Dal carcere di Cremona...

 

Reportage dal carcere di Cremona

di Ivano Porfiri (giornalista)

 

La Voce di Cremona, 30 marzo 2006

 

Il viaggio nella pancia di Cà del Ferro, la zona detentiva, inizia incrociando due "liberanti". Sono stranieri, forse nordafricani, stanno per uscire. L’incontro con i loro sguardi avviene nel corridoio che si trova subito prima dell’ultimo cancello interno. Hanno finito di scontare la loro pena, ma negli occhi hanno tutta l’incertezza di chi fa un salto nel vuoto. Gli agenti della polizia penitenziaria li fanno accomodare nella stanza di attesa. Le movenze hanno assunto, nei mesi, il ritmo della vita in carcere. Il rispetto per le guardie, nessuna insofferenza per l’attesa, il saluto di rigore al direttore e all’ufficiale. Mentre il giro continua, i liberanti compilano i moduli di uscita e ritirano gli effetti personali. Poche decine di minuti. All’uscita della visita al carcere sono già oltre la block house. Aspettano l’autobus, tornano fra i liberi.

 

Dalle finestre al piano terra della zona di transito si vede un pezzo di cortile e il giallino del muro di cinta. Fuori c’è la pianura che si perde lontano, oltre la tangenziale. Dai piani alti delle sezioni si può vedere la bruma sui campi e, dall’altra parte, la torre dell’ospedale Maggiore. Da ogni lato il panorama è tagliato in quadretti dalle sbarre arancioni. Un piano ortogonale con ascisse e ordinate. Un modo per razionalizzare quello che chi è libero vede senza filtri, talvolta come un caos che ti inghiotte nel gorgo dell’illegalità.

Il carcere di Cà del Ferro è pieno. Trecento posti per trecento detenuti, spesso qualcuno in più. "Arriviamo a volte a 315-320, dipende dalle operazioni messe in atto dalle forze dell’ordine - spiega il direttore Ornella Bellezza - ma posso giurare che, a differenza di altri istituti penitenziari, qui non è mai stato messo né mai lo sarà un materasso a terra per far dormire un detenuto".

La struttura è stata costruita nel 1986 e, inizialmente, era stata pensata per 150 "ospiti", ma il decreto Scotti-Martelli ne raddoppiò la capienza a pochi mesi dall’inaugurazione del febbraio 1992. Le 150 stanze (il termine "cella", di rimembranze monasteriali, è da tempo uscito dal gergo carcerario), nove metri quadri ciascuna con due letti, un armadietto, televisione a colori con telecomando e radio, oltre al gabinetto, vengono divise da due abitanti. Tutto il corpo detentivo è diviso in sei sezioni, cinque per i "comuni" e una per i "protetti", cioè coloro che si sono macchiati di reati sessuali o contro i bambini. Quelli che, oltre la legge, hanno violato il codice non scritto dell’etica del detenuto, e se entrassero in contatto con i "comuni" andrebbero incontro a un linciaggio.

Il bicchiere della capienza, quando è colmo, straborda nella zona di transito. È il limbo dell’istituto, lo spazio che dovrebbe ospitare i detenuti per brevi periodi. Per evitare il sovraffollamento nelle sezioni la direzione la usa per i detenuti in eccesso. L’equilibrio mantenuto a Cà del Ferro, specie negli ultimi anni, si regge quasi unicamente sugli sforzi degli operatori. Le carenze di organico sono ormai strutturali, come in tutte le carceri della Lombardia, e il fatto che vengano assicurate le ferie al personale e le attività ai detenuti è un equilibrismo giocato sul filo dell’istinto di sopravvivenza. Basti pensare che l’amministrazione penitenziaria ha tagliato il 30 per cento dei trasferimenti negli ultimi due anni. Chi ha la responsabilità di Cà del Ferro sa, tuttavia, che su quell’equilibrio si gioca tutto. Perché il carcere è un mondo a parte. Un luogo dove il tempo trascorre infinitamente più lento che al di là della membrana che lo divide dal resto della città. E, se non si mettono in moto delle valvole di sfogo, la tensione può avere conseguenze terribili.

Il cambiamento della società, nel carcere assume tinte ancora più forti. La metà dei detenuti di Cà del Ferro sono stranieri. In gran parte magrebini, albanesi e rumeni. La polizia penitenziaria si trova spesso a disinnescare attriti forti fra i gruppi etnici.

La giornata dietro le sbarre per molti inizia la mattina presto, prima dell’ora di colazione. E finisce alle 2 di notte, quando è obbligatorio spegnere la televisione. In mezzo tante, troppe ore da digerire. Direzione e detenuti, attraverso i loro rappresentanti, hanno messo in piedi un insieme di attività per tenere mente e corpo occupati. I corsi scolastici, la formazione professionale. Tutti vorrebbero lavorare, anche per mettere qualche spicciolo sul conto di cui potranno usufruire una volta usciti. La falegnameria è un esempio di efficienza. Produce persiane che vengono immesse sul mercato. Ma sono solo poche decine i detenuti che riescono ad avere un impiego. La colpa è della diffidenza di chi non si fida dei detenuti tanto da affidare loro compiti e insegnare un’attività.

Per chi non può lavorare la vita dietro le sbarre è uno sforzo continuo per rendere la giornata più ordinata possibile: ogni casella deve andare in un posto ben preciso. E tutto deve tendere al giorno in cui si varcherà la soglia e si tornerà liberi. Solo così le cose conservano un senso. E il tempo diventa un periodo per riconquistare la dignità di far parte della società. Fino a quando si metterà un piede sull’autobus che dal piazzale davanti al cancello porta nel centro città senza avere la sensazione di essere un estraneo nel mondo dei liberi.

 

Intervista a Gianpietro Toce (detenuto)

 

Gianpietro Toce ha 28 anni. È nel carcere di Cremona da 2 anni e 2 mesi. Deve scontare ancora 3 anni e 6 mesi. "Sono finito dentro per rapina. So di aver sbagliato, ma sto pagando e sono sicuro che non sbaglierò più". Gianpietro ha la famiglia a Cologno Monzese. Mamma Anna Maria viene a visitarlo due volte al mese. Lui telefona a casa una volta a settimana, tutti i lunedì. In dieci minuti parla con tutti e ricarica le pile. "Nel mio piccolo sono stato fortunato - sostiene -. Ho fatto domanda di lavoro ed è stata subito accolta. Lì ho iniziato ad apprezzare le responsabilità ed è iniziato il mio percorso di riabilitazione". Gianpietro ha fatto a lungo lo "spesino". "È quello che gira per le sezioni e raccoglie gli ordini dei detenuti che vogliono comprare qualcosa dallo spaccio - spiega -. Poi consegna la lista alla polizia penitenziaria e, quando la spesa è fatta, distribuisce i prodotti ai detenuti". Cosa compra uno in carcere? "La scelta è vasta: cibo, prodotti per la pulizia, ma anche crema antirughe e prodotti abbronzanti. Tanti pensano che ci lasciamo andare, invece il carcere dà modo di pensare e prepararsi a quando usciremo". Gianpietro da qualche tempo ha smesso di fare lo spesino. Grazie alla buona condotta ha avuto accesso al lavoro esterno. Si occupa di pulizia di uffici e manutenzione del verde. Sa già cosa fare quando uscirà. "Mio padre ha una ditta di edilizia. Lavorerò con lui, dimostrerò che sono cambiato".

 

Intervista ad Angelo Palladino (detenuto)

 

Angelo Palladino ha 44 anni. "Sono in carcere per un reato di dieci anni fa. Tutta colpa dell’avvocato se mi trovo in questa situazione". Angelo è in carcere da 8 mesi per rapina. L’uscita è prevista per il luglio 2008, ma il 4 aprile il tribunale potrebbe assegnargli un diverso tipo di pena. "Lo spero soprattutto per i miei figli". Di origine campana, Angelo si è trasferito a Romanengo due anni fa. Qui vive con moglie e 4 bambini. La piccola ha quattro anni. "Passo tutto il giorno a pensare a loro. Sono la prima cosa che mi viene in mente la mattina e l’ultima prima di addormentarmi. Le giornate qui sono lunghissime. Appena trovo il tempo prendo carta e penna e scrivo: una lettera al giorno". Anche le visite vengono sfruttate al massimo. "Sei volte al mese, non potrei farne a meno". Proprio per la situazione familiare ha avuto accesso al lavoro fin da subito. "Sono l’unico sostegno economico per la mia famiglia. Per questo spero di uscire presto e mettermi a lavorare". Angelo sa già che all’uscita lo aspetta il suo vecchio lavoro alla Chef Express della stazione di Milano. "Il problema più grande in carcere? Con tutti questi extracomunitari ti senti uno straniero. È difficile che fra italiani ci siano dei problemi, ma con gli altri non è facile. Io con le loro usanze proprio non mi trovo".

 

Intervista al Direttore Ornella Bellezza

 

"Non ho nulla da rispondere a chi fa polemiche inutili e strumentali. È meglio stendere un velo pietoso". È laconico il direttore dell’istituto penitenziario di Cà del Ferro, Ornella Bellezza, nel commentare a distanza di qualche settimana, l’attacco di Roberto Santini. Il segretario nazionale del Sinappe aveva definito "scandalose" le condizioni del carcere cremonese, a suo dire "senza legami con il territorio". Per l’intervista, Bellezza ha voluto la presenza dei suoi più stretti collaboratori, la sua "squadra". Si tratta del direttore vicario Rossella Padula, dell’ispettore capo Vito Angelillo (insieme all’ispettore capo Angelo Grassadonia guida la polizia penitenziaria), del ragioniere Massimino Amandola dell’area contabile e dei responsabili dell’area trattamentale Ciro Colucci e Antonella Curacachi.

 

Dottoressa, come avete reagito a quelle pesanti accuse?

"Come ho già detto sono frasi che non meritano replica. Preferiamo affidare ai fatti, al lavoro quotidiano la risposta sull’andamento di una struttura con tanti problemi, ma anche con grandi risorse, umane e professionali".

 

Qual è lo stato di salute di Cà del Ferro in questo momento?

"La situazione carceraria italiana, soprattutto nel nord Italia, è difficile. Molti istituti ospitano un terzo di detenuti oltre la capienza. Noi siamo al limite. Per non parlare dell’organico. Nonostante questo e le scarse risorse economiche a disposizione, posso dire con orgoglio che il carcere di Cremona è considerato un’isola felice sia per i detenuti che per chi ci lavora. Grazie all’impegno di tutti manteniamo molte attività ricreative e agli agenti vengono garantite le ferie. Le giuro che non è poco".

 

I problemi degli operatori sono reali. Al di là delle polemiche, anche gli altri sindacati della polizia penitenziaria hanno sottolineato a più riprese la necessità di nuovi agenti.

"Ne siamo pienamente coscienti, ma sono situazioni che esulano dalle responsabilità della direzione. C’è un decreto che ci assegna un certo organico e una capienza che non dovrebbe essere superata. Il problema è che non viene rispettato".

 

L’altra critica mossa è sulla chiusura del carcere nei confronti del mondo che lo circonda. Come stano davvero le cose?

"Su questo non sono assolutamente d’accordo. Non c’è ostilità nei confronti del carcere, come non ci sono muri invalicabili per chi vuole avere rapporti con noi. L’istituto è parte della città e le ultime amministrazioni comunali e provinciali lo sanno benissimo, collaborando con noi sempre di più. Forse il resto del tessuto sociale dovrebbe fare un passo in avanti".

 

In che senso?

"Probabilmente è colpa anche nostra. Vorremmo che il sistema produttivo, cooperative e imprese, capissero che i detenuti e gli ex detenuti sono una risorsa. Per avviare rapporti è necessario il dialogo. Lo sforzo deve essere reciproco".

 

Il carcere è un luogo di convivenze forzate e difficili. Come le affrontate?

La risposta è dell’ispettore Angelillo: "Il segreto sta nell’organizzazione degli spazi e dei tempi. Cerchiamo di mettere nella stessa stanza persone connazionali. Poi c’è il lavoro: chi lavora si relaziona meglio anche con gli agenti. Quello che serve è meno ozio e tempi morti".

 

La metà dei detenuti sono stranieri e un terzo è formato da tossicodipendenti. Poi c’è il fenomeno dei suicidi. Come si affrontano questi aspetti?

"Gli sforzi in genere pagano. Grazie agli educatori e al mediatore culturale negli ultimi anni è drasticamente calato il fenomeno dell’autolesionismo e, a parte un tentativo lo scorso anno, fortunatamente i suicidi sono scomparsi".

 

Direttore, se potesse chiedere una sola cosa a chi di dovere cosa chiederebbe?

"Ci piacerebbe fare tante cose, ma chiediamo solo ciò che ci è dovuto. Ci venga dato quello che è scritto sul decreto. È inutile pretendere la luna, ma il dovuto sì. Invece, ultimamente, l’unica cosa che arriva da Roma sono tagli su tagli".

 

 

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