Rassegna stampa 31 marzo

 

Donne: ricominciare dopo il carcere, la strada possibile

 

L’Articolo.it, 31 marzo 2005

 

Un universo invisibile, nascosto all’opinione pubblica perché circondato dagli alti muri delle case circondariali. È quello delle donne detenute, che scontano pene, per alcune più lievi per altre più gravi, la cui condizione è stata studiata dalla Consulta regionale femminile della Campania. Gli esiti dell’indagine sono stati pubblicati in un documento presentato ieri a Napoli, un punto di partenza per la riflessione sulla condizione delle recluse negli istituti di pena della nostra regione e per progetti rivolti al reinserimento.

Non per tutte, come emerge dalle risposte date al questionario, è facile riflettere su se stesse, sulle colpe del passato e sulle aspettative per il futuro. Stimolarle a guardarsi dentro dunque, nelle intenzioni dell’organo del Consiglio regionale, vuol dire dare loro l’opportunità di confidare le loro istanze: in primo luogo, non perdere il rapporto con la famiglia, che appare molto spesso logorato dall’allontanamento coatto; per coloro che dichiarano di aver compreso le loro colpe, inoltre, l’importante è avere la possibilità di esprimere ciò che credono di poter dare alla società. Ben vengano, dunque, i percorsi di formazione professionale che, grazie alle iniziative della Regione, vengono attivati nelle carceri per fornire istruzione di base e competenze professionali da spendere in futuro nel mercato del lavoro.

"Quante di noi hanno lasciato figli piccoli e li hanno ritrovati adolescenti - scrive una detenuta con condanna senza concessione di benefici - con il grande desiderio di vivere un rapporto interrotto che mai potrà essere ripreso". E ancora: "Potreste chiederci perché non ci avete pensato prima. Sbagliare è umano, l’importante è essere consapevoli e voler recuperare, quindi si potrebbe tentare di darci un’opportunità".

Chi vuole aprire un disco pub, chi un centro di estetica, chi lavorerà forse in una sartoria o in un laboratorio di oreficeria grazie alle competenze acquisite in carcere. Reinserimento vuol dire anche prevenzione, come assicura Riccardo Polidoro, delegato al progetto Il carcere possibile, ma per molte di loro riacquistare la libertà vuol dire non avere un posto dove tornare, o anche la morte, come nel caso delle extracomunitarie che dovranno rientrare in un paese che condanna con la vita la prostituzione. "Assicuriamoci innanzitutto delle condizioni interne alle case di pena - ha proseguito Polidoro - visto che in Italia l’ordinamento carcerario, il migliore d’Europa, non viene applicato. È ora che si istituisca la figura del garante dei diritti dei detenuti".

Dalla fotografia della situazione, illustrata dalle componenti della commissione della Consulta, Erminia Bosnia ed Ester Basile, e dalla presidente Emilia Taglialatela, alle proposte. Il garante è figura analoga al difensore civico distrettuale, proposto da Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione Città invisibile, ovvero persone che accolgano e riportino le voci del carcere. Sarebbe questo un importante passo in avanti che le istituzioni potrebbero fare per dare fiducia alle detenute e stimolare la loro voglia di recupero, come racconta chi con le donne detenute vive ogni giorno. Cristina Mallardo, direttrice della Casa circondariale di Bellizzi Irpino, e Armanda Rossi, vice direttore a Benevento, parlano della loro esperienza insieme alle donne, alle mamme, alle mogli recluse. In particolare, a Bellizzi, l’unico carcere femminile della Campania con la sezione maternità. "Per noi non sono invisibili, - dice la Mallardo - ma la nostra attenzione va rivolta anche ai piccoli, che vedono il classico cielo a scacchi. Quale reinserimento per loro?"

Occorrono strutture immediate di accoglienza per chi non ha dove andare una volta fuori dall’istituto di pena, esigenza di molte donne, non solo straniere. La condizione delle recluse dei carceri speciali è ancora più dura. Mogli di boss della malavita, detenute per il 41 bis, hanno l’opportunità di guardarsi dentro, ma non sempre riescono a farlo. "È giusto garantire la certezza della pena e la sicurezza sociale - afferma Armanda Rossi - ma è giusto dare loro la possibilità di ricominciare, visto il loro e il nostro lavoro quotidiano".

Donne invisibili per l’opinione pubblica ma non per gli operatori, che puntano sul reinserimento basato su condizioni detentive meno alienabili. Con il documento della Consulta, dunque, parte l’appello ad un impegno che serva a non reiterare, durante la reclusione, la sensazione di esclusione sociale che spesso è stata la causa della loro delinquenza. Gabriella Calò

Droghe: l’oblio della legge Fini non prova crisi d’astinenza

 

Il Riformista, 31 marzo 2005

 

Il prossimo 15 aprile scadono i termini per la presentazione degli emendamenti al disegno di legge Fini in materie di droghe e tossicodipendenze attualmente all’esame delle commissioni Giustizia e Sanità di Palazzo Madama. Il lavoro sonnacchioso dei senatori sta quindi per giungere a un primo, parzialissimo giro di boa. Se approvata definitivamente dalle Camere, la legge segnerebbe il sostanziale ritorno all’impianto fortemente punizionista deciso da Bettino Craxi nell’ottobre 1988 (a convincerlo della necessità di una nuova guerra alla droga era stato l’allora procuratore generale dello Stato di New York Rudolph Giuliani), trasformato due anni dopo nella legge Iervolino - Vassalli e quindi clamorosamente bocciato dal 55 per cento degli elettori con il referendum radicale del 18 aprile 1993.

Il ddl Fini elimina ogni distinzione tra droghe leggere e pesanti, reintroduce il concetto pseudo-scientifico di "dose minima giornaliera (ribattezzata "quantità massima sostenibile": 6000 mg di cocaina, 200 mg di eroina,o,o5 di Lsd, 250 mg di cannabis e suoi derivati, 50 mg di anfetamina), come unico confine tra le sanzioni amministrative (per gli inadempienti sono previsti da 3 a 18 mesi di carcere) e quelle penali. Queste ultime, se lievi, vengono sospese, qualora il tossicodipendente si penta e accetti il progetto terapeutico di recupero nei Sert o nelle comunità private di recupero.

Bollata subito da molti operatori sanitari e di giustizia come "una legge-manifesto", la sua lunga gestazione ha tradito in effetti la sua natura essenzialmente elettoralistica. Basterà ricordare come Gianfranco Fini abbia annunciato da Palazzo Chigi per tre volte (il 16 ottobre 2001, il 14 febbraio e il 27 settembre 2002) l’approvazione "nelle prossime settimane" di un disegno di legge contro la droga. E come, trascorse numerose ma invano le settimane, al vice premier non sia rimasto poi che riproporre l’annuncio il 14 aprile 2003, questa volta in occasione della sua partecipazione a Vienna all’annuale assemblea generale dell’Onu sulle droghe. Dopo altri sette mesi di attesa, il testo è stato finalmente approvato dal consiglio dei ministri in due diverse occasioni (il 14 novembre 2003 e il 4 marzo 2004) per essere infine trasmesso alle Camere lo scorso novembre. Sono dunque trascorsi tre anni perché dagli annunci roboanti si passasse finalmente all’esame dell’articolato.

La verità è che il ddl Fini è stato sempre considerato alla stregua di una fastidiosa cambiale politica che An deve poter incassare per controbilanciare agli occhi dell’elettorato il successo leghista sulla devolution. Di questo passo diventa però piuttosto improbabile una sua definitiva approvazione prima della fine della legislatura. Si registrerebbe così un nulla di fatto che paradossalmente potrebbe accontentare molti nella stessa maggioranza: i paladini del punizionismo a oltranza, che continuerebbero a trovare nel ddl un buon argomento da usare in campagna elettorale, così come la pattuglia liberale di Forza Italia, preoccupata dall’approvazione di un testo che trasformerebbe la casa delle libertà in un vero e proprio condominio dei divieti. Sulla strategia dell’inerzia sembrano puntare anche le altre forze politiche. Ad esempio i Radicali, che non disponendo di propri eletti in Parlamento, preoccupati il lento iter della legge, ma per il momento preferiscono concentrare tutte le loro risorse nella difficile battaglia referendaria su fecondazione assistita e libertà di ricerca scientifica.

È soprattutto l’Unione a voler mantenere bassi i toni dello scontro, allarmata dall’eventualità che un acceso dibattito sulle politiche in materia di droghe faccia riemergere contrasti insanabili nella coalizione guidata da Romano Prodi. Brucia ancora il ricordo dello sconquasso prodotto nel governo Amato dalle affermazioni che nel novembre 2000 l’allora ministro della Sanità Umberto Veronesi rese alla vigilia della conferenza nazionale sulla droga di Genova. "Il proibizionismo, com’è storicamente dimostrato, non paga", ammise il celebre oncologo. "Non evita i danni per i quali è stato deciso e ne crea altri molto peggiori. I tossicomani non devono stare in carcere, dove la droga spesso circola liberamente. Mentre il tabacco causa 80mila morti l’anno, l’alcool 30mila e l’eroina circa mille, le sue vittime sono poche unità: se mi chiedessero di scegliere tra i due mali non avrei dubbi. Pensare di eliminare la droga per legge è un’utopia che nei fatti produce effetti perversi".

Per tutta risposta il centrosinistra decise di isolare il suo ministro: "Veronesi ha parlato a titolo personale", fu l’unico commento unitario che riuscì a esprimere la maggioranza ulivista, già spiazzata dalle sue "scandalose" aperture su eutanasia e fecondazione eterologa. Per il resto, tutti in ordine sparso e a briglia sciolta: se Alfonso Pecoraro Scanio e Katia Belillo difesero la validità delle tesi antiproibizioniste, Luciano Violante sostenne che la "liberalizzazione è una tesi puramente ideologica e omicida", e Patrizia Toia parlò di "tesi da sballo". In mezzo al guado rimase invece il guardasigilli Piero Fassino, che s’inventò addirittura la "decarcerizzazione: che non significa mettere in libertà i detenuti drogati ma farli passare a un percorso terapeutico in comunità o nel Sert". Al ministro degli Affari sociali Livia Turco – lasciata sola sul palco di Genova da un irritatissimo Giuliano Amato – non restò quindi che allargare sconsolata le braccia ammettendo che "questo governo non è nelle condizioni, a questo punto della legislatura, di fare scelte su una materia così rilevante e delicata". Tenuto conto che da allora il tema non è stato più ridiscusso dai partner della coalizione, sarebbe piuttosto imprudente andare a grattare la crosticina che si è formata su questa ferita. Vittorio Pezzuto

Giustizia: omicidi e rapine, mai così tanti negli ultimi anni...

 

La Repubblica, 31 marzo 2005

 

È vero che in Italia i reati diminuiscono? Non proprio. "Aumentano infatti omicidi, rapine in banca e crimini legati al traffico di stupefacenti". Lo rivela Marzio Barbagli, sociologo, capo del comitato scientifico dell’istituto Cattaneo, già presidente della commissione Istat sulle statistiche giudiziarie penali. Che i reati in Italia siano diminuiti ne è convinto Silvio Berlusconi, che lo ha ripetuto nel salotto di Bruno Vespa il 15 marzo scorso.

Se qualcosa è aumentato, ha aggiunto il premier, questo dipende solo "dalla maggiore fiducia nelle forze dell’ordine che ha fatto incrementare la voglia di denunciare i reati". Ma non è vero secondo Barbagli, che si è andato a leggere i dati sulla criminalità del 2004. Un’impresa non facile: il ministero dell’Interno ha infatti cambiato la sua politica. "Prima sul sito della Polizia di Stato - spiega Barbagli - trovavi tutte le statistiche aggiornate; ora i dati si fermano al 2001". Non solo. Il Viminale ha abolito il modello 165, sul quale le forze dell’ordine annotavano i vari reati, per trasmetterli al prefetto. "Oggi - prosegue il criminologo - è stato introdotto un sistema informatizzato che non permette più di accedere ai dati reato per reato".

Nonostante queste difficoltà, lo studio di Barbagli è in grado di confutare le certezze del premier. Preoccupa, innanzitutto, l’inversione di tendenza degli omicidi. Per dieci anni (a partire dal 1992) il numero delle persone uccise nel nostro Paese è costantemente diminuito, soprattutto grazie alla "flessione dei reati della criminalità organizzata". Nel 2003, però, la curva degli omicidi riprende a salire, con il 10,3% in più rispetto all’anno precedente. E nel 2004?

"Nell’ultimo anno - sostiene Barbagli, dopo aver consultato fonti interne al Viminale - la tendenza si è confermata, con un vero boom di omicidi a cavallo con il 2005". L’Italia può poi vantare un vero record nelle rapine, che proseguono la loro corsa pericolosa (con un incremento del 14.2% nel 2002 e di un ulteriore 4.3% nel corso del 2003). Il 2004 non fa eccezioni: "il numero delle rapine è arrivato al livello più alto degli ultimi 40 anni". Lo scorso anno, le rapine in casa sono state circa 420, "con un incremento - afferma Barbagli - pari al 10-15% rispetto al 2003". Cresce il numero delle rapine in banca, passate dalle 2.427 del 2003, alle 2.683 del 2004. Stabile rimane invece il numero dei furti. Vladimiro Polchi

Giustizia: allarme rapine, le banche organizzano le difese

 

La Repubblica, 31 marzo 2005

 

Rapine a mano armata, col buco, con scasso. Nel 2004 aumentano tutti i colpi in banca: 256 in più dell’anno precedente. Tanti, troppi. L’Abi (Associazione bancaria italiana) corre ai ripari e prepara un’analisi dei rischi filiale per filiale. Secondo gli ultimi dati, le rapine in banca sono passate dalle 2.427 del 2003, alle 2.683 del 2004. Il dato più alto dal 1999.

Un vero record europeo. Siamo secondi solo alla Danimarca. Diminuisce, invece, l’importo medio del "bottino": nel 2002 ogni colpo fruttava in media 52,6 milioni di lire, 22.700 euro nel 2003 e 21mila nel 2004. Una nota positiva? Non proprio. "Questo calo - spiega il criminologo Marzio Barbagli - è dovuto al mutamento del rapinatore tipo: un tempo bande ben organizzate, oggi anche solitari criminali".

Lo confermano fonti interne all’Abi: "L’importo medio delle rapine sta diminuendo, perché il fenomeno si è sempre più diffuso". Insomma, i colpi ben organizzati, armi in pugno, sono ormai limitati alle grandi città, mentre "aumentano - spiegano all’Abi - le rapine di tossicodipendenti e "microcriminali": tutta colpa della disoccupazione e della povertà crescente". L’escalation dei crimini allarma le banche italiane. Per questo, da qualche mese, si susseguono vertici tra esponenti dell’Abi e responsabili della sicurezza. Gli incontri hanno già interessato 50 province del nostro Paese. Intorno al tavolo si siedono prefetto, questore, comandante provinciale dei carabinieri, sindacalisti e rappresentati delle banche.

Alcune volte, partecipano anche presidenti di provincia e sindaci. L’ultimo "summit", in ordine di tempo, si è svolto a Bologna, dopo il preoccupante aumento dei colpi contro le banche della città. "Non appena verifichiamo la crescita del numero delle rapine in un’area - raccontano all’Abi - chiediamo per lettera un incontro al prefetto della zona". Spesso è lo stesso prefetto a convocare i banchieri o sono i sindacati delle forze dell’ordine a chiedere d’urgenza un’incontro.

"Le riunioni servono a fare il punto sulla situazione, a verificare lo stato di difesa delle banche e a raccogliere dati e informazioni sulle rapine avvenute". Gli incontri sono infatti solo il primo passo di una più articolata strategia.

All’Abi si dicono "preoccupatissimi" per la crescita dei reati e preparano le contromosse. Innanzitutto, una dettagliata analisi dei rischi, che assegnerà una sorta di punteggio alle banche in base al loro livello di sicurezza. Analisi a cui si sta lavorando in questi giorni e che sarà pronta tra poco più di una settimana. Non solo. Si sta terminando anche la stesura di un manuale di pronto intervento: una serie di regole che i dipendenti delle varie agenzie dovranno seguire in caso di rapina. Infine l’Abi punta molto sulla diffusione dei sistemi biometrici per incentivare la sicurezza. Forse in futuro, per entrare in banca, dovremo sottoporci alla lettura delle impronte digitali o perfino alla scansione dell’iride. Vladimiro Polchi

Siena: in mostra 100 opere artistiche realizzate da 15 detenuti

 

Redattore Sociale, 31 marzo 2005

 

Ricordate "La storia infinita"? Nel film tratto dal famoso romanzo di Michael Ende, il giovane guerriero Atreyu si trova a combattere "il nulla" che minaccia il regno di Fantasia, lo affronta e lo vince lasciando spazio alla vita e alla possibilità di rinascere. Da questo spunto, e dalla volontà di comunicare questo messaggio nasce "Fantasia", mostra di opere realizzate dai detenuti della casa circondariale di Siena che da alcuni anni frequentano il laboratorio artistico "Aspettando di ricominciare" attivo all’interno del carcere.

Da oggi (apertura esposizione ore 16), fino al 2 aprile, la Chiesa di Piazza S. Spirito ospita circa 100 lavori, tra vasi di ceramica, realizzazioni in cotto, dipinti su tela e su piatto. "Sono una quindicina i detenuti che lavorano stabilmente all’interno del laboratorio - riferisce Anna Maria Cristina Visone, direttrice della casa circondariale -.

Il corso di ceramica è ormai attivo da alcuni anni, è nato per dare l’opportunità di impegnarsi in qualcosa di concreto, frutto dell’attenzione e della volontà di apprendere. All’interno del carcere c’è una sala attrezzata con il materiale necessario ed un piccolo forno per realizzare i lavori. Abbiamo pensato per l’esposizione al nome "Fantasia" proprio per richiamare alla mente l’idea di un percorso che attraversa le difficoltà e arriva alla rinascita?".

Durante il periodo pasquale c’è stata un’altra esposizione di opere sul tema della resurrezione, e dal laboratorio sono nate anche formelle con i simboli delle contrade senesi, che sono state affisse al reparto maternità dell’ospedale cittadino. La mostra "Fantasia" è realizzata in collaborazione con i servizi sociali del comune di Siena, la cooperativa sociale Microcosmos e la sezione senese della Croce Rossa italiana. Sono circa 60 i detenuti della casa circondariale, coinvolti nella scuola, in attività creative, in corsi per acquisire conoscenze e abilità da poter spendere una volta concluso il periodo di reclusione. Sono attivi le scuole elementari e medie, corsi per muratore professionale, di teatro, musica, giardinaggio. Con l’estate partirà anche la formazione per apprendere i mestieri di idraulico ed elettricista. "Fantasia" si può ammirare dunque presso la Chiesa di S. Spirito fino al 2 aprile, dalle ore 11 alle 19. (sm)

Cagliari: il Buoncammino in vendita, ma 14 consiglieri dicono no

 

L’Unione Sarda, 31 marzo 2005

 

Un no deciso alla vendita del carcere di Buoncammino a privati. "L’edificio è patrimonio storico della città e deve restare nelle mani del Comune". Nel dibattito sul futuro della casa circondariale di Cagliari si inserisce la ferma richiesta di quattordici consiglieri comunali. Un appello trasversale che ha trovato adesioni convinte in tutti gli schieramenti: dalla Margherita all’Uds, dai Democratici di Sinistra al Gruppo Misto.

"Serve un concorso internazionale di idee per valorizzare definitivamente un punto centrale della futura area metropolitana", si legge nella mozione. In calce al documento, le firme di Marco Espa, Rita Carboni Boy, Tonino Serra e Lorenzo Cozzolino della Margherita; Paolo Frau, Piergiorgio Meloni e Marisa Depau dei Ds; Piero Comandini dello Sdi; Radhouan Ben Amara del Gruppo Khora; Gianni Loy del Gruppo Misto; Alessio Mereu, Luigi Atzeni e Roberto Massazza dei Riformatori; Aurelio Lai dell’Uds.

Tutti concordano su un punto: il ministro di Giustizia non può disporre a suo piacimento del carcere, la decisione va presa in accordo con Regione e Comune. Punto di partenza della polemica le "notizie di stampa che riferiscono le intenzioni dell’onorevole Castelli di vendere a privati Buoncammino, scavalcando in questo modo le istituzioni sarde". Un’iniziativa che i consiglieri non gradiscono: "Anche l’articolo 14 dello Statuto speciale della Sardegna prevede che il carcere, una volta trasferito in un altro edificio, debba diventare di proprietà regionale", si sottolinea nel documento.

I consiglieri specificano punto per punto i motivi per i quali, secondo loro, sarebbe ormai necessaria la chiusura dell’istituto e il suo affidamento al Comune: nella mozione si parla di "condizioni del carcere inadeguate a garantire condizioni di vita civili ai detenuti"; di "inidoneità della struttura tale da imporre la chiusura della casa circondariale"; si specifica che "i fondi stanziati dallo Stato per la costruzione dei nuovi penitenziari provengono da somme fuori bilancio, quindi da reperire attraverso il leasing, come affermato più volte dallo stesso ministro Castelli".

Tutti argomenti da inserire in un contesto più ampio: quello del valore storico da tutelare e della posizione che il penitenziario ha in città. "Il carcere è patrimonio di Cagliari", si legge nel documento, "e oltretutto si trova in una zona centrale e panoramica". Motivo per cui "sindaco e Giunta si devono impegnare a bandire un concorso internazionale di idee per trasformare Buoncammino in un polo di interesse e attrazione per la città e tutta l’area metropolitana".

E, soprattutto, a "evitare che venga venduto a privati". Un traguardo non certo semplice: la strada che dovrebbe portare al nuovo carcere è sempre stata lastricata di promesse, smentite, assicurazioni e marce indietro. Costruita nel 1870, quella di Buoncammino è una casa circondariale, cioè un istituto che dovrebbe ospitare detenuti in attesa di giudizio, non condannati definitivamente. Non è mai stato così. Sovraffollamento (380 tra uomini e donne), carenza di personale (1339 agenti di polizia penitenziaria) e tossicodipendenti (il 60 per cento dei detenuti) sono da sempre i problemi più urgenti da risolvere.

E anche del nuovo carcere si parla da anni: già agli inizi del 2002 Castelli ne garantì la costruzione: "C’è il decreto, il denaro è in cassa. Ci accorderemo con gli enti locali, faremo i progetti e individueremo l’area. Entro tre o quattro anni sarà tutto pronto", disse. Il sindaco Emilio Floris sottolineò subito l’intenzione di rientrare in possesso dell’edificio, forse presagendo i futuri problemi. Ma i tre anni sono passati e del carcere neanche l’ombra.

Nel settembre 2002 la prima doccia fredda: dopo una visita al carcere il senatore ulivista Nando Dalla Chiesa, parlando di una "Buoncammino da rifare" gelò tutti ipotizzando che la nuova casa circondariale non sarebbe stata pronta "prima di sei anni". Nel maggio 2003 il Governo stanziò 48 milioni di euro: una somma sufficiente a realizzare la nuova casa circondariale. "Entro pochi mesi", disse Emilio Floris, "saranno avviate le procedure per l’affidamento del progetto".

Si parlò anche di un albergo, di un centro culturale e di una scuola. Un anno fa ecco l’annuncio ufficiale della chiusura di Buoncammino. Fu lo stesso ministero della Giustizia ad annunciarlo. Il progetto per la dismissione delle vecchie carceri sarebbe stato gestito dalla Dike Aedifica Spa, la società per la realizzazione dei programmi di edilizia carceraria e giudiziaria del ministero della Giustizia. Ancora nulla è cambiato. Ora quattordici consiglieri comunali riportano a galla i problemi "per sollecitare Regione e Comune a reimpossessarsi di un bene che fa parte della storia di Cagliari". Andrea Manunza

Vicenza: rimase in carcere 20 ore in più, agenti scagionati

 

Il Giornale di Vicenza, 31 marzo 2005

 

Un detenuto non fu messo subito agli arresti domiciliari per un errore del tribunale di Venezia che gli aveva concesso i domiciliari. Ma l’operato degli agenti di polizia penitenziari Ludovico Abbate e Vincenzo Marinelli che, pur di fronte all’insistenza della persona interessata e del suo legale per la scarcerazione furono intransigenti, fu corretto. Scrive al riguardo il gip Massimo Gerace: "Lungi dall’apparire connesso a un dolo di omissione, il comportamento dei due indagati sembra invece chiaramente ricollegabile al predominante aspetto che presso detti agenti assume di solito l’assoluta correttezza formale del provvedimento da eseguire, e ciò verosimilmente nella coscienza e nel fondato timore della gravità che assumerebbero eventuali errori commessi da loro nella delicata materia della scarcerazione".

Insomma, Abbate e Marinelli agirono con scrupolo, come del resto avevano osservato i loro avvocati Paolo Mele senior e Andrea Balbo e gli stessi carabinieri che avevano svolto le indagini.

L’indagato Cesare Pegoraro di Rosà nell’estate 2003 si era fatto quasi 20 ore di carcere in più per un errore della cancelleria del tribunale del Riesame di Venezia. Arrestato il 17 aprile 2003 nell’ambito di un incendio colposo a Bassano che aveva provocato la morte di uno dei presunti piromani, era stato liberato non il 9 luglio alle 15.52, bensì alle 11.30 dell’indomani.

Il motivo? Era sbagliata nel fax partito da Venezia per la casa circondariale di S. Pio X l’indicazione della residenza (Vicenza anziché Rosà) e la data di nascita ( 22 ottobre ‘61 anziché 20 ottobre ‘61). A sporgere denuncia e a far scattare le indagini contro i due agenti dell’ufficio matricola era stato Cesare Pegoraro, 32 anni, il quale si era rivolto all’avvocato Lucio Zarantonello, dal quale era difeso nel procedimento penale che l’aveva fatto finire dietro le sbarre, per vedere puniti gli agenti che a suo avviso per un eccesso di pignoleria non l’avevano scarcerato. Il pomeriggio del 9 luglio la moglie di Pegoraro era scesa da Rosà per aspettare il marito visto che avrebbe potuto raggiungere il proprio domicilio senza scorta. A decidere gli arresti domiciliari era stato il Riesame sollecitato da Zarantonello.

Tuttavia a causa dell’inghippo burocratico la scarcerazione era slittata e il detenuto aveva fatto scattare l’inchiesta per omissione in atti d’ufficio. Al termine delle indagini, però, il pm Alessandro Severi aveva chiesto l’archiviazione, anche in base alla relazione del luogotenente dei carabinieri Lorenzo Barichello, che sottolineava come l’operato dei due agenti fosse stato encomiabile e corretto, in virtù del compito degli agenti i quali non hanno alcun margine discrezionale.

L’avv. Zarantonello aveva presentato opposizione all’archiviazione, c’era stata l’udienza in camera di consiglio, dopo di che il gip Gerace aveva accolto la richiesta della procura e dei legali Mele sr e Balbo, perché "è da considerare come sia notorio che gli agenti penitenziari non dispongono di alcuna discrezionalità in materia di scarcerazione né tantomeno di poteri integrativi o inter pretativi di ordinanze giudiziali". Come dire, Pegoraro aveva sbagliato bersaglio delle sue doglianze. Altri, e non certo gli agenti, avevano sbagliato.

Salerno: Castelli; il nuovo Tribunale è tra i migliori d’Italia

 

Il Denaro, 31 marzo 2005

 

Il tribunale di Vallo della Lucania tra i migliori d’Italia, per questo il governo premia il progetto della nuova cittadella giudiziaria: "In una scala nazionale stilata in base al principio dell’ efficienza, il ministero della Giustizia - afferma il ministro Roberto Castelli atterrato alle 11.25 con un elicottero nel campo sportivo per l’inaugurazione dell’opera - ha finanziato solo le strutture che hanno lavorato meglio". Alla cerimonia anche un gruppo di avvocati che per protesta si sono presentati senza toga per poi abbandonare la presentazione. "Ci hanno ignorato", dice il presidente dell’Ordine degli avvocati Francesco Bellocci. Sede giudiziaria dal 1809, oggi sono oltre 500 gli avvocati iscritti al foro di Vallo della Lucania.

Riferimento di un comprensorio che abbraccia 51 comuni e circa 125 mila abitanti, l’ultima ristrutturazione era stata apportata nel 1969. Da sette anni ormai erano in corso i lavori per il rifacimento della cittadella giudiziaria. Costata circa 12 milioni di euro a progettarla è stato lo studio Pellegrini Associati di Roma: cinque blocchi organizzati su tre livelli, per un totale di 15mila metri quadri di superficie calpestabile e circa il doppio di area esterna adibita a verde pubblico e parcheggi. Il complesso può contare su ben undici aule, di cui quattro penali, tre civili e quattro per il giudice di pace (due per il civile e due per il penale). "Alle aule sono stati assegnati i nomi dei martiri della giustizia - annuncia il presidente del tribunale, Claudio Tringali - di quegli uomini morti per difendere la verità".

Il ministro della Giustizia Castelli ricorda che il Governo in soli quattro anni di legislatura ha speso circa 470 milioni di euro per la giustizia "erogando i finanziamenti non, veramente, sulla base di rapporti clientelari. Ne sono un esempio anche il tribunale di Sapri e il penitenziario di Sala Consilina". Insomma, fa notare il ministro, dal governo è stata data fiducia a chi ha lavorato meglio, come nel caso di Vallo. A interrompere la cerimonia c’è un gruppo di avvocati senza toga che ha lasciato la presentazione per protesta. Posizione non condivisa dal presidente della Camera Penale Attilio Tajan: "Non era la sede opportuna - dice - per affrontare questioni giuste, ma rispetto alle quali i colleghi mostrano di solito scarsa sensibilità. Basta pensare che all’ultima assemblea su 500 avvocati ne erano presenti solo 80".

Polemico anche l’intervento del procuratore della Repubblica, Alfredo Greco che, in risposta ai comunicati stampa inoltrati nei giorni scorsi dai sindacati sugli errori che sarebbero stati commessi nella realizzazione della struttura, smentisce le notizie giunte agli organi di informazione: "Non ci sono infiltrazioni di acqua né soffitti pericolanti, piuttosto va dato merito allo studio Pellegrini del lavoro svolto. Questa città deve rappresentare più che un motivo di rottura la forza dello stato". d.d.s.

Libri: "Vite di scarto", il nuovo saggio del sociologo Bauman

 

Secolo XIX, 31 marzo 2005

 

Non è casuale se in copertina dell’ultimo saggio di Zygmunt Bauman ("Vite di scarto", Laterza, pag. 173), tra i più grandi sociologi viventi, autore di fondamentali testi quali "Modernità e Olocausto", "Il disagio della postmodernità", "Dentro la globalizzazione" e presente in questi giorni in libreria anche con Fiducia e paura nella città per i tipi della Bruno Mondadori, compaiono una serie di desolate figure umane a cavalcioni di vari rifiuti industriali trasportati da una melmosa corrente.

"Segreto oscuro e vergognoso di ogni produzione", mai come oggi la nostra società sforna rifiuti a ciclo continuo, beni materiali o esseri umani che siano. Atterrita dalla crescita demografica del pianeta, secondo un redivivo malthusianesimo quanto mai opinabile ("la ‘sovrappopolazione è un’invenzione degli statistici"), e succube di una psicosi da cittadella medievale assediata, il mondo ricco non ha più discariche a portata di mano per sbarazzarsi dei superflui: finiti ormai i tempi delle aree "vuote" - vedi l’Australia per gli inglesi, l’Algeria e la Nuova Caledonia per i francesi - e non ancora investite dalla modernità ove poter scaricare l’indesiderato fardello.

Gli eccedenti aumentano e, come ogni rifiuto, richiedono relative pratiche di smaltimento. Non solo: sempre più numerosi bussano alle porte gli immigrati, presenza in grado di suscitare la più viva inquietudine degli stanziali. Una presenza, fa notare polemicamente lo studioso polacco, utilizzata cinicamente dai governi per riaffermare un residuale potere eroso, in gran parte, dalle incontrastabili dinamiche della globalizzazione.

Non potendo governare, né tanto meno arrestare queste ultime, ecco concentrarsi retoriche e politiche repressive su chi viene additato quale minaccia disgregante del sistema. Una sostanziale ammissione di impotenza, anche se ammantata di decisionismo e inflessibilità: "l’incertezza e l’angoscia prodotta dall’incertezza - osserva Bauman - sono i prodotti principali della globalizzazione.

I poteri statuali non possono fare quasi nulla per placare l’incertezza, figuriamoci sopprimerla. Il più che possono fare è rifocalizzarla su oggetti alla loro portata; spostarla dagli oggetti per cui non possono far nulla su oggetti che possono almeno mostrare di saper gestire e controllare. I prodotti di scarto della globalizzazione - rifugiati, richiedenti asilo, immigrati - si adattano perfettamente a questa definizione".

Una varia e sofferente umanità, relegata nella squalificante categoria delle "non-persone", per citare un recente saggio di Alessandro Dal Lago. Una turba indistinta e stereotipata, estranea e perturbante, se è vero, come diceva Bertolt Brecht, che ogni profugo, per la sua stessa storia, è un "messaggero di sventura".

Con uno stato sempre meno garante e sempre più gendarme, incaricato di escludere i soggetti bollati come scarti, "tutti i rifiuti, compresi i rifiuti umani, tendono a essere accumulati indiscriminatamente nella stessa discarica", che di volta in volta potrà assumere la fisionomia degli "iperghetti" delle città americane, non più serbatoi di manodopera ma immondezzai a senso unico, o dei campi profughi, "non luoghi" posizionati il più lontano possibile dal cuore dell’impero. Anche la scuola e il carcere, smarrita l’originaria funzione educativa - socializzante - rieducativa, si dedicano non più al riciclo ma solo allo smaltimento, con buona pace dello stato sociale e dei suoi principi ispiratori.

Inevitabili, in tale società "liquido-moderna", le ripercussioni sugli stili di vita e il modo stesso di concepire l’esistenza, dall’estetica (nuovo è bello, a prescindere) ai rapporti umani: il successo degli speed-dating, incontri seriali cronometrati per trovare l’anima gemella, è al riguardo indicativo. Nessuna perdita di tempo, né tanto meno sentimentali complicazioni: tre minuti e via, avanti col prossimo fino all’individuazione del prodotto soddisfacente. Valutazione, scarto, scelta. Lo smaltimento-rifiuti fa già parte delle regole del gioco.

Giappone: 33enne condannato a morte in processo d’appello

 

Agenzia Radicale, 31 marzo 2005

 

L’Alta Corte di Tokyo ha condannato all’impiccagione Junya Hattori, 33 anni, riconoscendolo colpevole del sequestro, stupro ed omicidio di una studentessa di 19 anni. In occasione del processo di primo grado, conclusosi nel gennaio 2004, i pubblici ministeri avevano chiesto per Hattori la condanna a morte, tuttavia il tribunale del distretto di Shizuoka aveva emesso una condanna all’ergastolo. Per il giudice dell’Alta Corte Kenjiro Tao "la possibilità di una sua riabilitazione sono molto improbabili".

Secondo i pubblici ministeri, nel gennaio 2002 Hattori avrebbe cercato di corteggiare la ragazza, che invece lo avrebbe ignorato. L’uomo l’avrebbe quindi costretta a salire nella sua auto e condotta in un’area isolata. Lì l’avrebbe prima violentata per poi legarla e darla alle fiamme. Nel condannare Hattori all’ergastolo, il tribunale distrettuale aveva stabilito che "di tutta evidenza questo omicidio non costituisce un’azione premeditata. Si deve inoltre tener conto che l’imputato è nato e cresciuto in un ambiente degradato".

L’Alta Corte è stata di parere opposto: "la sua tendenza a commettere crimini dipende dal suo modo di vivere piuttosto che dall’ambiente in cui è stato cresciuto", ha detto Tao, aggiungendo che "l’imputato ha ucciso la vittima, bruciandola viva, per paura di essere denunciato alla polizia. Si è sbarazzato della ragazza anche perché voleva assumere delle droghe il prima possibile". "Hattori - ha concluso il giudice - ha precedenti per furto ed altri reati, ed ha commesso l’omicidio a meno di un anno dal suo rilascio con la condizionale. Non importa quanto sia dispiaciuto per il crimine che ha commesso, non ci rimane che condannarlo alla pena più severa".

In Giappone la pena di morte è prevista dalla Legge di Procedura Penale e dal Codice Penale per 13 reati ma, in pratica, viene applicata solo per l’omicidio. Il Governo mantiene il massimo riserbo sulle esecuzioni, che il più delle volte hanno luogo d’estate e alla fine dell’anno, quando il Parlamento è in vacanza. In questo modo viene evitata la discussione parlamentare. La legge prevede che il Ministro della Giustizia debba firmare un ordine di esecuzione entro i 6 mesi dalla condanna a morte da parte del tribunale. Se il condannato ricorre in appello, chiede la ripetizione del processo o la grazia, il limite dei 6 mesi non si applica finché la procedura non è esaurita. Tuttavia, i Ministri della Giustizia evitano generalmente di firmare ordini di esecuzione prima dell’ultimo minuto utile, anche se non c’è alcuna richiesta di appello o di grazia. Per i detenuti nel braccio della morte il periodo precedente al cambio di Ministro della Giustizia è il più critico, perché è più probabile che gli ordini di esecuzione vengano emessi.

Nell’agosto 2004, i detenuti nel braccio della morte erano 56. Dal novembre 1989 al marzo 1993 vi è stata una sospensione di fatto delle esecuzioni, in parte dovuta alla personale contrarietà alla pena di morte dell’allora Ministro della Giustizia facente funzioni. Negli otto anni precedenti la sospensione, erano stati giustiziati 13 detenuti mentre 44 persone sono state uccise dalla ripresa delle esecuzioni nel 1993. Le ultime esecuzioni sono state effettuate il 14 settembre 2004 nei confronti di due uomini condannati per omicidio. Nel 2003 era stata effettuata una esecuzione. Due esecuzioni erano state effettuate nel 2001 e nel 2002.

I valori e i significati della Pasqua vissuti dentro il carcere

di Padre Vittorio Trani, cappellano del carcere di Regina Coeli

 

Ass. Papillon, 31 marzo 2005

 

Pasqua nei suoi significati e nei suoi valori, vissuti anche nelle carceri. Un articolo con il quale Padre Vittorio ci sottopone una riflessione su questa festività cristiana. Pasqua nei suoi significati e nei suoi valori, vissuti anche nelle carceri.

Pasqua. Nella mente incalzano due immagini forti: quella di un popolo in marcia verso la libertà e di un uomo, sfolgorante di luce, che lascia la tomba e riprende la vita. Il vocabolo "pasqua" accomuna i due eventi (passaggio del Mar rosso e risurrezione di Cristo) per sottolineare le meraviglie che Dio opera a favore del suo popolo.

Il Mare diviso. Gli Ebrei, in fuga dinanzi all’esercito del faraone, attraversano il Mar Rosso camminando sul fondo asciutto, tra due pareti di acqua miracolosamente tenute sospese da forze invisibili. Era bastato il gesto di Mosè rivolto al mare per trasmettere quel potere che viene dall’alto e domina la natura. Per gli inseguitori, invece, in quel percorso si consuma la tragedia che porta al loro sterminio. La libertà al popolo eletto, viene "donata" da Dio con segni grandi e braccio potente. Su questo evento ogni pio israelita ancorerà la sua fede. Ogni padre dovrà parlarne ai figli e tramandarne la memoria.

Il masso ribaltato. Il sepolcro dove sistemarono il corpo di Gesù era a pochi passi dalla croce sulla quale aveva consumato il suo sacrificio. C’era fretta di seppellirlo per via del sabato, giorno di assoluto risposo, le "cui luci già apparivano", annota S. Luca.

La chiusura dell’ingresso venne assicurata da una grossa pietra. E, all’esterno, presero posto le sentinelle. Tutte le precauzioni umane vennero messe in atto per garantire che nessuno potesse avvicinarsi a quella singolare tomba.

La domenica mattina, però, quel sepolcro fu trovato vuoto. L’occupante non c’era più. Era risorto. Vivo e rassicurante si era presentato in mezzo ai suoi discepoli. E vi rimase per quaranta giorni, tanto da mettere dentro le teste di tutti che Egli era il padrone della vita, capace di donarla e poi riprenderla.

San Paolo, scrivendo ai cristiani, dice che "se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe stata la nostra fede". Ecco la Pasqua cristiana: il ritorno alla vita di Colui che viene ucciso sotto gli occhi di tutti e poi torna alla vita.

Un percorso di speranza. Celebrare la Pasqua, oggi, è allungare lo sguardo a questo orizzonte dove si trovano motivi si speranza e di fiducia per tutti. Il Signore è dentro la storia dei popoli e di ogni persona. E Cristo, il Dio fatto uomo, risorto e glorioso, è la presenza viva in mezzo agli uomini.

Il giovedì santo, poco prima che iniziasse il calvario di passione, volle rendere la sua presenza percettibile agli occhi umani istituendo il sacramento dell’Eucarestia. Nella semplicità di un elemento materiale come il pane espresse la grandezza del suo amore verso l’umanità. Francesco di Assisi, la persona realizzatasi pienamente in forza della fede, ancorava le sue certezze proprio nell’Eucarestia. "Di Cristo - diceva - null’altro io vedo se non il suo santissimo corpo e il suo santissimo sangue".Il resto veniva da sé.

"Ero in carcere". È la singolare affermazione che troviamo sulla bocca di Gesù nel vangelo di San Matteo. Piace guardare la parte di umanità che si trova dietro le sbarre, priva di libertà e "declassata" dalla considerazione generale, partendo da questo singolare pulpito. Cristo non declassa nessuno, anzi, si identifica con chi vive una esperienza di emarginazione così particolare.

Questo, credo, sia un primo valore pasquale offerto a chi si trova dietro le sbarre. Viene poi dell’altro.

C’è un episodio nel corso dell’ultima cena che getta una luce particolare sui rapporti tra le persone, ovunque esse si trovino. Si svolge nel chiuso del cenacolo. Gesù si alza, prende un asciugamano, se lo cinge intorno alla vita e si china a lavare i piedi dei suoi discepoli. Gesto di un’intensità unica, che racchiude un messaggio capace di rifondere la vita. Ogni persona – sottolinea Cristo – ha una dignità così grande dinanzi alla quale anche un Dio si china per riconoscerla.

Nel contesto attuale dove le nostre carceri vanno assumendo sempre più un volto multi religioso, la Pasqua cristiana rimane un evento che irradia questi bagliori che possano arricchire l’esistenza di chiunque. Il rintocco della campana, che annuncia il Cristo risorto, suona per tutti.

Roma: progetto di Centro polivalente per detenuti ed ex detenuti

 

Liberazione, 31 marzo 2005

 

Con la messa in scena dello spettacolo "La Gabbia" al teatro Vittoria è stato ufficialmente presentato il progetto dell’associazione Papillon per la realizzazione del Centro Sociale Polivalente gestito da persone detenute ed ex detenute.

Giulio Salierno, autore del testo dello spettacolo, Don Luigi Ciotti (presidente di "Libera") e Luigi Nieri (assessore del comune di Roma) si sono succeduti sul palcoscenico del teatro Vittoria per rimarcare il valore che il centro sociale potrebbe rappresentare per tutto il variegato mondo che ruota intorno al carcere. Una raccolta informatizzata multimediale di opere musicali, teatrali, narrative, diffusione della cultura musicale e teatrale tipica del mondo dei "Fuori margine", formazione e didattica in ambito musicale, teatrale e artigianale rivolta a ex detenuti, rappresentano opportunità concrete per spezzare l’ineluttabilità della recidiva.

Gli attori che si sono esibiti nella "piece" teatrale hanno poi voluto raccontare il carcere nella sua violenza quotidiana. Dall’esperienza del piccolo ladruncolo al mafioso convinto che il suo lavoro sia paragonabile a quello dell’imprenditore, alla ragazza albanese che si prostituisce, al transessuale "guevarista", la "Gabbia" ha presentato, con durezza e senza ipocrisie, le più diffuse forme di criminalità dal di "dentro", viste con gli occhi di chi delinque.

Una panoramica dell’universo carcere con i suoi riti e con le sue cerimonie per alcuni versi senza speranza, tratteggiate con un linguaggio crudo e a tratti violento. Il carcere come discarica sociale, un tappeto sotto il quale nascondere devianze giovanili non garantite, esodi di popolazione del Terzo e Quarto mondo, donne sfruttate e rese merce, persone con destini già segnati dalla nascita e dal contesto sociale, disagi psichici. Uno spaccato che ha posto molti interrogativi agli spettatori presenti con una immagine scenica, la Gabbia, appunto, che ha ben reso l’immagine del carcere, delle tante prigioni delle nostre società moderne.

A questa quotidiana violenza carceraria si sono contrapposti gli interventi appassionati di Salierno, Don Ciotti e Nieri che hanno riproposto con forza l’esigenza immediata di percorsi alternativi alla detenzione, dell’applicazione dell’indulto e dell’amnistia, e soprattutto del rafforzamento di politiche sociali adeguate per rompere il pericoloso cerchio della recidività.

Il Centro Sociale Polivalente, già individuato nel Parco di Aguzzano a Roma, o in un altro spazio fra quelli disponibili fra i beni confiscati alle mafie, potrebbe rappresentare un tassello importante di questo percorso. Gabriella Stramaccioni

Livorno: sul "caso Marcello Lonzi" proseguono le indagini difensive

 

Comunicato stampa, 31 marzo 2005

 

Non abbiamo mai smesso di indagare, Maria Ciuffi lo sa, anzi, la sua collaborazione è stata preziosissima. Indagini difensive che, in conformità alla disciplina che regola tale normativa, non possono più essere oggetto di fatti e circostanze già valutate dall’Autorità Giudiziaria. Indagini difensive, quindi, inedite e che si concretizzeranno in una denuncia per omicidio premedidato non più nei confronti di ignoti. Nell’attesa di una risposta sulla richiesta di riesumazione del cadavere di Marcello depositata il 18 marzo scorso, stiamo completando le indagini su un crimine orrendo, nel rispetto della legalità, dello Stato di diritto e contro ogni forma di "rambismo". Chi si illudeva di farla franca è stato troppo ottimista.

 

I difensori di Maria Ciuffi

Padova: presentazione del "Rapporto Cpt" di Medici Senza Frontiere

 

Progetto Melting Pot, 31 marzo 2005

 

Mercoledì 30 marzo, presso l’Officina Sociale, in via Gradenigo 8 (zona Portello), si è tenuta la presentazione del rapporto "Centri di permanenza temporanea ed assistenza. Anatomia di un fallimento", curato da Medici Senza Frontiere.

Nel corso del 2003 Medici Senza Frontiere ha condotto un’indagine in tutti i Centri di Permanenza Temporanea e nei Centri di Identificazione presenti in Italia, concentrata sulla valutazione di: assistenza sanitaria, strutture di accoglienza, rispetto dei diritti umani e delle procedure ed, in generale, gestione dei centri. La ricerca, che all’inizio del 2004, divenne un rapporto diffuso dalla stampa scatenando numerose polemiche, è ora uscita, per la casa editrice Sinnos, con un libro in cui Medici Senza Frontiere sottolinea alcune gravi violazioni dei diritti umani e della dignità della persona, soprattutto riguardo alle strutture di accoglienza, all’assistenza sanitaria e al diritto d’asilo. All’evento, organizzato da Ass. Razzismo Stop, Comitato per il Superamento del ghetto di via Anelli, Caffè Esilio, sono intervenuti Loris de Filippi, di Medici senza Frontiere e Milena Zappon, del Progetto Melting Pot Europa. Durante la serata è stato proiettato un video inedito sui Centri di Permanenza Temporanea.

Giustizia: per Ovidio Bompressi altri due anni di "domiciliari"

 

La Gazzetta del Sud, 31 marzo 2005

 

Ovidio Bompressi, sempre in trepida attesa della grazia, ha ottenuto ieri di rimanere agli arresti domiciliari ancora due anni, perché la detenzione in carcere continua ad essere incompatibile con il suo stato psicofisico. La decisione è del tribunale di sorveglianza di Genova, presieduto da Lino Monteverde, che ha disposto ieri mattina il differimento per due anni dell’esecuzione della pena, cioè il ritorno di Bompressi nel carcere di Pisa. Bompressi, inizialmente agli arresti domiciliari, era da un anno in sospensione pena, di fatto in libertà, in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza.

"Per quanto la vicenda ci amareggi – ha commentato uno dei difensori, l’avv. Ezio Menzione del Foro di Pisa – perché siamo sempre detenuti, siamo tuttavia soddisfatti per la conversione ai domiciliari". Il legale ha aggiunto: "Il tribunale di sorveglianza di Genova ha tenuto conto della speranza e del buon senso che si possa arrivare ad una definizione complessiva della vicenda attraverso la grazia".

Anche l’avv. Felice Besostri, codifensore di Bompressi, pur accogliendo con soddisfazione la decisione del Tribunale di Genova, ritiene tuttavia "che la situazione di Ovidio Bompressi e di Adriano Sofri debba trovare una soluzione definitiva nell’ambito dei poteri di grazia del Capo dello Stato". L’ordinanza ha preso anche in considerazione l’attività nel mondo del volontariato a cui da tempo si dedica Bompressi, stabilendo che possa lasciare la sua abitazione, a Massa, dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 17. Bompressi è inoltre autorizzato ad allontanarsi da casa per i necessari contatti e le terapie presso le strutture sanitarie territoriali purché avvisi, anche telefonicamente, il comando dei carabinieri preposto alla vigilanza. Bompressi entrò in carcere a Pisa il 24 gennaio del 1997, dopo la sentenza definitiva della Cassazione che lo condannava a 19 anni, 9 mesi e otto giorni per l’omicidio del commissario Calabresi compiuto a Milano.

Il 20 aprile del ‘98 venne però liberato "per gravissimi motivi di salute" su decreto del magistrato di sorveglianza pisano, decisione confermata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze. Bompressi in carcere soffriva di depressione ed era dimagrito di 13 chili. Alla scadenza dei termini della sospensione concessa da Firenze, il magistrato di sorveglianza di Massa concesse una proroga, in attesa di una decisione definitiva del Tribunale di sorveglianza di Genova. Quest’ultimo è competente perché Bompressi, da quando è libero vive a Massa, comune che rientra nel distretto di Corte d’Appello del capoluogo ligure.

L’ordinanza di ieri del tribunale di sorveglianza di Genova, che ricalca quella presa il 14 maggio del 2003, ha ricostruito fin dall’inizio, cioè dal 24 settembre del 1998, la vicenda processuale di Bompressi davanti alla magistratura di sorveglianza. "Bompressi - ha sottolineato il presidente del tribunale, Lino Monteverde - appena entra in carcere precipita rapidamente in una grave crisi depressiva, con conseguente "anoressia" e patologie di carattere fisico, altrettanto rapidamente ne esce quando rientra in famiglia".

Il tribunale ha poi evidenziato di aver preso in seria considerazione che le crisi psico-fisiche di Bompressi, verificatesi in occasione della detenzione in carcere, non fossero strumentali. "Si è accertato – è scritto nell’ordinanza – che le reazioni ogni volta poste in essere dal soggetto con determinazione di fronte alle ricorrenti scarcerazioni hanno avuto conseguenze sempre più gravi, per cui si può ritenere provato che il pericolo di morte nell’eventualità di una nuova carcerazione rappresenti qualcosa di più di una mera possibilità, anche in considerazione dell’ età del soggetto (58 anni, ndr) e del suo progressivo indebolimento organico". Matteo Pentini

Droghe: Villa Maraini, sei operatori accusati di ricattare i detenuti

 

Il Messaggero, 31 marzo 2005

 

Sei richieste di rinvio a giudizio, epilogo di un’inchiesta durata un anno, che ha portato a ipotizzare un puzzle fatto di ricatti, minacce e richieste di denaro ai detenuti tossicodipendenti che dovevano entrare all’interno della struttura per disintossicarsi. E in questo modo potevano lasciare il carcere. Villa Maraini è una istituzione storica e importante nella lotta contro la droga, che negli anni ha maturato meriti enormi ed è stata in prima linea in questa battaglia.

Il suo fondatore, Massimo Barra, non ha dubbi e difende senza vacillare gli operatori accusati. La pensa diversamente il pubblico ministero, Marcello Cascini, che ha chiesto il processo per concussione, minaccia e tentata concussione a carico di quattro uomini (M.A., 40 anni, G.R., 53, L.I., 51, E.I., 53) e due donne (B.C., 41, e G.A. 51), tutti operatori del Centro arresti domiciliari Fondazione Villa Maraini. Secondo la polizia del commissariato Monteverde, diretto da Edoardo Calabria, che ha svolto l’indagine, venivano chiesti anche 2.500 euro per l’accoglienza dei tossicodipendenti detenuti nella struttura. Spesso erano i familiari a pagare, pur di vedere il proprio caro lasciare la cella.

L’inchiesta cominciò un anno fa grazie alle indiscrezioni raccolte dagli agenti negli ambienti dei tossicodipendenti. Il 15 ottobre un utente ha messo nero su bianco la denuncia. Alla fine in totale sono state sette. L’iter cominciava quando il detenuto faceva richiesta con una lettera di essere ammesso al centro. L’operatore svolgeva un primo colloquio e - è il racconto di chi ha presentato le denunce - scattava la richiesta di denaro.

Di fronte all’opportunità di lasciare il carcere, erano i familiari a pagare. C’era anche un diverso tariffario - sempre secondo l’accusa - in base al tipo di terapia. Quella 24h, che richiede la permanenza nel centro ininterrotta, era inferiore alla 12h, quella che consente al detenuto di trascorrere parte della giornata fuori dalla struttura. La modifica dell’orario degli arresti domiciliari comportava un pagamento compreso fra i 600 e i 1200 euro. Ma la ricostruzione della polizia del commissariato Monteverde non termina qui: la struttura ha diverse convenzioni, ma gli ospiti venivano costretti a pagare i pasti e il metadone previsto dal programma terapeutico. Non solo.

Sostiene l’accusa: le persone in cura erano sottoposte a pressione, visto che gli operatori minacciavano di provocare il rientro in carcere. Ora la parola passa al giudice per le indagini preliminari, che dovrà decidere se esistono i presupposti per il rinvio a giudizio. Da Villa Maraini confermano la fiducia nella magistratura, ma assicurano: "Tutto sarà chiarito, non ci sono mai stati abusi. Purtroppo, gli operatori sono soggetti a ritorsioni quando non fanno altro che il loro dovere". Mauro Evangelisti

Droghe: Villa Maraini, una controinchiesta interna di Massimo Barra

 

Il Messaggero, 31 marzo 2005

 

"Ho svolto una controinchiesta all’interno di Villa Maraini. Guardi, posso anche pensare che fra i nostri ottanta operatori qualcuno possa sbagliare. Ma non in questo caso: sono pronto a mettere la mano sul fuoco per questi sei accusati dal magistrato, sono pronto a giocare la mia faccia".

Massimo Barra nel 1976 fondò Villa Maraini, da allora è in prima linea nella lotta contro la tossicodipendenza: "La nostra è l’unica struttura aperta 24 ore su 24, in un anno assistiamo 3000 tossicodipendenti, circa 300 sono detenuti. I giudici continuano ad avere piena fiducia di Villa Maraini e ci mandano altri pazienti. Bene, noi abbiamo fiducia nella magistratura, rispettiamo le conclusioni del pm. Ma sono certo che al termine del procedimento tutto sarà chiarito".

Non carnefici, ma vittime; non ricattatori, ma ricattati. "In questa storia ci sono molti elementi che colpiscono. Come mai a denunciare sono tutte persone che provengono dallo stesso quartiere? In realtà, l’attività dei nostri operatori è difficilissima, l’abbiamo spiegato anche nel corso di un convegno. Se qualcuno viola le regole dei programmi di disintossicazione devono denunciarlo e queste persone tornano in carcere. Ma a quel punto scattano le ritorsioni. Se invece gli operatori fanno finta di nulla, allora vengono accusati di essere complici dei detenuti.

Fra chi denuncia ci sono anche persone pronte a tutto, dalla dubbia credibilità, c’è chi è stato in manicomio criminale. Purtroppo c’è chi delinque per drogarsi e può essere aiutato; ma c’è anche chi si droga per delinquere e allora la nostra attività diventa ardua. Sono i nostri operatori a essere sotto ricatto, sono loro le vittime. E non certo i carnefici"

Sulmona: l’On. Deiana; il supercarcere dovrebbe essere chiuso

 

Il Messaggero, 31 marzo 2005

 

"Il supercarcere di Sulmona dovrebbe essere chiuso, la patologia nasce dal luogo che è fatiscente, non ha rapporti con l’esterno, ed inoltre è uno degli istituti di pena nel quale vengono mandati i casi più difficili". Lo ha detto la parlamentare di Rifondazione comunista Elettra Deiana, intervenendo sulla vicenda dei numerosi suicidi accaduti in pochi anni nella struttura sulmonese.

Deiana - che domani visiterà il carcere di Sulmona - oggi ha visitato quello dell’Aquila "dove - ha affermato - ho trovato una condizione organizzativa positiva. I detenuti, anche quelli sottoposti al regime del 41bis, non hanno denunciato situazioni di grave disagio sottolineando una certa umanità nei rapporti".

Più in generale, la parlamentare ha denunciato il trattamento "troppo limitativo riservato ai detenuti in regime di 41 bis" e che "c’è la volontà, la tendenza a fare del carcere una discarica dell’umanità". Deiana ha evidenziato "l’ aumento preoccupante della tendenza al suicidio in carcere e la conseguente caduta della attenzioni, da parte delle Istituzioni, nei confronti dei detenuti e dei loro diritti". "A livello generale - ha proseguito - c’è l’incremento del disagio esistenziale, ma a Sulmona, a mio avviso, c’è una patologia che porta alla luce elementi di funzionamento carcerario guasti".

Palmi: celebrazioni in carcere organizzate dai Testimoni di Geova

 

Giornale di Calabria, 31 marzo 2005

 

Nei giorni scorsi, alla presenza dei detenuti che ne hanno fatto specifica richiesta, i Testimoni di Geova hanno celebrato la commemorazione della morte di Gesù nel penitenziario di Palmi. Questa è la prima autorizzazione che ricevono in questa struttura per celebrare questa ricorrenza.

A questo proposito i testimoni, attraverso la voce del loro responsabile dell’Ufficio relazioni pubbliche Giuseppe Battistoni, desiderano ringraziare la direzione del penitenziario nella persona del direttore Oreste Bologna, il comandante Carpino Gianbattista insieme a tutto il personale, per la sensibilità mostrata, dimostrazione dello spirito pluralistico che anima l’intera amministrazione del penitenziario.

I Testimoni di Geova tengono all’interno del penitenziario di Palmi delle considerazioni bibliche che hanno come obiettivo trasformare in meglio gli individui, dando un apporto educativo alla società civile, di insegnamento di principi e di valori. In relazione alla celebrazione del 24 marzo scorso, il giorno prima di morire Gesù istituì una commemorazione della sua morte. Fu una cerimonia semplice. Nella celebrazione, consistita in un discorso nel quale si è riflettuto sul valore della morte sacrificale di Cristo, ci si è avvalsi come fece Gesù nell’Ultima Cena, di pane non lievitato e vino rosso, usati come simboli del suo corpo perfetto senza peccato, e del suo sangue.

Lo scorso anno nelle tremila comunità dei testimoni sparse in tutta Italia hanno assistito alla celebrazione 434 mila persone. Questa è l’unica e la principale celebrazione che i Testimoni di Geova commemorano. Fu Gesù a comandare di ricordarla nel tempo, quando nel corso della celebrazione disse ai suoi discepoli: "Continuate a far questo in ricordo di me". La commemorazione o Ultima Cena del Signore si tiene una volta l’anno, nel giorno corrispondente al 14 Nisan del calendario lunare ebraico, giorno, infatti, in cui Gesù tenne l’Ultima Cena. Per ulteriori informazioni contattare il 339.5934217 o lo 0963.365463.

 

 

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