli imam e l’espulsione dell’Ucoii dalla consulta islamica, e al presidente Bertinotti l’insediamento di una Commissione che realizzi una mappatura delle immigrate musulmane in Italia. Perché si possa arrivare laddove di ascolto c’è più bisogno.

Droghe: il "Circolo della Libertà" presenta un progetto di legge

 

Apcom, 2 aprile 2007

 

L’associazione nazionale Circolo della Libertà presenterà un progetto di legge sulle droghe perché lo Stato finanzi campagne regionali di prevenzione nelle scuole.

"Abbiamo deciso di farci promotori di un progetto di legge in forza del quale lo Stato eroghi fondi adeguati alla Regioni per finanziare informazione e prevenzione scolastica sulla droga" ha spiegato la presidente Michela Vittoria Brambilla presentando un sondaggio sulla percezione degli italiani sul problema droga al Circolo della Libertà di Milano. L’associazione sta valutando se sarà un progetto di legge di iniziativa popolare o sarà presentata attraverso un gruppo parlamentare.

Secondo il sondaggio presentato oggi e realizzato dal Centro studi Sintesi di Mestre, il 74% delle famiglie e il 60% dei giovani sarebbe favorevole all’introduzione nelle scuole di corsi di prevenzione gestiti da esperti. In generale, il 95% degli italiani pensa che l’uso di droga da parte dei giovani sia molto frequente, e il 64% crede che negli ultimi cinque anni la diffusione di stupefacenti sia aumentata.

"Nel 2005 in Lombardia è stata sequestrata un terzo della droga scoperta in Italia e in particolare 1,5 tonnellate di cocaina sulle 4,5 sequestrate nel complesso nel nostro Paese" spiega la Brambilla, sottolineando che "proprio l’enorme diffusione della cocaina è sentita come una vera e propria emergenza".

Critici nei confronti della politica del governo in tema di droghe e soddisfatti per l’annullamento del decreto Turco da parte del Tar del Lazio, si sono detti l’assessore di An alla Salute del Comune di Milano, Carla De Albertis, e il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, entrambi ospiti dei Circoli.

In particolare il governatore lombardo ha attaccato "l’annullamento da parte del governo del Dipartimento antidroga che era in carico alla Presidenza del Consiglio" e ha chiesto che "lo Stato aumenti finanziamenti e iniziative di contrasto alla droga". "Per quanto ci riguarda abbiamo aumentato gli stanziamenti per la lotta alle sostanze stupefacenti portandole a quasi 100 milioni l’anno - ha continuato Formigoni - e ci gioviamo di 115 centri regionali e di 128 enti privati accreditati".

Droghe: una "lettera aperta" da Federserd, Cnca e Fict

 

Progetto Uomo, 2 aprile 2007

 

Nel 2007, dopo anni di totale disattenzione, ci sembra doveroso richiamare le politiche nazionali e regionali ad un diverso approccio ai fenomeni di addiction.

La distanza della politica in questi anni si evidenzia con la mancata applicazione di accordi, decreti e leggi condivise, quali le intese Stato Regioni del 1999 sui modelli organizzativi (istituzione dei Dipartimenti delle Dipendenze e sviluppo dei servizi e comunità specialistiche) e sui modelli erogativi (dalla lettura dei fenomeni ai processi di accreditamenti) in gran parte delle Regioni italiane, con la drastica riduzione dei finanziamenti specifici. La legge 45 è di fatto annullata nei principi e nei finanziamenti sia nei suoi indirizzi nazionali (ricordiamo le indicazioni sul 25% della legge) che nel nome di un selvaggio decentramento locale, che la rende sterile per produrre progettualità utili, sia per i ritardi applicativi di molte regioni che per la sua quasi totale sparizione nelle progettazioni della 328.

Persiste nei servizi il blocco delle assunzioni e l’impoverimento delle forze umane in campo (nei servizi siamo ormai al 50 % degli organici previsti);

Si evidenzia la mancanza di percorsi formativi specifici per i vari profili professionali;

Permane l’assenza di percorsi clinici e sociali di vera continuità terapeutica fondamentali per il funzionamento del sistema di intervento;

Le rette per i percorsi riabilitativi comunitari appaiono ridicole in molte regioni (in alcuni casi ferme da 10 anni);

Gli orientamenti solo economicisti nei processi di aziendalizzazione in sanità schiacciano i principi essenziali del lavoro di equipe, la pluridisciplinarietà e l’integrazione.

La sofferenza del sistema di intervento è giunta ad un punto molto critico: centrale è richiamare la politica alle sue responsabilità sul tema delle risorse, senza per questo sottovalutare la rilevanza e l’urgenza di una attenzione ai diritti cioè agli aspetti normativi generali, alla gravità degli aspetti penali e amministrativi che la politica sembra privilegiare in questo momento.

Le organizzazioni scriventi sono pienamente impegnate nel dibattito e nella elaborazione politico legislativa, ma richiamiamo la necessità di una azione a 360 gradi del legislatore. I diritti senza risorse che ne consentano l’esercizio, rischiano di essere inesigibili.

La politica sulla droga deve essere un impegno prioritario sia dello Stato che delle articolazioni dei poteri degli Enti Locali e delle Regioni.

Il nostro impegno è orientato dalla necessità di recuperare un reale coordinamento nazionale per le politiche sulla droga come momento di elaborazione, coordinamento, interscambio progettuale e di linee di azione tra lo Stato, le Regioni, i professionisti del settore.

La Conferenza Stato Regioni deve misurarsi fattivamente sul tema, per garantire ai cittadini livelli essenziali di assistenza sanitari e sociali, veri e non burocratici.

Necessita un Piano nazionale di azione sulla droga che riparta dalla legislazione del 1999 e la aggiorni, considerando l’obiettivo di dedicare al settore almeno l’1,5% del fondo sanitario nazionale, in media con gli indirizzi europei.

Da quasi trent’anni è in corso in Italia l’attuazione, faticosa ma importante e riconosciuta in tutta Europa, di un modello con i Servizi Pubblici, i Ser.T. (550 nel Paese) che svolgono le funzioni di accoglienza, osservazione diagnosi e terapia, e le Comunità Terapeutiche ed i Servizi Intermedi Territoriali (oltre 1.500 sedi ) che intervengono nelle fasi riabilitativo trattamentali. Importante è il ruolo delle strutture del sistema di intervento in ambito preventivo e di riduzione dei rischi. 200.000 persone si rivolgono a queste strutture ogni anno.

Una realtà che permea le metodologie operative e i riferimenti evolutivi di chi vuole occuparsi di persone con problematiche di abuso e dipendenza da sostanze o con comportamenti additivi.

A questo modello di integrazione che è nato dalla pratica e dalla riflessione di molti professionisti dei servizi e delle comunità, facciamo riferimento quando parliamo di "alta integrazione pubblico - privato" che privilegia i bisogni di cura e di assistenza delle persone e poi definisce i modelli organizzativi utili.

Non si vuole qui soffermarsi sulle caratteristiche dei nostri utenti e sui cambiamenti dei fenomeni di consumo, abuso e dipendenza: chi opera tutti i giorni con le persone e le loro storie, incontra queste differenze, le ascolta e le accompagna , e preferisce urgentemente ragionare sul come intervenire.

Le organizzazioni rappresentate nel Tavolo di Alta Integrazione accanto ai compiti dello sviluppo della professionalità e dell’intervento diffuso di settore, si pongono necessariamente anche obiettivi di integrazione territoriale, di volontà di incidere sulla cultura, sugli stigmi ed i vissuti generali verso la tossicodipendenza, i consumatori, ma anche come costruire risposte alle nuove domande.

Affermano la necessità di sviluppare percorsi nuovi e condivisi nella comprensione dei fenomeni di consumo problematico e nell’intervento per gli stati di dipendenza, rivendicando una concreta partecipazione del sistema di intervento ai livelli centrali e decentrati nella ridefinizione del sistema delle regole e dei processi organizzativi.

Ribadiscono che il modello di Alta Integrazione per un intervento qualificato e flessibile sul territorio, a cui hanno aderito oltre il 90% delle realtà pubbliche e private accreditate ad intervenire nel settore in Italia, è l’unico che possa offrire riposte credibili ai cittadini e lo riaffermeranno anche nei percorsi riattivati verso la nuova Conferenza nazionale sulle droghe.

Partendo dal documento del giugno 2003 relativo al Dipartimento delle Dipendenze Cnca, Fict e Federserd svilupperanno anche un percorso di verifica della attuazione dei contenuti di quell’atto e di approfondimento dello stato del sistema dei servizi, negli aspetti organizzativi e finanziari, dei Ser.T. e delle Comunità Terapeutiche.

Le conclusioni di queste riflessioni saranno presentate e discusse a Roma il 26 giugno in una iniziativa del Tavolo di Alta Integrazione nella Giornata Mondiale sul fenomeno Droga a cui da subito invitiamo i politici, le istituzioni, gli operatori e le realtà interessate.

Russia: condanna da Corte Strasburgo per condizioni detenzione

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 2 aprile 2007

 

Il trattamento dei carcerati in Russia è stato oggetto la scorsa settimana di una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Giudicando il caso di un detenuto, il tribunale di Strasburgo ha stabilito all’unanimità che c’è stata una violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo (proibizione di trattamento inumano o degradante) e in base all’art. 41 (giusta soddisfazione) della convenzione, la corte ha imposto alla Russia il pagamento al ricorrente di 15.000 euro per il danno subito. La condanna si traduce però il una condanna al sistema, in quanto il modo in cui l’uomo è stato trattato è però d’uso nelle carceri russe, ed è stato applicato perlomeno a tutti i suoi compagni di detenzione.

L’uomo, condannato a 16 anni per furto e ricettazione. Secondo un documento redatto dal governo, la cella in cui l’uomo è stato detenuto era di 8 metri quadri, con sei cuccette. Il governo ha dichiarato che non c’erano informazioni sul numero di internati nelle celle disponibili, poiché i documenti erano stati distrutti, ma il ricorrente ha detto di aver diviso la cella quasi sempre con 12 - 14 detenuti, con conseguenti problemi per dormire. Il governo ha dichiarato che tutte le celle avevano un lavabo separato dalla zona giorno da una tenda; le cellule venivano disinfettate una volta alla settimana; agli internati era permesso farsi una doccia e cambiare i letti una volta alla settimana; le celle sono state arieggiate naturalmente; c’era riscaldamento centrale e illuminazione nelle celle; era previsto un controllo regolare sulla qualità degli alimenti e ciascun detenuto ha avuto la sua ora d’aria quotidiana.

L’uomo ha dichiarato però che nelle celle vi era una luce fioca, le finestre erano ostruite da spesse sbarre di metallo che hanno ostacolato l’accesso alla luce naturale e all’aria fresca; le celle erano fredde in inverno e roventi e umide d’estate; il sistema di ventilazione era bloccato; la tenda di separazione fra il gabinetto e la zona giorno è stata in realtà costruita dai detenuti; tutti i carcerati di una cella hanno avuto sei minuti una volta alla settimana per farsi la doccia tutti assieme, anche se c’erano solo sei doccini a disposizione, e senza sapone; le lenzuola sono state fornite all’arrivo e non sono state cambiate; il cibo era poco e cattivo e mancavano carne e uova, in violazione dei regolamenti ufficiali. Ammalatosi di tubercolosi, l’uomo ha dichiarato di aver ricevuto un trattamento inadeguato, accusa respinta dal governo.

Il 19 giugno 2001 l’uomo aveva sporto denuncia alla Corte Costituzionale della Federazione russa circa il suo stato di detenzione, per omissione delle autorità, ed ha chiesto la grazia, ma il ministero della giustizia ha respinto due volte le sue richieste. Secondo la Corte di Strasburgo, il fatto che il governo - l’unico che aveva accesso alle informazioni - non sia riuscito a dare una spiegazione convincente dell’impossibilità di documentare il numero di detenuti per cella appare una conferma delle accuse del detenuto. In base a queste, quindi essendoci 12-14 persone in 8 metri quadri, ciascuno di essi aveva a disposizione circa 0.7 metri quadri di spazio, ed inoltre occorreva una rotazione per fruire delle 6 cuccette.

Indipendentemente dai motivi del sovraffollamento, la Corte ha considerato che incombe sul governo la responsabilità di organizzare le sue prigioni in modo da accertare il rispetto della dignità dei detenuti, senza riguardo alle difficoltà finanziarie o logistiche. Anche se non si poteva stabilire l’intenzione di umiliare o degradare il candidato, il fatto che egli sia stato obbligato a vivere, dormire ed usare la toeletta nella stessa cella con tanti altri per più di quattro anni era in sé sufficiente per causare depressione e problemi di un’intensità tale da superare il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e per destare in lui paura e avvilimento tali da generare umiliazione e degradazione.

Il tribunale ha quindi giudicato che c’è stata una violazione dell’articolo 3 a causa delle condizioni di detenzione del ricorrente. Un monito per tutti i Paesi - e ce ne sono anche fra i membri UE - in cui le carceri sono sovraffollate e i servizi essenziali sono di conseguenza al di sotto del minimo.

 

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