Rassegna stampa 22 marzo

 

Firenze: detenuto di 45 anni si uccide in carcere Sollicciano

 

Gruppo "Dentro e Fuori le Mura", 23 marzo 2006

 

Verso le ore 2 della notte tra il 20 e il 21 marzo 2006 si è suicidato nel carcere di Sollicciano Santo Tiscione, di quarantacinque anni. Servendosi della cintura dell’accappatoio, si è impiccato nel bagno della cella nella quale era rinchiuso, la seconda della IV sezione del reparto giudiziario. Il cadavere è stato ritrovato dai due compagni di cella.

Sembra che prima di morire Tiscione abbia lasciato una lettera dalla quale si potranno forse evincere i motivi specifici che lo hanno portato a suicidarsi. Come per gli altri circa cinquanta suicidi, per le decine di tentati suicidi e per le centinaia di casi di autolesionismo che annualmente si registrano nelle carceri italiane, le cause di un tale gesto vanno però anche ricercate nell’isolamento che l’istituzione penitenziaria produce di per sé rispetto al mondo esterno e nelle disumane condizioni di non-vita che i detenuti sono costretti a sopportare.

A Sollicciano oltre mille detenuti vivono per ventidue ore al giorno letteralmente ammassati in celle di dieci metri quadrati e il resto in quei cubi di cemento che sono i cortili di ‘passeggiò. Il livello intollerabile delle condizioni di detenzione nel carcere fiorentino è stato da ultimo osservato e reso pubblico nella giornata di ieri, lunedì 20 marzo 2006, da una delegazione della quale faceva parte anche un esponente del gruppo Dentro e Fuori le Mura. Le parole chiave per descriverlo, sempre drammaticamente insufficienti a fronte di una realtà drammatica, sono le seguenti: sovraffollamento, negazione del diritto alla salute e dell’affettività, cronica scarsità di lavoro, fortissime limitazioni nell’accesso alle misure alternative alla detenzione.

Lodi: il detenuto suicida doveva essere "guardato a vista"

 

Corriere della Sera, 23 marzo 2006

 

Si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella del carcere di Lodi, Giancarlo Bescapè, 45 anni, di Codogno. Sabato mattina aveva ucciso a colpi di spranga l’amante Paola Faraldi, anch’essa quarantacinquenne, sposata, due figli, una ragazza di 16 anni e un maschio di 13. Lei voleva interrompere la relazione che durava da alcuni mesi. Il suicidio ieri mattina verso le 5.45. L’uomo, rinchiuso in una cella di isolamento, ha utilizzato un lenzuolo. Ne ha ricavato una striscia e l’ha legata alla sponda superiore del letto a castello della cella. Poi se l’è stretta attorno al collo e si è lasciato andare. Bescapè, che era guardato a vista, per eludere la sorveglianza delle guardie carcerarie ha atteso il momento del cambio di turno degli agenti. È bastato un attimo per farla finita. Quando le guardie sono intervenute, ormai non c’era più niente da fare.

Ma non era il caso di sottoporre Bescapè ad una sorveglianza più ferrea ed accurata? La domanda non trova risposta perché la direttrice del carcere Caterina Ciampoli lascia detto in segreteria che non intende fare dichiarazioni. "Quando viene adottato un provvedimento di isolamento - ricorda Luigi Morsello, ispettore generale in pensione e direttore del carcere lodigiano dal 1997 al 2005 - sia il soggetto sia la cella sono privati di tutti gli oggetti che possono essere utilizzati per compiere gesti aggressivi, come quello di Bescapè. Le lenzuola però, strappate a strisce, possono essere utilizzate per confezionare un cappio mortale".

Per Andrea Ferrari, uno dei responsabili del gruppo di una ventina di volontari che operano nel carcere lodigiano, "si tratta di un episodio drammatico che deve far riflettere. È il secondo suicidio, a Lodi, nel giro di due anni. Preferiamo non entrare nel merito del caso specifico. Conferma però i problemi che esistono all’interno di tutte le carceri". Da dicembre è rottura completa tra direttrice e volontari, che non hanno più accesso alla casa circondariale. "La nostra presenza - dice Ferrari - non avrebbe evitato il suicidio di Bascapè, ma serve a rasserenare il clima tra i detenuti".

In mancanza di dati ufficiali, che il ministero della Giustizia non fornisce, Ferrari ricorda quelli raccolti, tramite i volontari, dalla rivista "Ristretti Orizzonti" di Padova. Nel 2005 i suicidi in carcere sono stati 57, le morti per cause non accertate 22, quelle per malattia 21, quattro gli omicidi, altrettanti i decessi per droga. In questi primi mesi del nuovo anno i suicidi hanno già raggiunto quota dodici.

La morte di Bescapè rappresenta l’ultimo capitolo della vicenda iniziata con l’uccisione sabato mattina di Paola Faraldi. Verso le 6.30 Bescapè aveva atteso la donna nel parcheggio del Centro Sportivo "Il boschetto" di San Fiorano. Lei era arrivata verso le 7 per iniziare il lavoro di addetta alle pulizie nel ristorante pizzeria all’interno del centro sportivo. Tra i due c’era stata l’ennesima discussione. L’uomo aveva afferrato una spranga di ferro e colpito più volte la Faraldi alle gambe ed alla testa. Poi aveva telefonato ai carabinieri di Codogno. Al tenente Luigi Angiolini aveva detto: "Ho ucciso una donna sul piazzale del centro sportivo". Rinchiuso nel carcere di Lodi, proprio ieri avrebbe dovuto essere interrogato dal magistrato. Un appuntamento al quale Bascapè ha preferito sottrarsi nel modo più drammatico.

Lodi: i volontari; e dietro le sbarre si continua a morire…

 

Il Cittadino, 23 marzo 2006

 

Il cappellano don Luigi Gatti aveva parlato con lui lunedì scorso e constatato la sua "forte depressione". Il suicidio di Giancarlo Bescapè ha portato grande dolore anche all’interno del mondo del volontariato: "L’unica cosa che si può fare - commenta Mario Uggè, volontario del carcere - è quella di stare in silenzio". Il problema del suicidio in carcere, annota invece il volontario Andrea Ferrari "è uno degli aspetti più drammatici della situazione in carcere. E Lodi non è estranea a questo. In Italia nel 2005 sono stati segnalati 57 suicidi e nei primi tre mesi del 2006 siamo arrivati a 12. Sempre nel 2005, confrontando i dati di "Ristretti Orizzonti" si sono contati 22 morti per cause non accertate e 21 per malattia, oltre a 4 per omicidio e 4 per overdose.

Questi dati, a prescindere dal caso di Lodi, devono far riflettere. Il mondo del carcere è anche il mondo dove si muore e chi entra varca un tunnel dal quale è difficile uscire. Aldilà della freddezza dei numeri, le morti in carcere restano purtroppo numerose e drammatiche". Michela Sfondrini fa parte del gruppo di volontari. Si occupa degli incontri letterari ed è totalmente sconvolta. Le sembra "impossibile che possano succedere cose del genere". Anche Grazia Grena è preoccupata: "Non conosco bene il caso di Lodi, anche perché è da Natale che non riesco ad entrare in via Cagnola. La situazione nelle carceri italiane, però, è molto brutta - lamenta -, non c’è assistenza e soprattutto per i nuovi arrivati il rischio di suicidio è altissimo. Generalmente, nelle grandi carceri, quando arrivano detenuti che sono passati da una storia simile a quella del Bescapé, è subito convocato lo psicologo. Quello di via Cagnola è un carcere piccolo dove si potrebbero fare tante cose importanti per dare una mano ai detenuti". L’autorità giudiziaria e il ministero avvieranno un’inchiesta sul caso di Lodi. Bisognerà capire se il suicidio era o no prevedibile, se l’omicida doveva restare in cella da solo e se è stato fatto l’indispensabile per impedire quello che è successo. L’inchiesta lo stabilirà, ma secondo il volontario Alex Corlazzoli, impegnato nel settore dal ‘99, questa è l’ennesima conferma della situazione italiana. "Le carceri del nostro paese - riflette - non sono un luogo di recupero, ma provocano turbamenti tali da portare al suicidio. Sicuramente questo, poi, era un caso particolare. Noi stiamo lavorando con la direttrice e siamo in attesa che si riprenda a collaborare. Il problema è che in molte carceri non c’è una struttura di accoglienza. Le prime persone che i neo arrivati si trovano di fronte sono gli altri detenuti e la polizia penitenziaria. Questo non aiuta le persone a integrarsi nel sistema. Speriamo che questo caso sia l’occasione per accelerare i processi di riavvicinamento con il volontariato. Anche perché quest’ultimo svolge un’importante azione di sfogo nei confronti dei detenuti. Se una persona come Bescapè non fosse stato messo in una struttura come il carcere italiano, ma in una comunità protetta, si sarebbe potuto evitare quello che è successo".

Giustizia: il costo della pena

di Alberto Marcheselli (Magistrato di Sorveglianza di Alessandria)

 

La Voce, 23 marzo 2006

 

Sicurezza dei cittadini, efficacia della giustizia, umanità della vita nelle carceri sono temi affrontati con atteggiamenti emotivi, senza un approccio scientifico. Tanto che in due anni sono state approvate due norme di segno opposto, una volta a vuotare automaticamente gli istituti penitenziari, l’altra a una espiazione solo carceraria della condanna. Si continua comunque a ignorare la necessità di accompagnare i provvedimenti con investimenti: per le strutture di sostegno e controllo agli ex carcerati in un caso, per l’edilizia penitenziaria nell’altro.

Ciclicamente, in occasione di ogni campagna elettorale o di qualche fatto di cronaca eclatante, si torna a parlare di sicurezza dei cittadini, efficacia della giustizia, umanità della vita nelle carceri. Problemi che sono abitualmente affrontati con un approccio in cui tendono a prevalere atteggiamenti emotivi, più ancora che fattori ideologici. Resta latitante, almeno nel dibattito pubblico, qualsivoglia traccia di analisi dei dati obiettivi.

 

Certezza e flessibilità della pena

 

Sono del tutto ignorate le interrelazioni dei vari fenomeni, né è compresa la loro rilevanza sulla qualità della vita quotidiana dei cittadini e i pesanti costi sociali correlati.

L’opinione pubblica è informata delle questioni e delle riforme concernenti la giustizia nella dimensione del processo penale, ma un cono d’ombra sembra avvolgere il mondo della esecuzione della pena.

Si tratta di una realtà tutt’altro che di nicchia: non solo coinvolge gli oltre 70 mila condannati, ma anche le migliaia di persone vittime di reati. Più in generale, la percezione del rischio criminale determina atteggiamenti e comportamenti concreti di tutti noi: non è difficile immaginare l’entità dei costi sociali connessi al fenomeno della microcriminalità, anche se sarebbe arduo misurarli esattamente.

Eppure, quando si parla di efficacia della giustizia e di lotta alla criminalità, non si sfugge dalla contrapposizione, che ha sapore di slogan, tra certezza e flessibilità della pena. Sostanzialmente, la certezza della pena (meglio, la sua rigidità) garantirebbe la sicurezza dei cittadini, ma porrebbe a rischio l’umanità della sua esecuzione, mentre la sua flessibilità si tradurrebbe in una forma di impunità criminogena, pur essendo meglio compatibile con una attuazione umanitaria della sanzione.

 

Verifiche e investimenti

 

Ma una simile impostazione regge a una verifica operata con criteri scientifici, almeno in senso lato?

La efficienza del sistema è, evidentemente, correlata alla sua idoneità allo scopo, che per la sanzione penale è evitare la recidiva del condannato e la istigazione a delinquere per i terzi. Un discorso serio e obiettivo sulla materia non dovrebbe quindi prescindere da criteri di misurazione di tali fattori. Nonostante le apparenze, non è una rilevazione difficile.

Si tratta di assumere come base di elaborazione il numero di persone che hanno completato una pena espiata in forma alternativa alla detenzione (pena flessibile) in un periodo dato, verificare se e quante di queste persone ricadano nel delitto durante o dopo la misura. Il dato va confrontato con quello ottenuto da un campione di persone che nello stesso periodo abbiano espiato una pena solo carceraria (pena rigida). Il confronto tra i due dati mostra quale sia il risultato dei due sistemi, al di là di ogni preconcetto ideologico.

Visto il totale disinteresse che accompagna questi temi, non stupisce che una tale operazione non sia mai stata effettuata o, quantomeno, che gli esiti della rilevazione non siano stati resi adeguatamente pubblici.

Non è allora un caso che, nel giro di due anni, si succedano strumenti scoordinati e di segno sostanzialmente opposto come il cosiddetto indultino del 2003 e la legge ex Cirielli del 2005: il primo volto a un automatico svuotamento degli istituti penitenziari senza alcun serio intervento di supporto, sostegno e controllo delle persone scarcerate. E la seconda pensata per escludere l’espiazione della pena fuori dal carcere per i soggetti recidivi nel delitto.

Sui due interventi normativi, poi, non solo manca una analisi progettuale preliminare, ma anche un serio studio sulla possibilità di una loro attuazione concreta.

Continua infatti a sfuggire, se non nella cerchia degli operatori del settore, che la scelta verso una pena flessibile richiede investimenti cospicui in termini di strutture di supporto, sostegno e controllo. Mentre la scelta opposta comporta o condizioni di vita disumane all’interno degli istituti penitenziari o la necessità di onerosissimi interventi sulla edilizia penitenziaria.

Per rendersene conto, basta riflettere sul fatto che, dati ufficiali alla mano, attualmente sono 37mila le persone che espiano la pena fuori dal carcere: un numero elevatissimo e esattamente pari a quello di chi sconta la condanna in carcere. Sono 37mila vicende criminali che necessiterebbero di supporto e controlli (e quindi, investimenti), e alle quali si può ragionevolmente ricollegare buona parte del tasso di reati commessi e una grossa parte del disagio personale e sociale di grandi aree del paese.

D’altra parte, la pena rigida, in parte attuata dal legislatore della legge ex Cirielli, andrebbe adottata solo una volta constatata l’inadeguatezza dell’altra, che al momento non risulta. E in ogni caso questa scelta imporrebbe di reperire strutture penitenziarie adeguate. Ipotizzando l’esecuzione penitenziaria per solo la metà delle persone che attualmente scontano la pena all’esterno, si dovrebbero trovare 18.500 posti in carcere. Si tratterebbe dunque di progettare la costruzione di trentasette nuovi istituti di grandi dimensioni, per un costo verosimile di diverse centinaia di milioni di euro. Non si tratta dunque di riforme a costo zero, come normalmente si dice, ma a costo, enorme, traslato sui cittadini.

Giustizia: Castelli; volevo graziare le madri detenute con bimbi

 

Apcom, 23 marzo 2006

 

"Mi sono posto il problema di proporre al presidente Ciampi una grazia generalizzata per tutte quelle madri che stanno in carcere ma hanno dei bambini piccoli da zero a tre anni. Poi non se ne è fatto nulla perché ho dato incarico al mio ufficio di studiare la questione e ho verificato l’impraticabilità tecnica del provvedimento e la sua inutilità visto che il 90% di queste detenute appartiene a una categoria sociale precisa, con una innata tendenza a vivere una vita fuori dalle regole". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, a margine della presentazione di un progetto pilota regionale che prevede l’istituzione di una sezione a custodia attenuata per detenute madri. "Dopo pochi mesi, anzi pochi giorni - ha spiegato il ministro - ci saremmo trovate queste detenute nuovamente nei penitenziari". Il ministro ha però sottolineato il problema "amministrativo ma anche e soprattutto etico di queste madri con figli piccoli in carcere. I bambini non dovrebbero crescere dentro delle sbarre".

Lettere: Napoli; dietro le sbarre ci sono uomini, non bestie

 

Il Mattino, 23 marzo 2006

 

Caro dottor Lubrano, sono un ex carcerato da pochi giorni, ho scontato il mio debito con la società, mi sono pentito del male che ho fatto, non pretendo che lei mi creda ma confido sulla sua solidarietà umana, fossi anche l’ultimo essere della Terra. Mi rivolgo a lei per la simpatia e la fiducia che ispira a chi la guarda stando davanti alla televisione. Ma non vengo a chiederle notizie di una legge o di sollecitare una pratica presso questo o quell’ufficio pubblico, niente di personale insomma. Vorrei invece che attraverso di lei anche una sola persona si convincesse che dietro le sbarre non ci sono animali bensì esseri umani, con le loro colpe, certo, con la loro rabbia, con i loro odii, con la loro disperazione. Niente è più terribile, mi creda, della disperazione che ti assale quando rinchiuso capisci gli errori che hai commesso, l’impossibilità di ripararli e avverti tutto il peso della condanna. A volte un aiuto ad accettare la condizione di dannati può venire dall’esterno. Una parola dà forza. In certe carceri so che vanno a parlare gli scrittori, a me non è mai capitato di vederne o sentirne uno. So di non dirle niente di nuovo, in ogni tempo il carcere ha avuto a protagonisti colpevoli e innocenti, pentiti e irriducibili, relitti come si diceva una volta. Ma oggi la residua dignità dei relitti è calpestata: le celle sono così affollate che alla pena del giudice si aggiunge l’incubo della follia. Tutti i miei ex compagni di sventura avevano l’impressione di impazzire. E io non li dimentico. Perciò le ho scritto. Pensi, il giorno che ho riottenuto la libertà uscendo dall’istituto in cui ero detenuto, ho respirato a lungo. Dentro mi sembrava di soffocare. Grazie se prenderà in considerazione questa lettera.

 

Clemente G. - Pozzuoli

 

Risponde Antonio Lubrano

 

Questa lettera nasce da un incontro occasionale. Sei sul tram o al bar oppure per la strada, qualcuno ti guarda, ti riconosce, ti ferma. Sei una faccia televisiva, ti occupi di diritti dei cittadini, quindi è normale che succeda. È anche un segno di fiducia. Mi scriva, ho concluso dopo averlo ascoltato. E ora la sua sobria prosa, signor Clemente, mi ha fatto tornare in mente uno splendido articolo di Candido Cannavò (sì, l’ex direttore della Gazzetta dello Sport) apparso sul Corriere della sera in occasione di una mostra alla Triennale di Milano che affronta il tema del carcere. Sono andato a ripescarlo per citare un passaggio che mi ha particolarmente colpito.

È del 22 febbraio scorso e sottolinea la necessità di "far capire alla gente che il carcere non è una pattumiera e che dietro le sbarre vivono persone con dignità, intelligenza, fantasia, speranza. Donne e uomini sul crinale di uno strapiombo: una piccola spinta basta a perderli ma, se allunghi loro una mano, possono ancora essere recuperati alla società... Il rapporto tra il pubblico e il carcere è dominato dalla riluttanza e nel migliore dei casi dall’indifferenza". In questi mesi il dibattito sul sovraffollamento delle carceri si è fatto più duro per la mancata approvazione di un’amnistia, che era stata invocata anche da Papa Giovanni Paolo II.

Nella maggioranza di governo il provvedimento aveva creato due opposte correnti di pensiero. "Anche in galera gli uomini restano uomini", ha ricordato su Famiglia cristiana il magistrato Adriano Sansa, un principio in linea con le enunciazioni di Cannavò. "Crediamo o no, scrive Sansa, alla dignità della persona, al rispetto dei suoi diritti fondamentali sempre e comunque? Pensiamo che le critiche che regolarmente piovono sul nostro Paese per la lentezza dei processi e l’eccessiva durata della custodia preventiva siano il frutto di una malignità degli altri Paesi?" Interrogativi da meditare. Le cifre, del resto, parlano chiaro: in carcere ci sono attualmente circa sessantamila persone mentre la disponibilità di posti è poco più della metà. E a lenire in qualche misura il problema c’è il cosiddetto "affidamento in prova", altrimenti sarebbero centomila.

Circa 32mila condannati infatti sono addetti a servizi sociali fuori dagli istituti di pena; 3.500 sono in semilibertà (trascorrono una parte della giornata fuori dalle mura del carcere) e più di 14mila si giovano di un’altra misura alternativa al carcere, la detenzione domiciliare. "Una parola dà forza", dice il signor Clemente. E certo, non solo scrittori ma anche uomini di pensiero, studiosi, scienziati, personaggi della cultura dovrebbero frequentare le carceri e non, come si dice, "per portare una parola di conforto", compito che attiene più agli uomini di chiesa, ma per dialogare con i detenuti, per scambiarsi idee, per ascoltarli. Grazie all’editore Mario Guida, mio vecchio amico di liceo, ho avuto assai di recente una esperienza del genere nel carcere di massima sicurezza di Benevento. Di questa visita, di questo incontro provocato da un mio libro, conservo un ricordo che scuote la mia "indifferenza" di cittadino (a cui fa riferimento Cannavò) per il problema carcere.

Pesaro: agente aggredito, è il terzo caso dall'inizio del 2006

 

Il Messaggero, 23 marzo 2006

 

E sono tre. Con l’episodio di ieri sale, infatti, il conto delle aggressioni ad agenti di polizia penitenziaria verificatesi nella casa circondariale di Pesaro, nel primo trimestre del 2006. Una al mese. L’ultimo episodio ieri mattina, quando un detenuto italiano con disturbi psichiatrici, dopo un’animata discussione con gli agenti della polizia penitenziaria preposti alla sua sorveglianza, ha letteralmente dato in escandescenza e strattonato con forza due agenti. Uno di loro ha perso l’equilibrio e ha poi violentemente sbattuto contro la scalinata alle sue spalle. "Un diverbio un po’ più accesso del normale", tende a minimizzare la direttrice dell’istituto, Maria Benassi. Un diverbio probabilmente nato come tale, ma terminato in malo modo, con una prognosi di guarigione rispettivamente di 7 e 2 giorni per i due malcapitati agenti, immediatamente visitati da un medico.

Chi, invece, appare molto preoccupato per l’episodio è il segretario regionale del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria), Aldo Di Giacomo: "La situazione è preoccupante e allarmante, ma non mi stupisce. Infatti oltre che con la carenza di organico il carcere di Pesaro deve fare i conti con una popolazione carceraria in continuo aumento". Il sindacalista, in particolare, si riferisce, sia alla mancata assegnazione alla casa circondariale di Villa Fastiggi di 19 agenti di polizia penitenziaria, come riconosciuto dal decreto ministeriale con cui si definisce l’organico di ogni istituto carcerario italiano, sia al sovraffollamento record di questo periodo che nei giorni scorsi ha portato il carcere a toccare il massimo storico di 264 detenuti.

"Nonostante il decreto ministeriale abbia stabilito diversamente e nonostante le nostre continue richieste, il ministero ha detto che non è previsto alcun agente per Pesaro, evidentemente si attende la tragedia. Ma ora interverremmo duramente, chiederemo un incontro con il provveditorato regionale e speriamo che questa volta ci ascoltino". Intanto, a detta del Sappe, le condizioni di sicurezza del carcere di Pesaro rimangono critiche, anche per una sorta di spirito di emulazione che, si spera, non si diffonda tra i detenuti, come spiega lo stesso sindacalista Di Giacomo: "A sorvegliare un detenuto nei suoi spostamenti – spiega – ci devono essere tre agenti, invece per mancanza di personale ce ne sono di meno. È chiaro che la sicurezza ne risente. In particolare mi riferisco al possibile vortice di violenza che si potrebbe generare se i detenuti si sentono meno sorvegliati e controllati".

Roma: grazie alla Regione la Tv satellitare entra in carcere

 

Roma One, 23 marzo 2006

 

Anche i detenuti di due carceri della Capitale avranno la possibilità di seguire le loro partite di calcio preferite in tv. Questo grazie ad una iniziativa della Regione Lazio e dell’assessore al bilancio Luigi Nieri, che hanno provveduto a fare entrare oltre le sbarre due parabole attraverso le quali seguire i programmi col satellite. All’evento hanno partecipato anche l’attore romano Pino Insegno e l’associazione Antigone.

Una iniziativa di cui beneficeranno tutti i detenuti, che potranno vedere la Tv satellitare a tempo indeterminato, grazie ad un pacchetto offerto gratuitamente e che dalle regie esterne dei due carceri arriverà in ogni cella. Dalle partite di calcio ai film, ai programmi di intrattenimento, ogni recluso potrà assistere alle varietà di trasmissioni in onda sui canali satellitari.

"Visitare le carceri - ha detto l’assessore Nieri al termine della visita a Rebibbia - è sempre una cosa molto dolorosa perché sono luoghi di sofferenza e Casal del Marmo fa ancora più impressione perché lì ci sono dei ragazzi. Con questa nostra iniziativa diamo la possibilità di vedere un po’ di televisione... per chi è recluso avere accesso alle partite di calcio e vedere la propria squadra del cuore è qualcosa di molto importante, così come piace a tutti quanti".

L’assessore non ha dimenticato comunque di sottolineare quello che rimane il problema principale delle carceri, il sovraffollamento, ricordando di avere in cantiere un finanziamento di un milione e mezzo di euro per finanziare una legge che è ora in discussione, una legge quadro sul carcere che affronta il tema della sanità, oltre ad "un altro finanziamento di 450.000 euro per quei due bracci di Regina Coeli che non hanno riscaldamento e sono privi di docce calde".

Venezia: Vincenzo Pipino; io non faccio parte di associazioni…

 

Lettera a Ristretti Orizzonti, 23 marzo 2006

 

Carissimi amici, aldilà di ogni blandizia, seguo sempre e con moto interesse il vostro sito, non solo me ne compiaccio, ma ne vado fiero, credetemi, per tutto quello che fate per i detenuti. Ho letto con piacere la pubblicazione sul vostro sito di due mie interviste; una del 14 marzo u.s. e una di oggi 21 c.m. apparse sul "Gazzettino di Venezia".

È vero, ricevo decine e decine di lettere da parte di tantissimi detenuti i quali, mi chiedono di tutto (sono documentato). Ma è altrettanto vero che tutto questo lavoro lo svolgo da solo e non appartengo a nessuna associazione. Con ciò, non sono assolutamente contrario a qualsivoglia iniziativa pro-detenuti, anzi, più siamo meglio è. I miei interventi, sono legati esclusivamente a problemi di carattere giuridico. In somma, aiutare sia i detenuti e i loro avvocati, nel risolvere varie problematiche nel campo penale e nel campo dell’esecuzione. Mi occupo solamente di questo!

Pertanto, con tutto il dovuto rispetto per Car.Di.Viola, di cui ne sono felice per la sua nascita e con la quale nei primissimi contatti avevo dato la mia disponibilità ma, per questioni del tutto personali, io non faccio parte di questa associazione. Non vorrei che l’articolo, così come è stato scritto, qualche detenuto pensasse che io mi occupo anche degli interessi di questa associazione, ma che invito gli stessi ad aderire, perché credo nel loro prossimo lavoro, così come in tutte le associazioni pro-detenuti. Rimango, comunque sempre a Vostra disposizione per qualsiasi collaborazione esterna. Con profonda stima, un caloroso abbraccio a tutta la redazione e a tutti i miei amici detenuti nelle carceri Italiane, scusate, dei "lazzaretti" italiani.

 

Pipino Vincenzo

Larino: la Casa Circondariale aderisce a "Tamburi della Pace"

 

Il Tempo, 23 marzo 2006

 

Anche la Casa Circondariale di Larino ha aderito all’iniziativa internazionale "Tamburi della Pace", per una primavera di pace nelle scuole, nelle piazze e nei giardini. Alle 10 di ieri mattina nel carcere frentano è infatti andato in scena uno speciale spettacolo musicale curato da alcuni studenti dell’Istituto Professionale di Stato per i servizi commerciali e turistici "Vincenzo Cuoco" di Campomarino. Sara, Marisa, Mariangela, Lello e Giuseppe si sono cimentati nell’interpretazione di grandi classici della musica italiana ed internazionale come "Generale", "Diamante", "L’isola che non c’è" e "Imagine", tra gli applausi dei presenti in sala.

"Abbiamo accolto con gioia l’invito ad esibirci - ha detto Sara - e speriamo di portare con la nostra partecipazione un pò più di luce nel cuore di questi ragazzi". Gli studenti detenuti dell’I.T.I.S ""E. Majorana" di Termoli, tra una canzone e l’altra, sono saliti sul palco per recitare versi significativi di grandi poeti e pensatori, esprimendo così il loro determinato no alle guerre e all’odio. Hanno inoltre realizzato anche alcuni cartelloni, nell’ambito di un evento a cui hanno contribuito tutti i docenti con il prezioso sostegno degli agenti di polizia penitenziaria. Soddisfatta la Direttrice Coordinatrice del carcere, Rosa La Ginestra, che ha dichiarato: "Di pace non si discute mai abbastanza e quindi ben venga tutto ciò che ci porta ad ulteriori riflessioni sul tema. È importante soprattutto che si semini bene perché diventi qualcosa di concreto e non resti solo nella dimensione ideale".

Brescia: Vivicittà nel carcere di Verziano con "Porte aperte"

 

Giornale di Brescia, 23 marzo 2006

 

Entra nel vivo la fase preparatoria della manifestazione podistica dell’U.I.S.P. Vivicittà, giunta alla 23ª edizione internazionale, che avrà il clou domenica 2 aprile con la corsa agonistica e non competitiva con partenza ed arrivo in Piazzale Arnaldo.

Il prologo è costituito da undici anni dal Vivicittà Porte-Aperte, la corsa agonistica riservata ai detenuti / detenute, agenti di Polizia Penitenziaria (alla quale però partecipano da sempre oltre un centinaio di atleti esterni, in prevalenza studenti degli Istituti Superiori) che è prevista per sabato 25 marzo alle ore 10.30 nella Sezione di Reclusione di Verziano. Anche quest’anno, grazie alla collaborazione fornita dalla direzione della Casa Circondariale cittadina, circa una cinquantina di detenuti delle Sezioni Maschili e Femminile, si contenderanno il podio ed un posto onorevole nella classifica nazionale di Porte-Aperte, che vede coinvolti in tutta Italia una ventina di istituti penitenziari, minorili e per adulti, di cui ben 5 nella nostra Regione, che sostiene il Progetto-Carcere con la Provincia di Brescia. Saranno accompagnati nella loro gara da una nutrita schiera di studenti degli Istituti Superiori cittadini Abba - Ballini, Ipsia - Moretto, Liceo Leonardo e della provincia: Lorenzo Gigli di Rovato e Don Milani di Montichiari.

Droghe: nuova legge in Gazzetta Ufficiale, mancano le "tabelle"

 

Ansa, 23 marzo 2006

 

La Gazzetta Ufficiale ha pubblicato il testo aggiornato della legge 309 in materia di droga, alla luce delle modifiche introdotte dal 1990 in poi, ultima delle quali con il decreto convertito in legge il 21 febbraio scorso. Si tratta, quindi, del complesso delle norme che regolamentano la "disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza", alle quali mancano soltanto le cosiddette "soglie" o "tabelle", cioè la definizione, per ogni sostanza, dei quantitativi massimi di principio attivo tollerati per il consumo personale, oltre i quali si prefigura lo spaccio.

Su questo è al lavoro, da settimane, un’apposita commissione istituita presso il Ministero della salute, e composta da otto esperti (tra tossicologi forensi, medici legali e farmacologi) coordinati da due direttori generali del Ministero e da uno dei direttori del Dipartimento antidroga della Presidenza del Consiglio. La commissione avrà tempo fino al 31 marzo prossimo per arrivare alle conclusioni, ma il compito non è dei più semplici: le sostanze su cui esprimersi sono 170 (tutte quelle comprese nella Tabella I allegata alla legge), ma l’orientamento, secondo quanto si è appreso, sarebbe quello di concentrarsi su una quarantina di quelle più diffuse.

La commissione dovrà inoltre individuare le procedure diagnostiche, medico-legali e tossicologico-forensi per accertare il tipo, il grado di intensità dell’abuso di sostanze stupefacenti o psicotrope. Tra le novità della nuova legge in vigore, l’unificazione in un’unica tabella di tutte le sostanze stupefacenti, senza distinzione tra droghe leggere e pesanti; sanzioni amministrative per i consumatori, che vanno, a seconda della gravità e della recidività, dall’ammonimento alla sospensione della patente fino all’obbligo di presentarsi periodicamente all’ufficio di polizia; pene da 6 a 20 anni per i reati di spaccio e traffico di qualunque tipo di sostanza; possibilità per chi è condannato a pene inferiori ai 6 anni di usufruire di misure alternative al carcere; equiparazione dei servizi pubblici e di quelli privati, con possibilità, per le comunità accreditate, di certificare lo stato di tossicodipendenza, finora appannaggio esclusivo dei servizi pubblici.

 

 

Precedente Home Su Successiva