Rassegna stampa 1 febbraio

 

Livorno: caso Lonzi, una lettera della madre di Marcello

 

Anarcotico, 1 febbraio 2005

 

Voglio ringraziare tutte le persone che mi sono state vicine e che hanno contribuito alla lotta contro l’ennesima impunità a favore degli uomini in divisa. Purtroppo, ma c’era da aspettarselo, anche la procura di Genova ha deciso di archiviare le mie denunce, anche se è stata costretta ad ammettere la validità della contro perizia e quindi in pratica a sconfessare la vergognosa versione ufficiale che parla di aritmia cardiaca. Sono sicura che, anche se gli uomini di tribunale se ne sono lavati le mani, la gente generosa che odia le ingiustizie saprà fare in modo che non ci si dimentichi di Marcellino. Grazie.

 

Maria Ciuffi

Giustizia: Papa; nelle carceri siano rispettate norme etiche e civili

 

Adnkronos, 1 febbraio 2005

 

Un appello affinchè anche nel mondo carcerario siano rispettate "le norme etiche e civili". A lanciarlo è stato Benedetto XVI salutando questa mattina, durante l’udienza del mercoledì, i dirigenti della Amministrazione penitenziaria italiana. "La vostra presenza - ha detto il pontefice - mi offre l’opportunità di richiamare i singoli e l’intera società al rispetto delle norme etiche e civili, che stanno alla base dell’umana convivenza". Rivolgendo poi un saluto ai giovani presenti all’udienza generale, il Papa ha indicato loro la figura di San Giovanni Bosco di cui ieri si è celebrata la memoria liturgica. "Guardate a lui, cari giovani - ha detto - come a un autentico maestro di vita e di santità". L’udienza generale oggi si è svolta in Aula Paolo VI alla presenza di 8mila pellegrini.

Palermo: Musotto, presidente Provincia; l’Ucciardone va chiuso

 

Vita, 1 febbraio 2005

 

Lo ha detto oggi il presidente Francesco Musotto dopo aver visitato la IX sezione del carcere palermitano. "L’Ucciardone va chiuso definitivamente. Una sua completa ristrutturazione appare troppo onerosa e forse impossibile, visti i grossi limiti della struttura ottocentesca". Lo ha dichiarato il presidente della Provincia di Palermo, Francesco Musotto, che ha visitato la IX sezione del carcere palermitano, accompagnato dal direttore della Casa Circondariale, Maurizio Veneziano. Al centro della visita la situazione di precarietà nella quale sono costretti a vivere i detenuti, da essi stessi denunciata in una lettera indirizzata, tra gli altri, al presidente Musotto. "L’elenco delle privazioni e dei disagi - ha detto Musotto - è veramente inaccettabile. Basti pensare alla mancanza di acqua calda, al sovraffollamento, alla carenza di igiene. Per non parlare dei disagi cui sono costretti anche i familiari che vanno in visita". "Tra l’altro - ha continuato Musotto - la situazione da terzo mondo nella quale si trova il carcere dell’Ucciardone provoca una vera e propria discriminazione dei detenuti del vecchio carcere borbonico rispetto a quelli di altre strutture più moderne. Una situazione inumana della quale risentono fortemente anche le condizioni di lavoro delle guardie e degli operatori carcerari. La decisione più logica è, senza ombra di dubbio, disporre un immediato stanziamento per migliorare per quanto possibile le attuali condizioni di vita dei detenuti ma nel contempo elaborare un celere piano di chiusura definitiva di questo sito. L’Ucciardone - ha concluso il presidente - deve essere restaurato e diventare un bene monumentale da adibire a museo o a struttura per attività sociali. Nessuno può pensare di avere ancora un carcere così in un Paese civile come l’Italia".

Roma: 500 detenuti di Rebibbia scioperano con Pannella

 

Agenzia Radicale, 1 febbraio 2005

 

495 detenuti di Rebibbia digiunano per due giorni a sostegno dell’iniziativa nonviolenta di Marco Pannella per i diritti costituzionali e democratici, per la difesa delle istituzioni, per la legalità della competizione elettorale con particolare riferimento alle discriminazione imposte alla Rosa Nel Pugno. Lo rende noto un comunicato di Radicali Italiani. L’elenco dei nomi, con le firme autografe dei detenuti aderenti allo sciopero della fame, sono state affidate al Presidente della Consulta Penitenziaria di Roma, Lillo Di Mauro, che le ha consegnate questa mattina presso la sede del Partito Radicale.

Dei 495 detenuti che hanno attuato, nelle giornate che vanno dal 28 al 31 gennaio uno o due giorni di digiuno, 135 sono cittadini stranieri provenienti da 31 Paesi: Albania, Algeria, Argentina, Belgio, Bosnia, Brasile, Burundi, Cile, Cina, Colombia, Croazia, Francia, Ghana, Grecia, India, Iraq, Macedonia, Marocco, Mauritius, Nigeria, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Serbia e Montenegro, Singapore, Somalia, Spagna, Tunisia, Ucraina, Venezuela.

Non è la prima volta che i detenuti accompagnano Marco Pannella in una iniziativa nonviolenta a difesa della legalità delle istituzioni; lo hanno fatto partecipando alla lotta per il ripristino del plenum della Corte Costituzionale e della Camera dei Deputati e, recentemente, nella campagna per l’amnistia e l’indulto. Lo stesso Marco Pannella, intervenendo alcuni giorni fa a Radio Radicale per motivare la sua decisione di continuare lo sciopero totale della sete e della fame, si era rivolto al mondo carcerario con queste parole: "So – aveva detto - che l’unico ambiente nel quale mi si comprenderà anche in questa circostanza, è quello delle carceri. Quello della polizia penitenziaria, quello dei detenuti di ogni tipo." "L’altro giorno, a Roma, nelle nostre strade – aveva raccontato Pannella - ho incontrato due vu cumprà, senegalesi immagino. Uno di loro mi ha detto: ‘ciao grande capo. Vai avanti, sai, noi ti seguiamo!’." "So anche – aveva concluso Pannella - che gli extra-comunitari il senso del diritto ce l’ hanno perché l’hanno vissuto da bambini, contro quei regimi che li hanno portati a vivere in Italia."

Intanto, sono già pervenute, attraverso i siti radicali, decine di annunci di partecipazione al "Grande Satyagraha per i diritti costituzionali e democratici del popolo italiano, per la difesa del vivere civile e della conoscenza" lanciato per domenica 5 e lunedì 6 febbraio prossimi nelle forme dello sciopero della fame o di altre azioni nonviolente.

Droghe: rischio evidente di peggiorare la situazione delle carceri

 

Redattore Sociale, 1 febbraio 2005

 

Il decreto Fini-Giovanardi sulle droghe rischia di peggiorare la già grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari del Paese? Il rischio è "evidente" e "concreto", ha dichiarato ai microfoni di Redattore Sociale, Carmelo Cantone, direttore della casa circondariale di Roma "Rebibbia nuovo complesso". Subito dopo il voto al Senato del decreto, giovedì scorso, l’opposizione ha denunciato con Massimo Brutti (Ds) una "legge ingiusta e autoritaria" e Franco Corleone (Forum droghe) ha previsto "30mila detenuti in più in un anno".

Ma il Ministro Giovanardi continua a rassicurare: il provvedimento è indirizzato al recupero dei tossicodipendenti. Più eloquenti delle dichiarazioni di politici e associazioni i dati ufficiali del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap). Al 30 novembre 2005 a fronte di una capacità di 45.490 posti, erano reclusi 60.483 detenuti, ovvero il 33% in più rispetto ai posti disponibili. 16.179 detenuti, il 27,6% del totale, sono tossicodipendenti e il 3,2% in trattamento metadonico. Su 179.960 reati ascritti nel 2005, ben 21.266 (14,6%) erano reati contro il testo unico sulla droga 309/90. Ogni detenuto costa allo stato 131,67 euro al giorno, 4mila euro al mese. In un anno vengono destinati alla reclusione di soggetti tossicodipendenti 777 milioni di euro, il 28% dei 2.807 milioni di euro previsti nel bilancio 2006 del Dap.

 

Dottor Cantone, qual è la situazione del sovraffollamento a Rebibbia?

Abbiamo 1530 detenuti una capienza ottimale per 1.080 detenuti, tollerabile per 1.250. Quindi abbiamo un sovraffollamento che è cronico, non raggiunge i vertici di qualche mese fa, non è il sovraffollamento che c’è in altre piazze d’Italia, comunque siamo al di sopra della norma.

 

Come superare il sovraffollamento: nuove strutture o depenalizzazione?

Qui il dibattito è molto acceso anche tra noi operatori penitenziari come nella società civile. Personalmente credo che bisogna spingere sulle pene alternative. Il costo della detenzione nel tempo è molto alto.

 

Quanti dei detenuti di Rebibbia hanno commesso reati contro la legge sulle droghe?

Abbiamo circa un 30% di detenuti tossicodipendenti e una buona metà entra in gioco con spaccio, detenzione, con reati del testo unico 309/90.

 

L’eventuale approvazione delle modifiche alla legge sulla droga comporterà il rischio di un ancora maggiore sovraffollamento?

Il rischio c’è, è evidente che ci sia un aumento dei casi di detenzione. Poi ci andremo a misurare con l’esperienza concreta nel momento in cui diventerà legge vigente, ma il rischio concreto c’è.

 

Quanto costa allo Stato ogni giorno la detenzione di un cittadino?

Più o meno 135 euro.

Droghe: decreto Fini-Giovanardi, la legge della discordia

 

Famiglia Cristiana, 1 febbraio 2005

 

Secondo il nuovo testo approvato dal Senato, ora alla Camera, non esistono più droghe pesanti o leggere. Ne parliamo con don Chino Pezzoli e don Vinicio Albanesi.

Spinelli, eroina, cocaina, ecstasy. Tutto uguale. Basta con la distinzione tra droghe leggere e pesanti. Pene detentive da 6 a 20 anni per i reati di traffico e spaccio di stupefacenti. Possibilità per chi viene condannato a meno di 6 anni di usufruire delle misure alternative alla galera: sanzioni amministrative per i consumatori, certificazione della tossicodipendenza non più esclusiva delle strutture pubbliche. Sono i punti sostanziali delle nuove norme sul consumo delle droghe, inserite nel decreto sulle Olimpiadi invernali, approvato dal Senato. Ora il testo passerà alla Camera.

Il Centrodestra esulta. L’opposizione parla di "dramma" e molte delle comunità di assistenza annunciano la "disobbedienza civile". Il testo prevede la reclusione da 6 a 20 anni e la multa da 26 mila a 260 mila euro per chi "coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa, consegna" qualsiasi tipo di droga. Scompare la modica quantità, i limiti massimi per "l’uso personale" e una limitazione delle pene verranno stabiliti da un successivo atto amministrativo del ministero della Salute. Acli, Agesci, Cisl ed Exodus bocciano il decreto, "lontano dalla realtà e dalle persone". L’associazione Antigone prevede che ci saranno molti più tossici in galera (oggi sono già 20 mila). Il cartello: "Non incarcerare il mio crescere" (40 associazioni di assistenza) annuncia azioni di disobbedienza civile. Per cercare di capire e saperne di più, ne abbiamo parlato con due sacerdoti impegnati da sempre in prima linea contro la droga.

Quali sono le novità previste dalla nuova normativa sulle droghe? Abbiamo voluto sottoporre a due sacerdoti, due operatori, le stesse domande, per capire di più: don Chino Pezzoli, della comunità Promozione umana e don Vinicio Albanesi, del Cnca (Comunità di Capodarco, che aderisce al cartello "Non incarcerare il mio crescere").

 

Pezzoli: "Le novità principali sono tre: la prima è l’individuazione di un parametro investigativo che permetta alle forze dell’ordine di distinguere nettamente (sotto il profilo giuridico) le condotte detentive finalizzate alla cessione (spaccio) e quelle tese al consumo (uso personale). La rete del marketing dello spaccio si rivolge ormai a tutta la popolazione anche attraverso una presenza diffusa di promoter e si adatta alle esigenze dei clienti più di quanto chieda loro di adattarsi.

Bisogna quindi perseguire penalmente gli spacciatori e curare i tossicodipendenti. Ne consegue l’urgenza di determinare le soglie quantitative di possesso personale di droga. Tale compito viene affidato a un decreto del ministero della Salute di concerto con il ministero di Giustizia, consultata la presidenza del Consiglio dei ministri e il Dipartimento nazionale per le politiche antidroga. La seconda novità è che i detenuti tossicodipendenti devono ottenere misure alternative al carcere fino a sei anni. Se la normativa viene approvata dal Governo, il detenuto tossicodipendente, che intende sottoporsi a un programma terapeutico di recupero e socio-riabilitativo, potrà avvalersi degli arresti domiciliari o in comunità, della sospensione dell’esecuzione della pena, di affidamento di prova in casi particolari. Inoltre, verrà assicurato al tossicodipendente il proseguimento dell’affidamento in prova presso una comunità terapeutica nel caso in cui abbia ultimato il proprio programma terapeutico e socio-riabilitativo in un momento antecedente alla conclusione della pena. Il prolungamento del trattamento terapeutico da quattro a sei anni permette a più detenuti tossicodipendenti di uscire dal carcere e farsi curare.

"Terzo punto: il privato sociale viene assimilato alle strutture pubbliche in ordine alla certificazione dello stato di tossicodipendenza e alla predisposizione del piano terapeutico. La novità consiste nel fatto che, in determinate condizioni e sussistendo particolari requisiti minimi, le strutture del privato sociale potranno rilasciare la certificazione che attesta lo stato di tossicodipendenza attraverso esami tossicologici e accertamenti anamnestici, nonché proporre il piano terapeutico. Il Dipartimento delle dipendenze competente autorizzerà il piano terapeutico e assicurerà la copertura economica della presa in carico del soggetto nel rispetto del budget regionale. Si tratta di snellire i servizi, offrire ai tossicodipendenti più risposte di cura e riconoscere al privato sociale una pari dignità operativa".

 

Albanesi: "La logica sottesa allo stralcio non è di difficile interpretazione. Per questa legge drogarsi è un "delitto", prima di tutto. Da qui la necessità di "definire" oggettivamente il reato: viene introdotta la tabella che stabilisce la soglia oltre la quale si commette reato. Una logica senza senso perché, a norma di diritto, occorrerebbe criminalizzare qualche milione di ragazzi in Italia. Poiché ciò non è materialmente possibile, l’introduzione di un’unica tabella delle sostanze aiuta a dire (e non a fare) che è stato fatto il possibile per contrastare l’uso delle droghe. Poiché si prevede che molti, con le nuove norme, finirebbero in carcere, si introduce, a correzione, la possibilità di entrare in comunità, in alternativa al carcere. Le comunità diventano così un luogo "attiguo" al carcere in quanto sono messe in concorrenza con la prigione. A questo punto era necessario "elevare la dignità" delle comunità terapeutiche in rapporto ai servizi pubblici. Non potendo affrontare il problema, si affida il tutto alle Regioni perché legiferino in materia".

 

Famiglia Cristiana: che cosa ne pensate dell’equiparazione dei trattamenti penali previsti per il giovane che consuma cannabinoidi e per il tossicodipendente "cronico" da eroina?

 

Pezzoli: "Lo stralcio della legge che viene presentato in Parlamento pone il problema in termini diversi. Si vuole insistere sulla prevenzione, ossia informare e formare una coscienza vera sul rischio dell’uso di sostanze erroneamente e superficialmente chiamate "leggere". Non si prevede nessun trattamento penale detentivo, ma solo richiami e sanzioni amministrative per dissuadere il consumo e lo spaccio. Ricordo che il consumo di cannabinoidi è motivo di scompensi psichici rilevanti che varrebbe la pena conoscere scientificamente".

 

Albanesi: "Significa semplicemente non conoscere i problemi della tossicodipendenza. L’uso dei cannabinoidi può derivare da trasgressione e da ricerca di piacere, quindi da consumo occasionale, da consumo abituale, da dipendenza vera e propria. Fortunatamente, pochi tra i ragazzi che consumano cannabinoidi passano poi alla cronicità o a droghe cosiddette "pesanti".

Il consumatore abituale di eroina invece è un soggetto dipendente a tutti gli effetti. La distinzione non serve, come spesso si dice, a tollerare l’uso di droghe, ma a intervenire con metodi diversi rispetto a consumi e ad atteggiamenti diversi. Le stesse comunità, dato non irrilevante, adoperano strumenti molto differenti tra i giovani trasgressivi e i tossicodipendenti cronici".

 

Famiglia Cristiana: un’unica tabella per le sostanze e la definizione delle quantità sopra le quali scatta l’accusa di spaccio: tutto nelle mani di un gruppo tecnico-scientifico del ministero della Salute. Non le sembra che possa voler dire affidare a una commissione tecnica la "definizione" di "reato penale"?

 

Pezzoli: "Prima di tutto il decreto prevede un intreccio di consulenze scientifiche, giudiziarie, politiche e istituzionali. Non si vuole buttare in galera nessuno, se non gli spacciatori di morte. Cioè, coloro che fanno parte di camorra, mafia e ‘ndrangheta e di altri gruppi malavitosi. Attualmente il potere decisionale di sbattere in galera o di assolvere lo spacciatore spetta al giudice, spesso sprovvisto di documentazione storica e di conoscenza diagnostica dell’imputato. Serve fare maggiore chiarezza e adottare strumenti legislativi più idonei per interrompere la rete del "marketing dello spaccio". Tollerare l’offerta significa legittimare la domanda".

 

Albanesi: "Non si vuol capire, nell’illusione di voler trovare la soluzione giusta, che la definizione "oggettiva" di quantità non risolve il problema del consumo delle droghe. Il consumo è un mix di comportamenti, stati di vita, sostanze che ciascun soggetto vive in modo irripetibile. L’esperienza ci dice che le storie di ciascuno sono storie personali. Rincorrere la quantità della sostanza crea l’illusione di voler fissare lo spartiacque tra normalità e dipendenza".

 

Famiglia Cristiana: i trasgressori saranno "obbligati" alla cura nelle strutture residenziali come unica alternativa al carcere. Le comunità o accetteranno di ospitare le persone soggette alle pene previste nel provvedimento o dovranno impedire a queste persone di sfuggire al carcere. Non è ricattatorio?

 

Pezzoli: "La comunità non è un carcere alternativo, ma "la casa dell’umano" in cui sono accolte persone che vogliono vivere e crescere insieme. Nessuna legge può obbligare il detenuto tossicodipendente a entrare in comunità e la comunità non sarà mai disposta a costringere la persona dipendente da sostanze stupefacenti e psicotrope a svolgere un programma che richiede una partecipazione libera e motivata. Lo stralcio della legge Fini presentato in Parlamento non prevede nessun obbligo di cura alternativa nella comunità, ma solo una possibilità di scelta".

 

Albanesi: "Abbiamo ospitato da anni, nelle nostre comunità, tossicodipendenti provenienti dal carcere. I risultati non sono stati così esaltanti. Da una parte si militarizza la comunità: orari, presenza, spostamenti rigidamente controllati che non aiutano all’autodeterminazione. Dall’altra abbiamo notato che molti rimangono "buoni" e apparentemente collaborativi durante lo sconto di pena, per ricominciare subito dopo lo scampato pericolo. I casi che hanno "utilizzato" la comunità per la disintossicazione erano persone già intenzionate a voler smettere: non certo per paura del carcere".

 

Famiglia Cristiana: Agnoletto, della Lila, sostiene che nella Finanziaria 2005 sono stati stanziati 5 milioni di euro al Fondo nazionale per le comunità giovanili, ma che il 95 per cento di questo fondo sia stato destinato alle comunità e ai centri indicati direttamente dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Economia.

 

Pezzoli: "So, per certo, che quelle quote non sono state destinate alle comunità terapeutiche e ai centri indicati dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Economia. So inoltre che per la prevenzione i Comuni hanno avuto fondi disponibili e che qualcosa si è fatto. Per la riduzione del rischio i fondi ci sono stati, anche se l’impiego meriterebbe delle puntualizzazioni. Sono sempre più convinto che i soldi devono servire per migliorare la vita delle persone e non viceversa".

 

Albanesi: "È risaputo che l’attuale Governo ha premiato "gli amici" e discriminato "i nemici", con un sistema spoil system indegno di un governo di tutti. Basti guardare l’abbandono nel quale è stato lasciato il sistema pubblico dei servizi. Sono stati soppressi dibattiti, tavoli di discussione, partecipazione, salvo premiare le comunità "vicine". Se è diritto di un Governo seguire una "propria politica", è indegno di democrazia aiutare chi è favorevole alla "propria" politica, dimenticando che i destinatari degli aiuti e dei benefìci sono cittadini in difficoltà, a qualsiasi credo appartengano".

 

Pezzoli: "Si tratta di snellire i servizi, offrire più risposte di cura, e parità di dignità operativa al privato sociale...".

Albanesi: "Per questa legge, drogarsi è un "delitto", prima di tutto. Da qui la necessità di "definire" oggettivamente il reato... Una logica senza senso".

Pezzoli: "Si vuole insistere sulla prevenzione, cioè informare e formare una coscienza vera sul rischio delle droghe cosiddette "leggere" ...".

Albanesi: "La distinzione non serve a "tollerare l’uso di droghe" ma a intervenire con metodi diversi rispetto a consumi diversi...".

Pezzoli: "Non si vuole buttare in galera nessuno, se non gli spacciatori di morte... Tollerare l’offerta significa legittimare la domanda".

Albanesi: "L’esperienza ci dice che le storie sono individuali, e lo spartiacque tra normalità e dipendenza è illusorio".

Pezzoli: "I fondi?... I soldi servono per migliorare la vita delle persone e non viceversa".

Albanesi: "Sono state premiate comunità "vicine" al Governo, dimenticando che i destinatari degli aiuti sono cittadini in difficoltà, a qualsiasi credo appartengano".

Fini-Giovanardi: le droghe non si combattono con voti di fiducia

 

Progetto Uomo, 1 febbraio 2005

 

Primi commenti a pochi giorni dall’approvazione in Senato del decreto legge che modifica la legge sulla droga. Il voto di fiducia con cui il Senato ha approvato lo stralcio Giovanardi è squalificante per chi l’ha imposto, è umiliante per chi l’ha votato ed è offensivo per quanti operano nelle dipendenze.

 

È squalificante per chi l’ha imposto…

 

Perché non si camuffano le "disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi" all’interno di "misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno". Per varare disposizioni tanto importanti miranti ad affrontare un problema sociale da tutti giudicato allarmante era lecito attendersi che queste disposizioni venissero sottoposte separatamente al voto dei Senatori.

Perché la parola data va rispettata. Il 27 ottobre scorso il ministro Giovanardi, nell’intento di favorire la partecipazione alla IV Conferenza di Palermo, in un suo comunicato stampa affermava: "Ho inoltre chiesto ai Presidenti delle due Commissioni di merito di non iniziare la discussione del provvedimento in aula per poter tenere conto dei contributi che potranno derivare dalla Conferenza". Sulla considerazione in cui sono stati tenuti i contributi emersi dalla Conferenza avrò modo di esprimermi quando il testo sarà definitivamente approvato dalla Camera. Sulla modalità con cui si è giunti all’approvazione dello stralcio in Senato era lecito attendersi che la via scelta fosse quella di sottoporlo al dibattito in aula. È vero che l’impegno a non iniziare la discussione del provvedimento in aula è stato rispettato prima della Conferenza di Palermo, ma non pensavo che l’impegno al silenzio si sarebbe esteso anche al dopo fino all’abolizione della discussione in Parlamento.

 

È umiliante per chi l’ha votato…

 

Perché rinunciare al dibattito in aula significa tradire il mandato ricevuto dagli elettori riducendo il proprio ruolo a quello di notaio di decisioni prese altrove.

 

È offensivo per quanti operano nelle dipendenze…

 

Perché, con molti altri operatori, ho partecipato alla Conferenza di Palermo in quanto la ritenevo, e la ritengo tuttora, un mio preciso dovere: opero da oltre vent’anni nelle dipendenze e credo di avere qualcosa da suggerire per migliorare uno stralcio con il quale, volente o nolente, dovrò fare i conti nella mia azione quotidiana. A Palermo c’è stata la possibilità di dialogare, con quale incidenza lo vedremo nel testo definitivo dello stralcio: una rapida lettura del testo approvato in Senato non lascia molto spazio all’ottimismo. Ho l’impressione che la Conferenza di Palermo sia stata una pura formalità, una presa in giro di quanti vi hanno partecipato tanto i giochi erano già fatti come sostenevano coloro che non vi hanno partecipato. Non condivido le motivazioni degli assenti, ma la presa in giro mi offende…

La legge 309 sulle dipendenze risale al 1990, ha compiuto 15 anni: sono tanti e li dimostra. Tutti sentiamo il bisogno di riscriverla alla luce di una realtà che in quindici anni è profondamente mutata. Ma di riscriverla insieme.

Che senso ha approvare uno stralcio solo perché fortemente voluto da una parte politica in piena campagna elettorale? Uno stralcio che vede la ferma opposizione di gran parte delle forze politiche e degli operatori del settore? Il rischio è evidente: al primo cambio di maggioranza la legge verrà nuovamente cambiata, e così avanti di legislatura in legislatura. Verrà mai il giorno in cui un problema sociale come questo verrà affrontato, anche con il contributo di chi opera nelle dipendenze, a partire dalla domanda di aiuto di chi soffre e non dalla ricerca di consenso di chi legifera?

Doppia diagnosi: patto inevitabile tra pubblico e privato-sociale

 

Progetto Uomo, 1 febbraio 2005

 

Nei casi di "doppia diagnosi" sono richieste modalità di gestione complesse che non sembrano prescindere dalla presenza di equipe curanti in grado di trattare, nello stesso momento, sia la dipendenza che il disturbo psichiatrico. Il trattamento residenziale trova indicazione per una parte dei soggetti così diagnosticati. Una parte, invece, per la gravità della diagnosi o per le difficoltà comportamentali non riesce a trovare accoglienza presso strutture idonee.

È esperienza comune la difficoltà e, a volte, la crisi e infine il rifiuto, provocati nelle comunità tradizionali dal paziente con comorbilità. Si pone quindi un problema culturale per gli operatori del pubblico e del privato di confronto dei loro modelli con quelli di una cultura psichiatrica, rappresentata a sua volta da approcci molto diversi tra loro, in quanto al di là di un ipotetico momento unificatore – entro certi limiti – sulla diagnosi, dal punto di vista dell’intervento, anche questi approcci possono differenziarsi molto tra di loro. Inoltre, parlando di residenzialità e comorbilità, è da aggiungere l’esperienza derivata in questi anni dal lavoro sull’istituzione psichiatrica, al fine di non ricadere nella riproposizione di istituzioni "pseudo manicomiali" o comunque totalizzanti, in quanto finalizzate al loro "auto mantenimento" per un nuovo "target" di pazienti che allo stigma sociale della tossicodipendenza uniscono quello del disturbo psichiatrico.

A questo proposito bisogna sottolineare anche come la psichiatria che in molti casi, specie nel passato, ha cercato di liberarsi delle tossicodipendenze come di un fardello pesante e non gradito da far gestire a rari cultori della materia, o comprimari, dedichi oggi molta più attenzione a questo tema, in una piena consapevolezza dell’importanza e dell’entità del fenomeno in termini sociali, tanto da rappresentare una quota prevalente della psicopatologia. Parlando quindi di rete delle opportunità e comorbilità non si può non far riferimento alle esperienze della psichiatria anche per quello che riguarda il significato di programma residenziale e semiresidenziale oltre che l’idea stessa di comunità terapeutica.

È evidente, infatti, come si debba far chiarezza sul tipo di comorbilità a cui ci si riferisce, in quanto diversi sono i problemi che ci pone il tossicodipendente con disturbo di personalità rispetto allo psicotico grave e non può essere sufficiente affiancare uno psichiatra all’équipe per affermare la terapeuticità di quel progetto residenziale, a meno che non si tratti di pazienti già compatibili con i trattamenti attuali, portatori di patologie meno importanti e per i quali non sono quindi necessarie nuove strutture specifiche. Ma non sono questi che costituiscono il nostro problema. Il problema che noi ci troviamo spesso ad affrontare e invece quello di quei pazienti per i quali non c’è un posto dove stare, né nelle famiglie, né nelle comunità attuali, né nei Servizi attuali, né negli ospedali attuali. Sono quei pazienti che sfuggendo da un trattamento ad un altro, da una comunità ad un’altra, da un ricovero coatto in reparto psichiatrico ospedaliero a un’overdose, a un gesto clamoroso, finiscono alla fine per trovarsi un posto attraverso quel suicidio che noi potevamo già prevedere. Pensando a questi pazienti vale forse la pena di fermarsi un momento a riflettere sull’esperienza delle comunità per tossicodipendenti e per pazienti psichiatrici, per capire a quale tipo di progetto terapeutico ci ispireremo.

 

Le individuazioni delle comunità

 

I criteri che consentono di definire una comunità come terapeutica sono comunemente definiti da queste caratteristiche: l’ingresso del soggetto deve essere frutto di una motivazione e di una scelta personale e non può essergli imposto in alcun modo da altri; la strategia fondamentale per promuovere il cambiamento è costituita dalle attività di gruppo; la comunità si deve proporre come struttura aperta. In Italia il movimento delle Comunità per tossicodipendenti sviluppatosi negli anni settanta ha avuto un importante modello di riferimento nelle comunità americane sviluppate a partire dall’esperienza di Syanon, la prima comunità residenziale per tossicodipendenti. Costantini e Mazzoni hanno proposto la distinzione tra comunità implicitamente ed esplicitamente terapeutiche, Kanaeclin, nelle sue ricerche, ha individuato tre differenti modelli organizzativi: Comunità orientate dalla trasmissione/imposizione di modelli di comportamenti adeguati; Comunità orientate a sbloccare/nutrire; Comunità orientate alla comprensione dei comportamenti. Possiamo considerare a parte quelle comunità che si connotano ulteriormente per la presenza di un leader carismatico.

Tali iniziative terapeutiche vengono definite da Bergeret come "anaclitiche" o "narcisistiche", in quanto la tecnica si baserebbe su un rafforzamento quasi "ortopedico" della persona, dall’esterno attraverso il terapeuta e/o l’istituzione. In questi ultimi anni, rispetto a queste affermazioni, sono avvenuti notevoli cambiamenti nei programmi residenziali e semiresidenziali. Si è arrivati a superare il tabù del farmaco in comunità - in numerosi casi del metadone -, si parla di "moduli di programma capaci di modellarsi sulle diverse situazioni personali. "Ogni modulo deve contenere modalità e strumenti d’intervento dotati di una certa autonomia e in grado, al limite, di potersi staccare dal modulo che lo precede o che lo segue e di poter funzionare di per sé" (Bimbo). Il programma (o la struttura) per la doppia diagnosi dovrebbe salvaguardare una modalità differenziata di presa in carico: tali apporti, per essere in grado di qualificare proprio quel tipo di servizio, non possono prescindere dalla competenza plurispecialistica ma devono garantire soprattutto flessibilità e modulazione dell’intervento, per rendere produttivo un tale progetto è necessario un gruppo di operatori in grado di rielaborare i modelli tradizionali dell’intervento identificando e risolvendo ogni elemento di possibile cristallizzazione e rinunciando il più possibile alla ripetizione di schemi operativi, ormai acquisiti e spesso "maneggiati" in ‘modo automatico.

Appare chiaro quanto possa essere delicato l’intreccio di dinamiche educative con gli elementi dell’intervento clinico e terapeutico. Bisogna comprendere quanto si debbano ancora affinare gli elementi dell’intervento residenziale in un precario equilibrio tra educazione e trattamento a fronte della complessità delle condizioni che emergono al momento del distacco dalle droghe.

 

Una diagnosi effettuata con scrupolosità

 

Esiti delle droghe o condizioni preesistenti? Compensate dall’azione di contenimento della comunità o indotte a uscire allo scoperto proprio dall’esposizione all’intensa esperienza emotivo-relazionale del ricovero residenziale? Torniamo dunque alla necessità di inquadramenti diagnostici che consentano di definire il tipo di problema orientando gli interventi attraverso una relazione strutturata tra Servizi Tossicodipendenze e Comunità, lasciando un successivo spazio all’osservazione del paziente senza l’interferenza delle droghe e considerando le conseguenze di un contesto che, comunque, risulta modificato rispetto a quello di provenienza della famiglia di origine, senza la comprensione del quale anche la diagnosi rischia di rimanere un informazione statica e parziale.

È evidente dunque la necessità di un lavoro di conoscenza e di integrazione che, guardando a questo tipo di paziente e alle riflessioni già fatte in campo psichiatrico da Zapparoli parlando di terapia dello psicotico, definisca l’integrazione su diversi piani. Il primo è tra i differenti poli di un’ideale triangolo, cioè trattamento psicofarmacologico, psicoterapeutico, riabilitativo-assistenziale. Un secondo piano riguarda l’integrazione tra i diversi membri dello staff curante, in maniera formalizzata – con la partecipazione di tutto il personale al gruppo di supervisione –, in parte non formalizzata –tramite gli interventi e i contatti estemporanei di ogni giorno.

Un terzo livello è più allargato: non riguarda tanto la comunità nel suo interno, quanto i suoi rapporti con i reparti ospedalieri e i Servizi di Salute Mentale e Tossicodipendenze di competenza, la famiglia, l’entourage e l’ambiente del singolo paziente. Questi rapporti devono essere stretti affinché la struttura in cui operiamo rappresenti solo un momento, ci si augura evolutivo ed emancipativo, dell’assistenza al paziente ed è proprio il senso storico della continuità quello che deve essere mantenuto e fornito.

 

Comunità e operatori

 

A questo punto certe riflessioni in atto in campo psichiatrico sulle comunità e le funzioni residenziali possono diventare forse stimoli anche per noi per capire meglio a quali strutture stiamo pensando. Penso ad alcune considerazioni di Anna Ferruta che dal suo punto di vista di psicoanalista invita a riflettere su alcuni temi: dobbiamo continuare a vedere la comunità come famiglia o esistono altre metafore più adeguate, dal momento che la comunità rappresenta una famiglia ideale di cui il paziente deve fare sempre il lutto rispetto a quella reale? Gli operatori sono preparati a reggere un investimento o transfert indifferenziato sulla Comunità e non sul singolo operatore, con le frustrazioni che ne conseguono sul piano della relazione e dell’identità professionale? Cosa si intende per regole? Un modello vero e proprio da rispettare o piuttosto una cornice che può essere infranta, all’interno di un processo flessibile di continuità e cambiamento?

Se gli operatori diventano anche loro molto ingombranti i pazienti soffocano, come in quei casi dove si creano situazioni di identificazione alienante inconscia per intrusione di figure troppo forti, particolarmente a livello transgenerazionale, fino ad arrivare al carattere innaturale e pietrificante di gruppi e comunità artificiali. Siamo dunque pronti noi operatori dei Servizi per le Tossicodipendenze e delle Comunità a confrontarci con questi temi, ad accettare il passaggio da una certa "ortopedia morale" alla "quotidianità come produttrice di eventi", considerando le strutture residenziali come "apparati produttivi di quotidianità, intendendo con Correale "la quotidianità come sufficientemente prevedibile e capace di dare la sensazione di una rete di momenti significativi sempre riconoscibile e attendibile", ma "allo stesso tempo capace di piccoli motivi di dubbio e incertezza che hanno il fine di incrementare il senso di responsabilità del singolo paziente, ridando sapore alle abitudini stesse in un clima in cui sono possibili parziali, nuove, piccole acquisizioni"?

Credo che solo l’accesso a questo tipo di dibattito sulla sofferenza psichica dell’individuo e le connessioni con i suoi sistemi di riferimento ci consenta, poi, di fare quei progetti coordinati, quelle definizioni di complementarietà e di opportunità tra servizi ed enti ausiliari di cui abbiamo bisogno per affrontare questa sfida. L’esperienza di ricerca clinico-epidemiologica condotta nel corso del 2003 nell’U.O. Ponente, in sintonia con i dati condivisi della letteratura più recente sull’argomento e con le attuali valutazioni delle Società scientifiche italiane (SIP, SITD), indica la opportunità di riservare la definizione di "doppia diagnosi" ai casi che, soddisfacendo i criteri proposti dal DSM, presentano una diagnosi propria di dipendenza e una diagnosi propria di altro disturbo psichiatrico, che si configurano ad un livello di gravità medio-alto. Il criterio della gravità, quindi, è il criterio unificante di condizioni cliniche diverse e la gravità va intesa come compromissione del funzionamento globale della persona.

La complessità generale dei pazienti con un quadro di comorbilità di questo tipo è per molti aspetti evidente: inevitabili e intricate sono le reciproche influenze delle condizioni psicopatologiche emergenti e sottostanti, e lo stesso processo diagnostico, da cui scaturiscono le opportunità della cura, è reso problematico in modo peculiare sia dal punto di vista dei tecnici delle dipendenze che da quello dei tecnici della psichiatria. Si tratta di un gruppo di pazienti che, in presenza di quadri clinici confusi o complicati da intossicazione, astinenza, assunzione terapeutica di farmaci non in uso nei normali protocolli psicofarmacologici, generalmente ricevono, allo stato attuale, trattamenti psichiatrici occasionai, non sufficientemente mirati, parziali o disomogenei rispetto alle terapie in corso. La "doppia diagnosi", dunque, non consiste nella semplice concomitanza di una condizione tossicomanica con un altro disturbo psichiatrico ma nella realtà di una selezionata tipologia di pazienti, tuttora quasi totalmente in carico al Ser.T, che per le sue caratteristiche di cronicità grave, elevato tasso di ospedalizzazioni, bassa compliance ai trattamenti, più elevato rischio suicidario o di pericolosità sociale, costi complessivi maggiori a carico dei servizi sanitari, richiede modalità di gestione complesse, che non sembrano poter ragionevolmente prescindere dalla presenza di equipe curanti in grado di trattare, nello stesso momento, sia la dipendenza che il disturbo psichiatrico.

Il gruppo costituito dagli operatori della U.F. "DD" ha stabilito contatti permanenti con i Servizi psichiatrici e gli operatori del privato sociale che svolgono attività in questo settore, tramite riunioni periodiche finalizzate alla sperimentazione di modelli intermedi di integrazione, fondati su premesse di gestione condivisa di casi clinici.

Frosinone: in Provincia convegno Cisl sugli istituti di pena

 

Il Tempo, 1 febbraio 2005

 

LA Cisl (unitamente alla funzione pubblica) accende i riflettori sul pianeta degli istituti di pena. Lo fa organizzando un convegno per venerdì 3 febbraio (ore 9.30) presso il salone di rappresentanza dell’Amministrazione provinciale dal titolo "Il carcere: dalla logica dell’emergenza alle prospettive possibili. Per contrastare il sovraffollamento, per coinvolgere il territorio e per valorizzare il personale penitenziario". I lavori presieduti dal segretario generale della Fps di Frosinone Angelo Ricci saranno introdotti dal segretario generale della Cisl ciociara Pietro Maceroni e a seguire da una comunicazione di Mauro Petrilli, coordinatore provinciale Cisl Welfare Penitenziario e dagli interventi di Michele Marini, vice sindaco ed assessore alle politiche sociali del Comune di Frosinone, da Francesco Giorgi, assessore alle politiche sociali della Provincia di Frosinone, dall’On.le Angiolo Marrone, garante dei diritti dei detenuti della regione Lazio, dalla dott.ssa Irma Civitareale, direttore casa circondariale di Cassino e dall’On.le Alessandra Mandarelli, assessore alle politiche sociali della regione Lazio. Le conclusioni dell’iniziativa saranno tratte da Tommaso Ausili, segretario della Usr-Cisl del Lazio. Nell’invito il segretario generale della Cisl Pietro Maceroni cita testualmente ì l’idealità di fondo che anima il nostro impegno di uomini e di donne della Cisl è radicata nel nostro patrimonio di valori e di storia. Ed è proprio in nome di queste idealità e di questi valori che noi non vogliamo un carcere senza speranza e una pena solo affittiva. Rifugiamo da una visione esclusivamente custodialistica e poliziesca e manteniamo un’attenzione ed un desiderio di solidarietà anche nei confronti dei cittadini detenuti. In altre parole ad una domanda più che legittima di sicurezza della collettività occorre individuare risposte che non possono essere "di solo carcere" o indistintamente repressive, bensì devono poter seguire forme e modi alternativi e variegati sulla scorta, anche, dei risultati ottenuti negli altri Paesi dell’Unione Europea".

Empoli: un premio dalla Regione per il teatro-carcere

 

Comunicato stampa, 1 febbraio 2005

 

Martedì 1° febbraio, conferenza regionale per la Cultura al museo Pecci di Prato. Da 10 anni continua l’esperienza con le ragazze della Casa a custodia attenuata. Un premio per l’attività teatrale nel carcere di Empoli. Lo ha assegnato la Regione Toscana alla compagnia Giallo Mare Minimal Teatro per il lavoro svolto alla Casa a custodia attenuata femminile di Empoli.

La premiazione è in programma martedì 1° febbraio, in occasione della seconda conferenza regionale per la Cultura che, secondo l’intento della Regione Toscana, vuole rendere conto del lavoro culturale sviluppato dal complesso intreccio tra politica culturale regionale e politiche culturali locali, facendo emergere la positiva "cultura del fare" e del "fare insieme", tra Regione, Province, Comuni, tra istituzioni e associazionismo. Il premio ex-aequo per la cultura contemporanea - sezione spettacolo - alla Rete del teatro carcere toscana, a Maria Teresa Delogu e Luana Ranallo di Giallo Mare Minimal Teatro.

Sono ormai quasi dieci anni che Giallo Mare Minimal Teatro realizza laboratori e progetti teatrali all’interno della Casa a custodia attenuata femminile di Empoli, grazie anche al contributo del Comune di Empoli e, in particolare, all’impegno dell’assessorato alle politiche sociali. Obiettivo dei vari laboratori è stato, grazie alla continuità progettuale, la ricerca della qualità dell’azione e dell’elaborazione teatrale con le detenute, che negli anni si è dimostrata sostanzialmente efficace.

Alcuni degli spettacoli realizzati dalle detenute sono stati inseriti e presentati alla cittadinanza nelle stagioni dirette dalla compagnia per conto del comune di Empoli e del circuito teatrale regionale, oppure come nel caso di "Estate al fresco" (giugno-settembre 2005) sono diventate il centro di un’estate culturale realizzata nel carcere, ma aperta e frequentata dalla cittadinanza.

Altra caratteristica di questa esperienza è la questione femminile, per tematiche prescelte, per la composizione del gruppo di lavoro storicamente fatto da donne, siano esse operatrici professioniste della compagnia, oppure donne detenute dell’istituto. Un mondo femminile che non è sempre facile esplorare, che mostra anche molti aspetti complessi e articolati, ma che spesso è riuscito a sorprendere per vitalità, generosità, rigore e forza comunicativa.

Le detenute, in questi anni, hanno avuto modo d’incontrare operatori, critici del settore, sguardi partecipi di spettatori e osservatori interessati ad un’esperienza dove l’arte scenica è utilizzata come strumento di affermazione sociale, recupero non "dell’individuo", ma delle capacità e competenze comunicative del detenuto. Un’esperienza dove l’arte non genera automaticamente artiste o attrici, ma diventa strumento di formazione culturale di cittadini e cittadine, appartenenti o esclusi da una comunità. L’obiettivo primario dell’esperienza teatrale in carcere rimane quella di creare un ponte tra il mondo "dentro" e quello esterno, un contatto comunicativo alternativo tra la città e il carcere attraverso la produzione di spettacoli, favorendo, quando possibile, la partecipazione del pubblico.

Il progetto teatrale di quest’anno prevede l’allestimento dello spettacolo "Closed" liberamente ispirato all’opera di Garcia Lorca "La casa di Bernarda Alba". Il dramma racconta del potere tirannico della madre (Bernarda Alba), che impone alle cinque figlie femmine un lutto di otto anni dopo la morte del padre; un potere simboleggiato dal bastone che Bernarda tiene tra le mani. Le ragazze della Casa a custodia attenuata presenteranno il loro spettacolo nell’ambito della rassegna teatrale "Confini", promossa dal comune di Empoli, in collaborazione con Giallo Mare e la Fondazione Toscana Spettacolo. La data prevista è giovedì 30 marzo. Ufficio stampa Comune di Empoli, via G. del Papa 41 - Sandro Bartoli cell.: 328.8604164; uff.: 0571.757626; fax 0571.757823; e-mail: s.bartoli@comune.empoli.fi.it

Milano: "Foto da galera", storie dall’universo del carcere

 

Giornale di Vicenza, 1 febbraio 2005

 

Storie, pensieri e ricordi incollati sui muri e riportati al presente come in una sorta di versione fotografica degli "strappi" di Rotella. L’immaginario dei detenuti si mescola con un vissuto di cui si recuperano indizi spesso lancinanti. Dentro a un luogo chiuso, luogo del recupero sociale ma anche della disperazione e della possibile speranza per un altro futuro, per chi si è trovato sulla strada e… poi, dentro. Quarto e quinto raggio del carcere di San Vittore. È nell’estate del 2002 che la direzione del penitenziario milanese dà luogo alla ristrutturazione di alcune sezioni dell’edificio. Ed è nel settembre di quell’anno che Davide Ferrario scandaglia con il suo obiettivo luoghi e spazi del carcere. Regista di Casalmaggiore, classe 1956, già critico cinematografico e sceneggiatore (45° parallelo di Attilio Concari), regista nel 1989 de La fine della notte seguito da Anime fiammeggianti (1994), Guardami (1999), Dopo mezzanotte (2004) e Se devo essere sincera (2004), Ferrario propone ora la mostra Foto da galera in corso a Cinisello Balsamo, con un allestimento all’aperto in piazza Gramsci, fino al 26 febbraio.

"Entrando un pomeriggio di settembre, la sensazione che provai fu quella della scomparsa repentina di un popolo colpito da un cataclisma. In mezzo al corridoio erano buttate masserizie destinate al macero, stracci, casse, vestiti intrisi di umidità. Le celle erano deserte, i letti a castello di ferro, nudi, senza materassi. Restavano i muri. Quelli non c’era stato né tempo né ragione di ripulirli. E i muri raccontavano un sacco di storie". È quanto afferma Ferrario per descrivere le impressioni che lo videro protagonista in quei primi istanti dentro il carcere.

E le storie riprese dal fotografo sono davvero tante, le più diverse e in molti casi le più forti. Graffiti, disegni, scritte, collage, è quanto scaturisce dalle immagini di Ferrario, che per molte circostanze trovano singolari analogie con le opere di un grande artista italiano recentemente scomparso, che dello strappo aveva fatto la sua poetica espressiva: Mimmo Rotella. Così, quasi per strappi, meglio per frammenti, le storie dei detenuti del carcere San Vittore di Milano, si susseguono con ritmo incalzante, con frasi e forme di natura originalmente artistica.

Un cinque di picche, una pagina seminascosta di un calendario erotico, un pacchetto di sigarette incollato al muro e, più sotto, il "prezzario mese di novembre" di una drogheria. Accanto a un crocefisso è la scritta "possono chiudere il nostro corpo ma il nostro cuore vola libero" (Anto, 14-9-98), e ancora con pennarello su di un muro "tutti vogliamo andare in paradiso ma nessuno vuole morire". Storie di uomini si svelano via via lungo questo percorso, secondo un’indagine da cui si scoprono vissuti ed esperienze diverse, i motivi della sopravvivenza ma, anche, di una speranza. Il ritaglio, da una rivista, di due occhi che risaltano su di un verde qua e là scrostato, piccoli contenitori costituiti da pacchetti di sigarette, o altri da mezzi pacchi di pasta.

Ancora fotografie appiccicate al muro, pagine di giornale, ritagli e carte geografiche (l’Afrique), o cartoline con riprodotte le città (Saluti da Cesena). E c’è anche chi non manca di far sortire, dentro una situazione di disperazione, lo spirito, una opportuna dose di auto ironia: sì, sotto la scritta a stampa che campeggia a caratteri cubitali "Dichiaro di non possedere alcun bene, né immobile, né mobile; dichiaro altresì di non aver alcun reddito; di non superare il reddito previsto di legge", scritta a biro è una sorta di firma conclusiva che recita "dichiaro di essere un detenuto onesto!".

Così si racconta il quarto e quinto raggio di San Vittore, così, ancora, sui muri scrostati con carta incollata, accanto a santini sono ritagli pubblicitari, un foglio di carta a quadretti con l’elenco dei compiti giornalieri e settimanali, "la madonna dell’ermellino" di Leonardo da Vinci a fianco del poster di Paola e Chiara fotografate da Rankin, i disegni di uomini muscolosi e tatuati, la squadra del cuore, Marilyn accanto a un’immagine di una madonna con bambino sopra cui è la scritta "Virgen Maria - Madre del Ecuador", l’immagine di un cipresso lungo il quale scorre una strada, dalla prospettiva infinita.

Ma il pensiero si sposta anche agli affetti: 10.1.00 / 5.3.02 "mamma 6 sempre nel mio cuore". Immagini incollate sui muri nel tempo, storie personali, desideri, pensieri, ricordi, momenti di vita e di attesa. Immagini che toccano temi fondamentali quali la religione, il sesso, il desiderio di viaggio, la misurazione del tempo e della propria storia che trascorrono inesorabili. A San Vittore con le foto di Ferrario si parla proprio di questo, di storie ed esperienze di uomini, soggetti invisibili, che vengono ora resi protagonisti di un’altra vicenda, certamente della necessità di vivere, e di ritornare in una possibile normalità, in un mondo da cui disoccupare sogni e fantasmi, dentro cui, se possibile, ritrovare, quanto prima, un’altra identità! "Foto da galera", fotografie di Davide Ferrario. Piazza Gramsci, Cinisello Balsamo (Milano). Fino al 26 febbraio. Per informazioni, Museo di fotografia contemporanea (02.6605661), www.museofotografiacontemporanea.org.

 

 

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