Rassegna stampa 11 dicembre

 

Giustizia: una task force per l’esecuzione penale

di Luigi Manconi (Sottosegretario alla Giustizia)

 

www.giustizia.it, 11 dicembre 2006

 

A quattro anni dall’ultima convocazione, ma a soli sei mesi dall’insediamento del nuovo Governo, è tornata a riunirsi - con la significativa partecipazione dei ministeri per gli Affari regionali e le autonomie locali, dell’Interno, del Lavoro, della Salute, della Pubblica Istruzione e della Solidarietà sociale - la Commissione nazionale di consultazione e coordinamento con le Regioni, gli Enti locali e il volontariato, istituita - nella sua prima composizione - con Decreto del Ministro di Grazia e Giustizia nel lontano 1978.

Già da allora, con grande lungimiranza e nel pieno spirito di una riforma penitenziaria che andava nella direzione della territorializzazione della pena rieducativa voluta dalla Costituzione, il Ministero della giustizia - a seguito della istituzione delle Regioni e del primo trasferimento ad esse di competenze già prerogative dello Stato - si è posto il problema del coordinamento della propria responsabilità istituzionale, nel trattamento delle persone private della libertà, con quelle delle Regioni e degli Enti locali sul territorio. Il tempo, le modifiche legislative e costituzionali succedutesi, il consolidarsi di esperienze istituzionali e del volontariato, hanno negli anni fatto crescere la rilevanza di questa sede di confronto tra tutti gli attori a diverso titolo coinvolti nella esecuzione penale.

Come già ha avuto modo di dire il Ministro, a partire dalle comunicazioni alle Commissioni parlamentari sul programma di Governo, siamo perfettamente consapevoli di non essere sufficienti a noi stessi nella piena attuazione delle prescrizioni costituzionali in ordine alla qualità e alla finalità della pena detentiva e della privazione della libertà per motivi di giustizia. Avvertiamo la necessità, e auspichiamo la praticabilità, della massima sinergia tra istituzioni statali, regionali e locali, tra istituzioni e società civile, per poter conseguire quegli obiettivi di reinserimento sociale, di riduzione della recidiva, di prevenzione della devianza e di sicurezza dei cittadini che la Costituzione ci assegna e l’opinione pubblica ci chiede.

Fuori dalle polemiche strumentali e alla giusta distanza dai fatti, dobbiamo fare tesoro dell’esperienza post-indulto. Tutti insieme abbiamo affrontato quella che si prospettava come una emergenza e che - grazie al concorso di tutti - è stata affrontata nel migliore dei modi possibili. Il Ministero della Giustizia ha immediatamente sollecitato le Prefetture e le proprie articolazioni periferiche, gli Enti locali hanno predisposto servizi e il volontariato ha affiancato gli operatori istituzionali nella delicata opera di accoglienza e accompagnamento delle persone dimesse dagli istituti penitenziari. Nelle settimane e nei mesi successivi, le Regioni, il Ministero della Giustizia, il Ministero del lavoro e quello della Solidarietà sociale hanno stanziato fondi e promosso bandi per il reinserimento delle persone scarcerate.

Non abbiamo fatto tutto quello che sarebbe stato necessario, ma abbiamo fatto molto, più di quanto sia mai stato fatto a beneficio delle persone scarcerate. Se riusciamo a riconoscere il valore di quanto è stato fatto e a vedere lo scarto con quanto altro sarebbe stato utile fare, possiamo da una parte apprezzare il valore della collaborazione tra istituzioni e tra istituzioni e società civile, e dall’altra individuare la carenza di progettazione e di intervento da colmare nella quotidianità del lavoro di accompagnamento e di reinserimento sociale.

Nel particolarissimo mese di agosto che abbiamo alle spalle, sono uscite dal carcere quindicimila persone; ogni anno in Italia ne escono, una dopo l’altra, tra ottanta e novantamila. Da oggi, anzi da ieri, dovremmo far tesoro dei problemi che quei quindicimila ci hanno posto per far fronte a quelle ottanta-novantamila che giorno dopo giorno escono dal carcere.

A dispetto dei molti critici, il provvedimento di indulto approvato nel luglio scorso offre un’occasione storica per ripensare il carcere e il sistema penale. Non capitava da molti anni che il numero di detenuti fosse inferiore alla capienza regolamentare degli istituti di pena. Ad oggi, abbiamo circa 39000 detenuti per una capienza regolamentare di 43226 posti. Una contingenza straordinaria, frutto di un provvedimento straordinario, i cui esiti però, ne siamo consapevoli da prima e ben più dei nostri critici, se non avranno seguito in interventi strutturali di riforma del sistema penale e penitenziario, potranno essere vanificati nel giro di pochi anni. Questo è quindi il tempo per pensare a un piano di riforme capace di contenere strutturalmente le spinte di crescita della popolazione reclusa e di assicurare un trattamento penitenziario conforme al dettato costituzionale.

Se mai ce ne fosse stato bisogno, l’applicazione del provvedimento di indulto e la scarcerazione di migliaia di persone segnate innanzitutto da un rilevante deficit di risorse economiche, sociali, culturali hanno riproposto il tema della prevenzione della devianza. L’esperienza ci insegna che la privazione della libertà raramente riesce ad adempiere a quella funzione rieducativa che la Costituzione le assegna. Né la ripetuta minaccia di una pena sempre più dura ha mai impedito il ripetersi di fenomeni criminali, anche gravissimi. Torna quindi la necessità di pensare a qualcosa di meglio del diritto penale, soprattutto per affrontare gravi questioni sociali, come l’immigrazione e la dipendenza da sostanze stupefacenti, ma anche la condizione anomica diffusa (non solo) nelle aree sociali e urbane del degrado e della marginalità. Si tratta, evidentemente, di pensare a obiettivi di coesione e di integrazione sociale che esulano dalle competenze di questo Ministero, ma che non possiamo omettere di indicare come obiettivi politici generali dell’azione di governo.

D’altro canto, al di fuori del sistema penale di giustizia, vanno incentivate le forme consensuali e le esperienze di giustizia riparativa che non mirino semplicemente a deflazionare il sistema di giustizia penale, quanto a contenere una altrimenti inesauribile domanda di giustizia, per privilegiare la soddisfazione materiale e simbolica della vittima nello scambio con l’autore di reato.

Sull’uno come sull’altro versante, come norme ed esperienze insegnano, qualcosa di meglio della giustizia penale si fa solo con il concorso determinante delle Regioni, degli Enti locali, del volontariato, di altre amministrazioni dello Stato.

Poi, certo, cercare, progettare, sperimentare qualcosa di meglio del diritto penale, non ci esime dal pensare e delineare un diritto penale migliore, attraverso una riforma del codice penale in direzione di un diritto penale minimo e della riduzione del carcere a extrema ratio della sanzione penale: alternative al carcere come pene alternative, comminabili anche in sentenza, riduzione dei massimi di pena, depenalizzazione di quelle norme e quelle fattispecie penali che producono migliaia di ingressi nel circuito carcerario, a partire dalle leggi sull’immigrazione e sulle droghe e dalla famigerata legge Cirielli sulla recidiva.

Tutte cose indispensabili che per essere efficaci e socialmente sostenibili, hanno bisogno di una rete di intervento e di politiche di coesione sociale condivise tra amministrazioni statali, regioni, enti locali e organizzazioni della società civile. Se si vuole il carcere come extrema ratio, occorre che sia pensato come tale, a partire dal pieno coinvolgimento delle Regioni, degli enti locali e delle risorse del privato sociale nella programmazione di interventi sul territorio capaci di ridurre effettivamente l’area della detenzione a quel nocciolo non altrimenti scalfibile.

E così, il carcere residuale non può che essere un carcere dei diritti e delle opportunità. Le finalità retributive e di prevenzione speciale che portano un condannato in carcere, laddove vi siano e siano utili, oltre che legittime, si esauriscono nella privazione della libertà e nella condizione detentiva per un tempo predeterminato dalla legge. A quel punto nascono le responsabilità e l’interesse della collettività e di chi, in suo nome, cura la esecuzione penale o la custodia cautelare in carcere, affinché i destinatari di provvedimenti restrittivi della libertà personale possano godere dei propri diritti fondamentali e delle opportunità utili al loro migliore reinserimento sociale.

Anche qui, anche in carcere e negli istituti penali per i minori, le competenze e le responsabilità del Ministero della giustizia non possono essere esclusive. A partire dalla tutela del fondamentale diritto alla salute delle persone detenute, fino all’offerta di istruzione, formazione, orientamento e inserimento lavorativo, l’Amministrazione della giustizia non può e non vuole pensarsi come una monade autosufficiente. Serve una programmazione di interventi che veda coinvolte tutte le amministrazioni interessate, per uscire dalla (spesso ottima) episodicità e dalle buone prassi, per approdare a una progettazione di sistema che abbia la dignità della persona detenuta e il suo percorso di reinserimento come bussola dell’azione concorrente di una pluralità di enti e istituzioni.

Con questo spirito, la Commissione ha deciso di avviare da subito il confronto in gruppi tecnici di approfondimento su cinque-sei temi, su cui fare un censimento delle attività in corso e delle risorse impegnate da ogni amministrazione e da tutti i livelli di governo, per definire poi progetti e linee-guida operative su cui far convergere l’operato di tutti gli attori istituzionali e del privato-sociale. Cominceremo dall’annosa questione dell’assistenza sanitaria in carcere (su cui c’è già una direttrice di marcia fissata dalla Riforma Bindi), dai problemi dell’istruzione di base e superiore, della formazione professionale e del lavoro, delle politiche sociali e dai problemi specifici della popolazione detenuta di nazionalità extra-comunitaria. Da sempre la Commissione ha posto attenzione al lavoro degli operatori e, sin dalla prossima riunione, con gli opportuni aggiornamenti, potranno essere licenziate le linee guida per la formazione congiunta degli operatori delle amministrazioni statali, regionali, locali e del volontariato che già erano state definite - anni addietro - in un apposito tavolo tecnico.

Infine, questo lavoro di confronto e progettazione inter-istituzionale, potrà avere una occasione pubblica di discussione in una Conferenza nazionale sull’esecuzione penale e la privazione della libertà che, sul modello della Conferenza nazionale sulle droghe, costituisca la sede periodica di confronto e di indirizzo più ampio, che veda il concorso degli operatori, delle competenze professionali e scientifiche, delle esperienze diffuse sul territorio.

Giustizia: Mastella; più strutture al sud, una cittadella a Milano

 

Agr, 11 dicembre 2006

 

Il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, annuncia un piano di ristrutturazione per le carceri. Al sud, ha detto in occasione della verranno Festa del Corpo della Polizia Penitenziaria, "verranno realizzati, con la ristrutturazione o l’allargamento delle carceri esistenti, 1.500 nuovi posti di ricettività per i detenuti". Previsto un piano anche a Milano: "stiamo pensando alla realizzazione di una cittadella giudiziaria", ha aggiunto il ministro.

San Severo (Fg): il Garante per i diritti detenuti va a Roma

 

San Severo on-line, 11 dicembre 2006

 

Si è tenuto a Roma, presso il Ministero della Giustizia, il primo incontro dei "Garanti delle persone private della libertà personale", al quale ha preso parte, per il Comune di San Severo, la prof.ssa Raffaella Paolella, nominata a ricoprire tale delicato incarico con decreto del Sindaco, avv. Michele Santarelli, del 28 aprile 2006. Con la prof.ssa Paolella ha partecipato all’incontro romano, in rappresentanza del territorio sanseverese, la dr.ssa Anna Maria Bellantuoni, psicologa del Ser.T. presso la Casa di Reclusione di San Severo.

L’incontro, presieduto dal Sottosegretario di Stato sen. Luigi Manconi, mirava a confrontare le esperienze acquisite dai singoli "Garanti" nelle varie realtà regionali, provinciali e comunali, esperienze da valutare per migliorare il servizio con una piattaforma unitaria, ricavata appunto dalle varie proposte e dai suggerimenti dei "Garanti" presenti, in vista della Riforma del sistema carcerario nazionale. Il Sottosegretario Manconi ha ampiamente illustrato ai convenuti le linee programmatiche della prossima Riforma del "Pianeta Carcere", soffermandosi sulle forme alternative alla carcerazione, soprattutto in riferimento ad alcuni reati minori dei tossicodipendenti. Ripensare il carcere, in pratica, con nuove strategie compensative tali da rendere il periodo di detenzione il meno lungo possibile e che deve sempre prefiggersi il reinserimento del detenuto nel contesto sociale con una piattaforma di servizi studiati caso per caso.

Appena rientrata a San Severo, la prof.ssa Paolella ha riferito al Sindaco gli esiti dell’incontro al quale ha partecipato a Roma, al fine di dare un orientamento sempre più al passo coi tempi alle scelte amministrative future del Comune che possono, sia pure indirettamente, avere riflessi sociali sulla Casa di Reclusione speciale di San Severo e sulla comunità di detenuti tossicodipendenti che la popola.

Latina: 130 detenuti, nel carcere si vive un dramma quotidiano

 

La Provincia di Latina, 11 dicembre 2006

 

Altro che indulto. Per risolvere i problemi del carcere di Latina servirebbe un’amnistia generale. È inutile nascondercelo: la situazione della struttura di via Aspromonte è a dir poco critica e il tempo non potrà che aggravarla ulteriormente. Sovraffollamento, mancanza di spazi e scarsa sicurezza dello stabile sono i guai endemici ai quali bisognerebbe cercare di mettere una pezza.

L’ultimo rapporto sullo stato delle case circondariali nel Lazio, divulgato solo pochi giorni fa, è inquietante. Prendiamo la nostra città: il penitenziario, situato in pieno centro e costruito qualcosa come 72 anni fa, vive una crisi che sembra senza uscita. La capienza massima dovrebbe essere limitata a 96 persone eppure allo stato attuale i detenuti sono 130. Conseguenze? In alcune celle sono rinchiusi ben 6 uomini quando il limite dovrebbe essere fermo a 2. La maggior parte dei carcerati sono dentro per crimini di mafia e camorra anche se non mancano i colpevoli di reati sessuali. La struttura di Latina ospita poi 30 donne di cui ben 7 sono brigatiste, mentre 23 sono state sottoposte a custodia cautelare per illeciti connessi alla criminalità organizzata. Ben inteso: il carcere non deve essere un albergo... ma nemmeno un lager!

Il punto è che, con i mezzi attuali, l’unica cosa che è possibile garantire al recluso è la punizione, non certo la riabilitazione o, meglio ancora, il reinserimento. Nel rapporto precedentemente ricordato si fa infatti notare che "all’interno del carcere di Latina si svolgono soltanto attività di manutenzione ordinaria, come il cuoco, l’addetto alla lavanderia e il barbiere. Stando così le cose, per mancanza di fondi, sono occupate solo 26 persone".

Allo stesso modo si viene a sapere che "un’altra grave carenza è rappresentata dalla mancanza di personale di polizia penitenziaria". Altre anomalie? La presenza di muri divisori nella sala colloqui tanto per cominciare. Ma anche l’assenza pressoché totale di spazi ricreativi sia per gli agenti che per i detenuti. Per fortuna sembra che dalla Regione si siano accorti del caso Latina. Luisa Laurelli, presidente della commissione Sicurezza e lotta alla criminalità del Lazio, ha sostenuto che "l’impegno dell’amministrazione regionale è quello di dotare la città e la provincia di Latina di una nuova casa circondariale, visto che quella esistente è inadeguata e collocata peraltro nel centro del capoluogo. Inoltre occorre attivare corsi di formazione-lavoro per i carcerati che usciranno tra pochi mesi per effetto dell’indulto".

Va tuttavia evidenziato che, se la nostra provincia piange, quella di Frosinone non ride affatto. Qui i penitenziari sono 2: uno a Paliano e l’altro a Cassino e, in effetti, le grane non derivano dal sovraffollamento bensì dalle condizioni igienico-sanitarie. A Paliano "i detenuti sono una cinquantina, alcuni dei quali malati di tubercolosi. Per le visite specialistiche si può aspettare anche un anno a causa della mancanza di una corsia preferenziale nelle Asl vicine".

Allo stesso modo nella casa circondariale di Cassino urgono interventi di ristrutturazione specie per quello che riguarda l’infermeria. A ciò si aggiunge "una scarsa presenza del Ser.T., specialmente la domenica, con evidenti difficoltà nella gestione di farmaci per i tossicodipendenti". A questa valanga di critiche ha replicato ancora la Laurelli. "La risposta della Regione - ha asserito - sarà complessiva su tutto il sistema delle carceri. L’intenzione è di portare nell’Aula del Consiglio Regionale la legge sui diritti dei detenuti prima delle sessioni di fine anno sul Bilancio di previsione per il 2007".

 

Il consigliere comunale Bruno Creo; la situazione è inaccettabile

 

Partiamo da un semplice dato: la popolazione della provincia di Latina raggiunge ormai i 519.850 residenti. Sembrerà strano ma il numero dei detenuti nel solo carcere esistente, quello di Latina, è fermo a quota 130 (i posti veri e propri sarebbero però 96). Ora le questioni sono due: o nel nostro territorio la criminalità è un fenomeno di nicchia, oppure, molto più probabilmente, esportiamo i condannati dai tribunali locali nel resto della Regione. D’altra parte lo abbiamo ripetuto a più riprese: le condizioni del penitenziario di via Aspromonte non permettono ulteriori arrivi. Sul problema abbiamo ricevuto delle conferme da parte del consigliere comunale Bruno Creo, impegnato da anni nella sua battaglia per una struttura diversa. Più vivibile per tutti: siano essi reclusi o agenti di polizia.

Negli ultimi 5 mesi abbiamo contato 3 richieste di intervento. In una, quella del luglio scorso, venivano elencate alcune priorità: 1) manutenzione straordinaria dell’impianto antincendio; 2) realizzazione di un’apparecchiatura per il rilevamento di fumi; 3) smaltimento dell’eternit e ristrutturazione del magazzino-lavanderia; 4) sostituzione delle telecamere del muro di cinta; 5) rifacimento della porta carraia; 6) installazione di un impianto anti intrusione e antiscavalcamento.

 

Lei ha presentato più di una volta istanze sul tema. A che punto siamo?

"Nel consiglio comunale di domani uno dei punti all’ordine del giorno dovrebbe essere proprio la mia mozione sul trasferimento del carcere dalla sua sede attuale. Ho chiesto all’amministrazione di individuare un’area che sia più idonea ad ospitare una casa circondariale. Adesso abbiamo uno stabile inadeguato dal punto di vista dell’igiene ma anche della sicurezza. La presenza di case nei dintorni non permette infatti un efficace controllo. E tutto ciò è avvalorato da diversi episodi poco chiari di fughe di notizie dal carcere verso l’esterno. Inoltre mancano parcheggi e gli spazi interni sono estremamente ridotti. Per questo non è più rimandabile l’individuazione di una zona migliore, magari attraverso un apposito project financing con investimenti privati".

 

Insomma, se abbiamo capito bene, la situazione rimane critica...

"Esatto. Basta pensare che gli stessi agenti non hanno nemmeno una sala dove poter svolgere le proprie riunioni. Devono incontrarsi di fronte al bar in pochi metri quadri..."

 

Cosa la spinge a proseguire nella sua battaglia?

"Principalmente il rispetto per la dignità dei detenuti e dei lavoratori della casa circondariale. È una struttura vecchia, edificata nel lontano 1934. Di sicuro non è più adeguata a quelle che sono le esigenze di una provincia che ha ormai superato i 500 mila abitanti".

 

Come giudica l’indulto?

"Non ha risolto nulla. Dopo un primo momento in cui pareva che le cose andassero meglio, il numero dei detenuti è di nuovo cresciuto. Sono bastati appena 2-3 mesi perché la popolazione carceraria tornasse ai livelli iniziali. Inoltre ne hanno usufruito circa 20.000 carcerati, invece dei previsti 12.000. Alcuni di questi si erano macchiati di crimini molto gravi per i quali non era il caso di azzerare tutto con un provvedimento parlamentare".

Napoli: Mastella; utilizzare meglio gli uomini sul territorio

 

Il Mattino, 11 dicembre 2006

 

Clemente Mastella, ministro della Giustizia, invoca più dialogo e meno personalismi. E pur senza tornare a chiedere l’esercito, per il leader nazionale dell’Udeur è necessaria una migliore utilizzazione degli uomini sul territorio.

 

Ministro, l’emergenza criminalità resta e non sono mancate critiche, anche da parte del sindaco Iervolino, rispetto al piano sicurezza messo in campo dal governo. Lei che sensazione ha?

"È una vicenda che mi tocca da campano più che da ministro ma sia da campano che da ministro vorrei che l’azione messa in campo producesse sicurezza e non insicurezza. Mi pare evidente, invece, che laddove non ci sia dialogo ma antagonismo si trasferisce all’opinione pubblica un messaggio non positivo. E anche l’azione ne risente".

 

Minniti replica alle critiche sostenendo che il nuovo piano ha prodotto già 1260 arresti e che c’è già una prima risposta anche in termini di prevenzione. Però il vicepresidente del Csm Nicola Mancino rilancia sulla necessità dell’esercito, proposta che lei fece due mesi fa.

"E venni quasi lapidato. Nei miei confronti ci furono reazioni scomposte, mentre osservo che su Mancino nessuno si permette di obiettare alcunché".

 

Lei insiste sull’esercito?

"Nessuno vuole militarizzare la città ma insisto sulla necessità che si debba offrire alla gente la percezione della sicurezza. Mi sembra chiaro che gli uomini sul territorio, a partire dai vigili urbani, vadano organizzati al meglio. Le dirò di più, credo che si possano utilizzare diversamente anche gli agenti di polizia penitenziaria".

 

In che modo?

"Potrebbero essere utilizzati per presidiare gli uffici giudiziari e liberare le forze dell’ordine per il presidio del territorio".

 

Nell’ultima settimana c’è stato l’omicidio di Giovanni Giuliano a Forcella, ma anche quello di un pregiudicato ad Afragola. Insomma, l’emergenza riguarda anche la provincia di Napoli. Non le sembra però che ci si concentri solo sulla città?

"Una delle prime cose da fare, e mi impegnerò in tal senso, è l’apertura del tribunale di Giugliano. Sono già stati nominati il presidente e il procuratore ma il tribunale non apre perché non si trovano i locali. Quando mi sono insediato ho chiesto informazioni, ebbene non ho trovato più le risorse, sono scomparse. Mi muoverò perché il tribunale sia aperto, ma chiedo a Regione, Provincia e comuni interessati di darci una mano a trovare i locali perché pensare di costruire una nuova struttura mi sembra impensabile".

 

La situazione deve essere davvero drammatica se perfino un sacerdote di frontiera come don Merola si era detto pronto a dimettersi da parroco. Chiamerà don Luigi?

"Dall’azione di testimone di Dio non ci si dimette mai e don Merola lo sa. È giusto che don Luigi denunci ma che dia l’impressione di gettare la spugna è drammatico, perché vuol dire che è morta anche la speranza. Andrò a trovare don Merola per confermargli la mia vicinanza anche fisica".

 

Ritiene che gli enti locali svolgano fino in fondo il loro dovere o siano troppo impegnati a lamentarsi?

"Napoli ha problemi drammatici ma è anche vero che ogni qualvolta invoca aiuto al governo ottiene risposte, penso alla sicurezza ma anche ai rifiuti. La Calabria ha problemi non secondari rispetto alla Campania, eppure non sempre riceve la stessa attenzione. Ma a questa generosità da parte del governo non sempre corrisponde una spinta forte da parte degli enti locali. Far lavorare i vigili urbani, per esempio, dipende dal Comune e non dal governo".

Lecce: il Comune crea un "ponte" tra territorio e carcere

 

Ansa, 11 dicembre 2006

 

Un protocollo d’intesa con l’Uepe (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna) di Lecce e l’adesione al progetto Ipoteca (Insieme per costruire un ponte tra territorio e carcere) della Casa circondariale leccese sono le due risposte che la città di Galatina (con delibere della Giunta del 5 dicembre scorso) ha deciso di dare alle domande di chi sta scontando pene alternative al carcere, di chi deve reinserirsi socialmente dopo avere pagato il suo debito con la giustizia oppure ha usufruito dell’indulto. Ad impegnarsi insieme a Galatina, comune capofila dell’ambito di zona, sono anche i comuni di Aradeo, Cutrofiano, Neviano, Sogliano Cavour e Soleto.

Il protocollo prevede l’apertura, almeno quindicinale, di uno sportello informativo, presso la sede dei Servizi sociali del comune di Galatina, tenuto da personale Uepe. Ad esso potranno rivolgersi le persone che stanno scontando pene alternative al carcere e loro famigliari per qualsiasi informazione e consulenza riguardanti l’esecuzione penale.

Nel corso dell’applicazione dell’intesa si svolgeranno anche periodici incontri fra il personale dei Servizi sociali dei comuni e gli operatori del Ministero della giustizia anche al fine di formulare "proposte operative inerenti programmi individualizzati su utenti congiuntamente in carico".

Il progetto Ipoteca si rivolge, invece, sia a cinquantasei cittadini salentini "in esecuzione penale" sia agli operatori. Avrà una durata di dodici mesi e costerà 297.000 euro (1000 euro saranno a carico del comune di Galatina). Esso coinvolge numerosi soggetti istituzionali leccesi dalla Provincia alla Prefettura, dalla Camera di Commercio ai comuni capofila delle zone di Casarano, Monteroni oltre che di Galatina. Anche il mondo del volontariato è fortemente interessato attraverso Libera, Centro servizi volontariato salento e la Cooperativa sociale "Officina creativa".

Per raggiungere l’obbiettivo fondamentale del reinserimento sociale delle persone che verranno selezionate attraverso dei criteri prestabiliti si utilizzeranno sia dei corsi di formazione sia delle borse lavoro la cui entità verrà stabilita in fase operativa. Verrà anche attivato un servizio di segretariato nei tre comuni capofila e nel Centro servizi volontariato, interno al carcere.

Si mirerà a potenziare la rete di chi già opera per il reinserimento. Si tenderà, infine ad innalzare il livello di sicurezza sociale attraverso la cultura della giustizia riparativa e della mediazione penale.

"Con queste iniziative - dice Maria Rosaria Romano, assessore alle Politiche sociali della città di Galatina - vogliamo dare concreta attuazione all’articolo 27 della nostra Costituzione lì dove afferma che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato ma anche testimoniare che, per noi e per tutti i cittadini galatinesi, chi ha sbagliato una volta non può essere condannato a vita. È nostro preciso dovere aiutare tutti a sentirsi parti integranti e forze vive della nostra comunità".

La struttura organizzativa di tutto il progetto Ipoteca comprenderà un gruppo di gestione, quattro team di lavoro, uno per ogni sportello di segretariato, ed un gruppo per la formazione. La costituzione di una Conferenza volontariato giustizia del Salento e la formazione di una cooperativa fra ex-detenuti costituiranno due importanti obbiettivi da raggiungere.

Milano: allarme per San Vittore, che lentamente sprofonda

 

Ansa, 11 dicembre 2006

 

Viaggio nel 2° raggio dove il sotterraneo è calato di 50 centimetri Una catena dentro il carcere di San Vittore non è una novità. Ma è stata girata tre volte intorno al cancello del secondo raggio e chiusa con un lucchettone. La "conta" dei detenuti è appena terminata e si sente dire che "siamo a quota mille". Torna lentamente, ma inesorabilmente, l’affollamento. E questa catena sta lì non per impedire una fuga, ma una (possibile) catastrofe. Il vecchio carcere di piazza Filangieri ha subìto "così lo chiamano" "un terremoto". E a informarsi sulla situazione dall’interno c’è da essere d’accordo sul termine.

Il "terremoto" si vede nel sotterraneo, dove nessun estraneo può entrare. Ci girano alla larga anche gli agenti. È un lungo e basso corridoio senza celle, spoglio, con qualche carrello per il cibo accatastato in un angolo. E a metà del corridoio il pavimento si è abbassato di cinquanta centimetri. Sopra questo avvallamento ci sono i piloni, con la volta ad arco. Uno dei piloni è in piedi, ma praticamente in briciole: grosse briciole di cemento e intonaco. Una ragnatela di crepe. Sull’altro si vedono meno crepe, ma dire che ha un aspetto sano è impossibile. Per capire che cos’è successo nelle viscere del penitenziario sono arrivati " un mese fa " gli ingegneri dei vigili del fuoco e del ministero della Giustizia. Tornano e controllano. I primi vetrini messi sulle crepe si sono spaccati. I nuovi resistono.

Due sono le voci che corrono per raccontare la faccenda. Una riguarda la "falda acquifera", l’altra il peso fisico che negli ultimi decenni s’è accanito sulle strutture portanti del carcere. La prima spiegazione è più tecnica: come sanno bene gli operai che scavano i tunnel della metropolitana e i costruttori edili che vanno più in fondo per costruire i box, il sottosuolo milanese fa i capricci. Sarà colpa dei Navigli interrati dal fascismo per avere una città moderna (e meno bella), o delle aziende scomparse, ma l’acqua che scorre sotto Milano a volte sale e a volte sparisce. La falda a volte scava, a volte mangia il terreno soprastante. E sinora i rimedi sono pochi.

La seconda ragione del "terremoto" è più simbolica. È il peso, cresciuto per tre fattori: pavimenti, letti, uomini. Prima delle rivolte carcerarie alla fine degli anni 60, l’interno di San Vittore ricordava una grande casa di ringhiera. I tre piani erano "aperti", era cioè possibile osservare dal basso le celle e, a quattro metri d’altezza, c’erano alcune reti per impedire, o rendere più difficili i suicidi, e per evitare che oggetti lanciati dall’altro centrassero chi passava al piano terra. Quando partiva una rivolta, bastava una scintilla in alto (spesso al quinto raggio, o al secondo, quello adesso chiuso) perché la rabbia si propagasse dovunque in pochi istanti. Dopo la distruzione del carcere nella primavera del ‘69 e dopo alcuni pestaggi e agguati, il ministero di Grazia e Giustizia decise di pavimentare i piani, e trasformò la casa di ringhiera in una specie di colossale condominio.

Il peso aumentò di nuovo quando negli anni 80 le vecchie brande, spesso di legno, leggere ma fragili (e quindi spaccabili) vennero sostituite da brande di ferro. E su queste strutture, nei decenni, c’è stato un passaggio umano formidabile. San Vittore, sino a pochi anni fa e prima dell’indulto, aveva ospitato anche 2.300 persone al giorno, il triplo delle 800 previste. "Tutto questo ha influito", dice un anziano sovrintendente, guardando con un po’ di preoccupazione la porta chiusa dal lucchetto, le luci spente, le barriere: "Ci hanno detto che hanno sistemato i puntelli con uno scopo preciso. Se il raggio crolla, deve crollare diritto, si deve cioè accasciare su se stesso. Altrimenti, se cade oscillando, magari si porta via un pezzo di Rotonda", e cioè il cuore del carcere, che collega tutti i raggi (e porta all’uscita) come il perno di una ruota. Nella rotonda è sempre pieno di agenti.

È un mese che i detenuti del secondo raggio sono stati dispersi negli altri raggi, soprattutto al quarto e al sesto, mentre il quinto " perfettamente ristrutturato " ospita un piccolo reparto, il "Nuovi giunti", dedicato a chi entra in carcere, con quattro celle. "C’è un po’ di affollamento imprevisto anche lì, perché in questo periodo la Questura sta ristrutturando le camere di sicurezza e chi non può restare in via Fatebenefratelli viene portato da noi", spiega Mario Piramide, il comandante del carcere. Difficile prevedere quando la situazione si sbloccherà.

Il capodipartimento del ministero, Claudio Castelli, a lungo pretore a Milano, aspetta che il Comune individui l’area dove far nascere la "cittadella della giustizia", e cioè un posto " lontano dal centro " dove trasferire tribunali, procura, gip e costruire anche il nuovo carcere. La Regione ha assicurato che gli edifici possono essere terminati in tre anni, come è successo per la Nuova Fiera. Ma un’area grande, da vendere allo Stato, oggi chi ce l’ha? Nell’attesa di trovare l’immobiliarista giusto, San Vittore comincia a perdere il suo aplomb e sembra suggerire che se la macchina della giustizia resta lenta, i crolli possono diventare inesorabili.

Immigrazione: Amnesty; nei Cpt i minori sono stati più di 890

 

Asca, 11 dicembre 2006

 

Sono stati più di 890, negli ultimi anni, i minori rinchiusi nei centri di detenzione per migranti del nostro paese. Tra di essi 28 quelli non accompagnati, trattenuti tra gennaio 2002 ed agosto 2005, quasi tutti richiedenti asilo provenienti dall’Africa sub-sahariana. Lo riferisce il rapporto "Invisibili - Minori migranti detenuti all’arrivo in Italia", curato per conto della Sezione Italiana di Amnesty International da Giusy D’Alconzo, reso noto il 23 febbraio di quest’anno e rilanciato questa mattina a Palazzo Valentini, in occasione della presentazione del kit didattico sul tema riservato alle scuole della Provincia. Amnesty, si legge nel rapporto, è convinta che le denunce raccolte riguardino solo una parte dei minori che sono stati realmente detenuti.

Purtroppo non esistono statistiche ufficiali pubbliche che ne riportino il numero e le condizioni, anche perché solo lo scorso ottobre il ministro dell’Interno, Giuliano Amato, ha dato parere favorevole alla richiesta da parte del movimento di poter visitare, a fini di ricerca, i centri di detenzione, negli ultimi anni luoghi inaccessibili quasi per chiunque. Sono circa 80mila gli stranieri che, tra migranti e richiedenti asilo, negli scorsi 5 anni, hanno raggiunto l’Italia via mare: tra di essi centinaia i minori, che arrivano da soli o insieme alla loro famiglia e che finiscono sistematicamente, per almeno 20 giorni, nei Cpt o nei centri di accoglienza. Essi vengono rinchiusi "non per ciò che fanno, ma per ciò che sono", ha sottolineato la D’Alconzo.

Sulla base di questo rapporto, Amnesty, lo scorso febbraio, ha lanciato la campagna "Invisibili", per cui sono già state raccolte più di diecimila firme, per rendere nota la situazione e chiedere la modifica delle prassi che non vanno. La ricerca, avviata nel 2005, la prima ad essere curata autonomamente dalla Sezione Italiana, si è concentrata sulla situazione dei minori migranti per "la percezione fortissima - ha dichiarato la D’Alconzo - di quanto profonda fosse la loro invisibilità: statistica, visto che non esistono dati disaggregati per genere, età, paese, e giuridica, causa la mancanza di una rete di protezione che bisognerebbe fornire, sulla base della Convenzione di Ginevra. Questi minori sono tre volte vulnerabili: perché migranti, bambini e detenuti.

Il biglietto da visita del nostro paese, da più di 10 anni, già prima della Turco-Napolitano, per gli stranieri che arrivano via mare è la detenzione". Amnesty chiede: primo, sulla base della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, "una politica che preveda la più forte presunzione possibile contro la detenzione di minori migranti e richiedenti asilo e la vieti nel caso di minori non accompagnati"; secondo, una legge specifica e organica sul diritto d’asilo conforme agli standard internazionali - il nostro è l’unico paese che non ha ancora una normativa in materia; terzo, un organismo permanente ed indipendente di controllo ed ispezione che possa condurre visite regolari, illimitate e senza preavviso in tutte le strutture di detenzione per migranti irregolari e richiedenti asilo.

Immigrazione: Roma; kit didattici contro violazione minori

 

Asca, 11 dicembre 2006

 

La promozione dei diritti dei minori migranti dall’inizio del 2007 passerà per la scuole superiori della Provincia di Roma. La sezione italiana di Amnesty International, con il contributo dell’Amministrazione Gasbarra, mette a disposizione dei kit scolastici per la sensibilizzazione e la formazione di docenti e studenti su questo tema.

"Bambini invisibili", questo il titolo del programma educativo, che si basa sulla campagna "Invisibili", lanciata da Amnesty a febbraio, con la presentazione del rapporto "Invisibili-Minori migranti detenuti all’arrivo in Italia". La ricerca, curata da Giusy D’Alconzo, tratta dei minori che arrivano nel nostro Paese via mare, che, sistematicamente, almeno per 20 giorni, finiscono in strutture di detenzione di varia natura.

La campagna rientra nelle "Giornate del Sociale", un’iniziativa più ampia della Provincia di Roma giunta al suo quarto anno, ma soprattutto segna l’inaugurazione de "I nodi da sciogliere", la settimana per i diritti umani in Italia organizzata dal neo-nato Forum provinciale per la pace, la solidarietà ed i diritti umani.

Il kit riservato alle scuole è formato dal video "Fine del viaggio", che racconta dei minori migranti nei Cpta, e da un percorso didattico ad esso legato con cui i docenti possono lavorare nelle classi. "È una campagna che ben volentieri sposiamo - ha dichiarato l’assessore provinciale alle Politiche Sociali, Claudio Cecchini - , anche con iniziative che saranno presentate la prossima settimana: la scuola è il luogo prioritario per la creazione di una coscienza critica, sia dei docenti, che degli studenti.

Il tema - ha sottolineato Cecchini - è quello dei minori stranieri che rischiano di essere invisibili, sia se arrivano con i genitori, sia se non accompagnati, perché finiscono nei Cpt o nei centri di prima accoglienza. In Italia esiste il dibattito sulla qualità della vita nei centri, se essi siano rispettosi dei diritti della persona, sicuramente è una collocazione impropria per i minori, una situazione di cui non si ha sempre sufficiente consapevolezza. Da mesi la Provincia ha già acceso il faro sulla situazione, oggi vogliamo rilanciare la campagna di Amnesty International".

"Iniziamo la settimana dei diritti umani con i soggetti più deboli - ha esordito Daniela Monteforte, l’assessore provinciale alle Politiche Scolastiche - . L’amministrazione Gasbarra dà molta importanza alla scuola, il luogo collettivo dove sviluppare la coscienza sulle grandi ingiustizie di questo mondo, durante l’ anno in corso abbiamo dedicato molte attività a questo tema. La mia proposta - ha continuato - è quella di istituire per via curriculare l’ora della pace, dedicata ai temi dei diritti umani e alla conoscenza della Costituzione, che sono gli elementi fondanti per la costruzione di un futuro migliore.

Il bullismo è uno dei riflessi più drammatici di una società che fa dei diritti umani qualcosa di superfluo". Con la presentazione del kit si apre una nuova fase del già collaudato rapporto di collaborazione tra Amnesty International e la Provincia di Roma, che dura già da qualche anno, ha ricordato Gabriele Eminente, il direttore della Sezione Italiana del movimento, tanto da aver già dato vita al Centro documentale, luogo aperto al pubblico con più di 4mila testi.

Il rapporto sui minori migranti, ha voluto sottolineare Eminente, rappresenta la prima ricerca realizzata in maniera autonoma dalla Sezione Italiana dell’organizzazione che, volutamente, ha scelto di occuparsi dei "più fragili dei fragili". La "trasformazione della campagna in un percorso didattico - ha concluso Eminente - è una leva importantissima per portare il lavoro sul territorio".

 

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