Rassegna stampa 25 marzo

 

Consulente di Castelli accusato di corruzione: "non c’entro"

 

La Provincia di Lecco, 25 marzo 2005

 

Adesso sì che mi sento in corsa elettorale: mi sembrava strano che non foste ancora arrivati, cominciavo a preoccuparmi" Giuseppe Magni sindaco di Calco, ex consulente del ministro Roberto Castelli per l’edilizia penitenziaria e candidato alle regionali per la Lega, ha accolto così gli agenti della guardia di finanzia che l’altra sera hanno perquisito la sua abitazione, il suo ufficio in Comune, l’azienda e anche l’appartamento di Roma. L’ha presa bene, dice, d’altronde c’è abituato.

"È la mia quarta candidatura e in passato ho ricevuto tre avvisi di garanzia e sempre prima del voto - spiega - e ci tengo a dirlo, ogni volta le accuse sono finite in nulla: mi sembrava strano che questa campagna filasse così liscia". Ieri mattina Magni si è presentato in Comune a Lecco in qualità di presidente del comitato gemellaggi per la cerimonia della firma sull’atto di gemellaggio con la città russa di Mithishj.

Una giornata come tante tranne per quel cellulare impazzito, che squillava in continuazione. Dall’altro capo giornalisti di ogni testata. "Mi avevano assicurato che sarebbe stata una perquisizione formale e tenuta riservata - dice ridendo - e per fortuna. Oggi parlano tutti di me". Ma secondo Magni c’è ancora ben poco da dire. Insieme a lui sono sei gli imprenditori indagati per corruzione dalla procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta su presunte irregolarità legate alla ristrutturazione di sette istituti penitenziari.

Su disposizione del pm Pietro Giordano che ha aperto il fascicolo sulla base degli sviluppi di un’indagine riguardante gli appalti per la realizzazione di strutture della terza Università di Roma, gli uomini del nucleo patrimonio e tutela della guardia di finanza hanno compiuto una ventina perquisizioni in tutta Italia nei confronti di titolari di ditte edili. "L’atto del pm con il quale è stata disposta la mia perquisizione - dice - riguarda in particolare un costruttore di Roma che io conosco , con il quale esco a cena ma con il quale non ho mai lavorato.

Io non mi occupavo di appalti, seguivo gli aspetti burocratici, tenevo i contatti con i sindaci e i presidenti delle province, poi quando la parte amministrativa veniva liquidata la procedura passava al ministero delle opere pubbliche. Quindi oltretutto non sotto il mio ministero". Ma Magni va anche oltre: "Questa mattina mi sono informato a Roma - aggiunge il sindaco - e mi è stato detto che l’ultimo appalto ottenuto dal costruttore romano al quale mi hanno associato risale al 2000, ovvero con il governo del centrosinistra.

A questo punto, se l’informazione fosse confermata, mi chiedo davvero come posso essere coinvolto nelle indagini". Ma che cosa cercavano, cosa hanno portato via? "Non so cosa cercassero - dice - non me l’anno detto salvo un generico "documenti". Hanno preso due cartelline di fogli, vecchi cud della ditta, un’agenda mia e una di mia moglie, un paio di cd con documenti. Io ho aperto loro anche la cassetta di sicurezza per mostrare tutto quello che avevo. Per mia tutela mi è stato nominato un legale d’ufficio". Ma l’ex consulente del ministro è sereno: "Sinceramente non so proprio come questa inchiesta mi possa riguardare - conclude - è relativa a un settore che non mi compete, nemmeno alla lontana. Non posso fare altro che aspettare e vedere come andrà a finire". Lorenza Pagano

Venezia: in vetrina i prodotti dell’artigianato penitenziario

 

Gente Veneta, 25 marzo 2005

 

"Cerchiamo farmacie disposte a ospitare i nostri prodotti di cosmesi con il marchio "Santa Maria degli Angeli", realizzati con le piante aromatiche officinali dell’orto del carcere della Giudecca. E cerchiamo negozianti che vogliano offrirci un angolo del loro negozio dove esporre gli articoli da vendere, per non interrompere una consolidata ed apprezzata attività artigiana".

Questo è un estratto dell’appello rivolto da Raffaele Levorato, storico fondatore della cooperativa "Rio Terà dei Pensieri", ora presieduta da Gabriele Millino e da dieci anni impegnata a fornire occasioni di lavoro ai detenuti della Casa circondariale di Santa Maria Maggiore e alle ospiti del carcere femminile della Giudecca.

La richiesta di accoglienza delle "cose fatte in carcere" giunge dopo che - un anno e mezzo fa - la cooperativa ha perduto lo spazio espositivo del Punto Informativo La Fenice, senza che nessuno si sia fatto carico di predisporre un luogo alternativo.

All’appello si è unito Giuseppe Scaboro, assessore alle Attività produttive della Provincia di Venezia, che a sua volta invita i negozianti ad ospitare a rotazione nelle proprie vetrine i prodotti realizzati dai detenuti. Ma notizia di questi giorni è la prima iniziativa concreta, che proviene da un privato: l’agenzia Kele & Teo che, presso il centralissimo Ponte dei Bareteri, offre alla Rio Terà dei Pensieri una vetrina a tempo indeterminato. "Sono molto grato per questa decisione, spero che molti altri seguano l’esempio di Kele & Teo" dice Levorato.

"Per noi è fondamentale vendere quello che produciamo, avere i magazzini pieni è un disastro, come per qualsiasi attività produttiva". E infatti sembra proprio questo il problema più urgente che assilla la cooperativa, che attualmente può usufruire in modo saltuario del chiosco comunale di San Bortolo. In realtà però le giornate ad essa destinate ammontano - in un totale di dieci anni - a 253, e quindi non sono sufficienti a smaltire le giacenze. Da qui l’inesausta ricerca - appoggiata anche dal Patriarca, aggiunge Levorato - di spazi commerciali.

Un’altra questione spinosa è quella legata al volontariato. Anche qui i numeri sono esigui, e gran parte del lavoro di vendita viene necessariamente assorbito dalle poche agguerrite dipendenti della cooperativa, che si sdoppiano all’interno e all’esterno delle strutture penitenziarie. "Stiamo cercando di costruire una rete, che coinvolga volonterosi sia nel lavoro vero e proprio che nelle attività successive, come la vendita" aggiunge ancora il fondatore della cooperativa, che si muove in tutte le direzioni, cercando di coinvolgere le parrocchie veneziane e non solo: "Ho preso contatti con don Luca Biancafior, a Quarto D’Altino, e lì ho trovato un gruppo di persone che accettano di darci una mano. Ma sono stato a parlare anche ai Carmini, invitato da mons. Brusamento. Prossimamente incontrerò il gruppo degli scout".

C’è da aggiungere che negli anni la cooperativa ha saputo farsi conoscere e apprezzare da molte realtà, tra cui va menzionato l’Hotel Bauer, la cui titolare, Francesca Bortolotto, ha adottato già da tempo i cosmetici "made in Giudecca", e cerca in ogni modo di aiutare la cooperativa: "Lei è una persona straordinaria, un vulcano di idee. Ma credo che ciò che l’ha convinta a sostenere le nostre iniziative sia l’alta qualità dei prodotti che offriamo". Leonardo Mello

Guantanamo: torture e sevizie, forse una nuova Abu Ghraib

 

Ansa, 25 marzo 2005

 

Rischia sempre più di divenire una nuova Abu Ghraib il carcere americano di Guantanamo, oggetto in questi giorni di un’inchiesta. Sotto accusa gli interrogatori ai detenuti, filmati in 500 ore di registrazioni video: interrogati incatenati in posizioni dolorose, obbligati a stare nudi, uso di musiche assordanti e temperature estreme. Ma soprattutto umiliazioni sessuali da parte delle donne che conducono gli interrogatori, con 4 di loro che rischiano ora la corte marziale.

Immigrazione: Cpt, no alla censura sulle "Guantanamo italiane"

 

Liberazione, 25 marzo 2005

 

Contro quel muro di silenzio calato sui centri di detenzione temporanea. Contro le disumane politiche sull’immigrazione. Contro chi da due anni a questa parte ha voluto oscurare con una vera strategia comunicativa i "guantanamo italiani". Le opposizioni, insieme alle ong, alle decine di associazioni impegnate in prima linea sul fronte dell’accoglienza ai migranti hanno accolto l’appello lanciato ai vescovi, ai cittadini e alle istituzioni da dieci sacerdoti italiani per dire un chiaro e netto no alla censura dell’informazione voluta e disposta da Pisanu.

Più di 44 organizzazioni sono scese in campo a fianco dei comboniani e i parlamentari dell’Unione hanno garantito il loro sostegno affinché si ripristini per lo meno la legalità. Violata da una disposizione del Viminale che impedisce ai cronisti e persino ai parlamentari - caso denunciato nel corso della conferenza promossa ieri dalla Fnsi e da Articolo 21 a Montecitorio - di accedere ai Cpt.

Una denuncia che si aggiunge al lutto calato sulle istituzioni dal varo al Senato delle riforme che hanno di fatto affossato la Costituzione. Principi violati come i valori. E le parole, quelle "parole che lasciano impronte" pesano. E in fondo evidenziano la cultura discriminante e razziale perpetrata quotidianamente contro i migranti.

Non a caso viene proposta anche una "campagna di sensibilizzazione al giusto uso delle parole" quando si trattano argomenti legati al mondo dell’immigrazione. Lo sottolinea lo stesso Carlo Cartocci, responsabile immigrazione di Rifondazione. E non si tratta solo di questione di linguaggio. "L’informazione - dice ancora Paolo Serventi Longhi (Fnsi) - apra gli squarci dell’indifferenza voluta su quei veri lager italiani che sono i centri di detenzione temporanea".

O sarebbe meglio chiamarli centri di detenzione temporanea, aggiunge Stefano Mencherini, giornalista, coordinatore del dibattito, autore di quel documentario "Mare nostrum" che ha tentato di far luce sul dramma vissuto da centinaia di persone rinchiuse in condizioni disumane nei Cpt. Una quotidianità grave - stigmatizza padre Giorgio Poletti dei comboniani - vissuta sulla pelle di chi non ha alcun diritto per il solo fatto di essere un migrante.

E i fatti che continuano ad accadere in quei Cpt sono sempre più drammatici. Al "Regina pacis" di San Foca, l’ennesimo tentativo di fuga è finito nel sangue. E da una finestra simile a quella dove pochi mesi prima si è gettato un giovane moldavo rimanendo a vita senza l’uso delle gambe, hanno tentato la fuga altri migranti. Il risultato? Lo stesso di sempre: repressione poliziesca e arresto di chi non voleva farsi di nuovo rinchiudere.

Perché di carceri si tratta. Ieri dai parlamentari dell’opposizione è stata presentata anche un’interrogazione a risposta urgente al premier e a Fini sulle condizioni di vita all’interno del Cpt di Lampedusa. Centro nel quale - sottolineano le senatrici De Zulueta (Verdi) e Acciarini (Ds) - è stato loro vietato l’ingresso. In violazione alla stessa convenzione di Ginevra è stato rifiutato l’accesso persino al rappresentante dell’alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur). Nell’interrogazione viene inoltre chiesto di sapere quale tipo di accordo sull’immigrazione sia stato fatto con la Libia. A continuare sono le deportazioni in luoghi dove non vengono rispettati i più elementari diritti umani. Nel mirino dei sacerdoti che hanno lanciato l’appello non c’è solo la "Bossi-Fini" ma anche la "Turco-Napolitano". E la Chiesa che non si oppone a leggi ingiuste. E quell’indifferenza dei parlamentari - aggiunge don Alessandro Santoro, parroco di Firenze - su un vero vulnus della democrazia.

A promettere un maggiore impegno è Achille Occhetto. Alfiero Grandi (Ds) sottolinea l’auspicio di "attuare una serie di iniziative strategiche fra parlamentari e operatori per costruire le condizioni di un nuovo quadro politico". A partire dalla "Bossi-Fini" che non può che essere abrogata. Un punto dal quale non si può prescindere è proprio tentare di costruire un nuovo quadro politico da attuare quando - almeno questo è l’auspicio - saranno le opposizioni a governare. Parlare di Cpt, delle condizioni disumane in cui versano i migranti. E consentire l’accesso ai giornalisti in quei centri è necessario. Si tratta di una battaglia di civiltà. Castalda Musacchio

Giustizia: islamici scarcerati, il Gup Forleo querela due ministri

 

L’Avvenire, 25 marzo 2005

 

Assolta? Non assolta? Comunque al contrattacco. È giallo sulle decisioni degli ispettori del ministero della Giustizia, incaricati dal Guardasigilli Castelli di compiere accertamenti sulla sentenza con cui il Gup di Milano Clementina Forleo ha assolto tre estremisti islamici dall’accusa di terrorismo internazionale. Secondo indiscrezioni riferite dall’agenzia Ansa, gli ispettori ritengono che la decisione del magistrato è senz’altro basata su un’interpretazione discutibile della norma, ma da un primo esame il provvedimento non presenta "abnormità censurabili sotto il profilo disciplinare".

Assolta dunque? In serata arriva una secca correzione di Castelli. "Le notizie diffuse sono prive di fondamento. Il fascicolo è sul tavolo del Ministro e solo il Ministro ne conosce l’esatto contenuto". Giallo, insomma. Quel che è certo è che ieri la Forleo è passata al contrattacco e, poco prima che uscissero le indiscrezioni sulla decisione degli ispettori ministeriali, il suo avvocato Giulia Bongiorno (molto nota per essere stata uno dei legali "vincenti" di Giulio Andreotti) ha presentato querela per diffamazione contro i ministri Roberto Calderoli e Maurizio Gasparri che l’avevano duramente criticata per la sua sentenza. Analogo atto di querela è stato presentato nei riguardi del coordinatore di Forza Italia Fabrizio Cicchitto e del Presidente della Commissione esteri della Camera Gustavo Selva.

"Le accuse di disonestà e di scorrettezza mosse a un magistrato ne sgretolano l’autorevolezza - ha spiegato l’avvocato Bongiorno -. Per questo era indispensabile reagire in sede giudiziaria". Querela, dunque, e automaticamente i quattro politici della CdL risultano indagati dalla Procura di Roma, alla quale la Forleo ha presentato querela. La relazione degli ispettori, sempre secondo le indiscrezioni, è stata conclusa in pochi giorni e a scriverla è stato lo stesso capo dell’Ispettorato del ministero, Giovanni Schiavon.

Ora spetterà a Castelli, sulla base di questa relazione, decidere di soprassedere, o di avviare ugualmente un’azione disciplinare, oppure di incaricare i suoi ispettori di approfondire il caso con una vera e propria inchiesta. Le conclusioni degli accertamenti preliminari degli ispettori ministeriali si basano, infatti, solo sull’analisi della sentenza del Gup e della richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla procura di Milano.

Nella relazione di Schiavon non mancherebbe un apprezzamento negativo per una decisione che, come è stato detto anche dalla procura di Milano, muoverebbe da un’interpretazione discutibile della norma. Ma poiché la questione riguarda proprio l’interpretazione, restano quei margini di discrezionalità che possono essere censurabili attraverso l’impugnazione della sentenza ma non in sede disciplinare. Caso chiuso? La secca smentita di Castelli dimostra che per il ministro non lo è. E che, molto probabilmente, chiederà un approfondimento. Antonio Maria Mira

Giustizia: Castelli, esaminerò personalmente il "caso Forleo"

 

Ansa, 25 marzo 2005

 

"Non vi è alcuna decisione in merito, il fascicolo sta sulla mia scrivania e lo leggerò personalmente". È questa la risposta del ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ai giornalisti che gli chiedevano conferma di una possibile assoluzione da parte dei suoi ispettori che hanno indagato sul giudice Clementina Forleo.

Riguardo alla azione disciplinare nei confronti del giudice indagato per aver scagionato alcuni presunti terroristi islamici, Castelli ha aggiunto: "secondo i termini costituzionali l’azione spetta al ministro e soltanto lui può esercitarla, se poi lo fa direttamente o attraverso gli ispettori è un’altra questione, ma io sono il dominus costituzionale dell’azione disciplinare".

Castelli, riferendosi a quanto apparso sui giornali ha sottolineato: "confermo ufficialmente che i bene informati dei giornali questa volta hanno toppato, non vi è alcuna decisione in merito, il fascicolo sta sulla mia scrivania e lo leggerò personalmente".

Lecce: don Cesare Lodeserto ottiene gli arresti domiciliari

 

Ansa, 25 marzo 2005

 

Il gip di Lecce ha concesso gli arresti domiciliari a don Cesare Lodeserto, il responsabile del centro di accoglienza Regina Pacis. Il sacerdote venne arrestato l’11 marzo con l’accusa di abuso dei mezzi di correzione, sequestro di persona, calunnia e minaccia volta a commettere reato. Don Cesare sarà presto trasferito dal carcere di Lecce, dove è tuttora detenuto, all’Abbazia dei Benedettini di Noci (Bari) dove trascorrerà il periodo di detenzione domiciliare.

Roma: incontro tra polizia e garante regionale dei detenuti

 

Asca, 25 marzo 2005

 

La procedure per il rilascio dei permessi di soggiorno ai detenuti stranieri in carcere e la questione dei pareri che la Polizia di Stato deve redigere sui detenuti che potrebbero ottenere dei benefici. Sono questi gli argomenti più importanti affrontati nell’incontro che il Garante regionale dei diritti del detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ha avuto con il dirigente della Divisione della polizia Anticrimine della Questura di Roma Felice Addonizio. L’incontro - informa un comunicato - era stato richiesto dall’Ufficio del Garante dei detenuti allo scopo di "rendere ancor più stretti e collaborativi i rapporti con la Polizia di Stato".

Sulla questione dei permessi di soggiorno, Marroni ha evidenziato la necessità di "avere celermente questi documenti per i detenuti che hanno la possibilità di chiederli". Sulle relazioni necessarie ad ottenere i benefici di legge, il Garante ha chiesto "una attenzione particolare sull’esprimere giudizi sui detenuti che potrebbero beneficiarne". Sui permessi di soggiorno, Addonizio ha replicato che la Questura è sempre disponibile ad esaminare di volta in volta, nel caso di istanze provenienti dai detenuti, i casi che saranno segnalati.

Per quanto riguarda le relazioni necessarie all’ottenimento dei benefici di legge, Addonizio ha invece sottolineato come più organi esprimano pareri al riguardo e che sarebbe auspicabile raggiungere un più significativo momento di scambio di informazioni fra gli stessi.. L’incontro si è concluso con una dichiarazione comune "alla massima collaborazione reciproca fra le due istituzioni".

Milano: Moratti, in visita a San Vittore, parla di calcio e euroderby

 

Vivimilano, 25 marzo 2005

 

"L’Inter ha troppe amnesie in difesa e durante le partite capitano fatti inspiegabili: considerata l’età della linea difensiva nerazzurra non sarebbe il caso di programmare in futuro di abbassare l’età media dei calciatori?". La domanda di Andrea (usiamo un nome di fantasia) è solo una delle tante rivolte a Massimo Moratti (per tutti ancora e sempre il presidente nerazzurro) che ha partecipato ieri a un incontro con i detenuti nel terzo raggio (detto Grand Hotel) del carcere milanese di San Vittore. Realizzato nell’ambito di "Parliamo di sport, civilmente", l’iniziativa nata un mese fa grazie alla polisportiva del penitenziario è una sorta di dibattito tra detenuti e grandi personaggi dello sport che parlano appunto di sport civilmente.

All’esordio con Candido Cannavò (per 19 anni direttore della Gazzetta dello Sport) in prima linea in questo progetto c’era per esempio Bruno Pizzul storica voce della Rai e alle tappe successive hanno partecipato giornalisti come Alberto Cerutti (Gazzetta dello Sport) e Umberto Zapelloni (Corriere della Sera). Così ieri i detenuti di fede nerazzurra si sono sbizzarriti e Massimo Moratti, al tavolo con l’immancabile Cannavò, Gianni Mura (Repubblica) e Nicola Cecere (Gazzetta dello Sport) ha risposto a tutti: spiegando che "invecchiare" la squadra è servito a garantire maggior sicurezza, ha poi parlato dei singoli giocatori da Recoba (tra i suoi preferiti) a Carini (secondo portiere) da Cordoba a Cambiasso e Martins un giovane su cui riporre speranza anche in futuro sottolineandone soprattutto le doti caratteriali.

Bologna: presentata una ricerca sui senza fissa dimora

 

Redattore Sociale, 25 marzo 2005

 

Anche chi vive in strada ha bisogno, oltre che di itinerari di sopravvivenza, di relazionarsi con gli altri, di attenersi agli orari (quelli delle mense per i poveri ad esempio) e di conservare un minimo di rispetto per se stesso. È quanto emerge da "La vita di giorno, i contesti territoriali dei senza fissa dimora", una ricerca qualitativa realizzata dal centro sociale Giorgio Costa, dall’associazione Amici di Piazza Grande, dalla parrocchia Santi Filippo e Giacomo e dall’associazione Parco della Manifattura Tabacchi, in collaborazione con il Centro servizi per il volontariato della provincia di Bologna, e presentata ieri durante un incontro con il sindaco Sergio Cofferati nel quale è stato da più parti sollecitato il Comune, affinché si faccia promotore di una tavolo per discutere le difficoltà del territorio in tema di esclusione sociale.

Lo studio, condotto tra maggio 2004 e gennaio 2005, ha coinvolto la zona del quartiere Porto, la stazione, il dormitorio in via dè Carracci e alcune altre parti della città dove sostano di solito i senza tetto. Chi vive in strada non è, come il senso comune crede, una persona completamente allo sbando, incapace di socializzare e di seguire regole; far luce sulle interazioni che esistono tra senza fissa dimora e ambiente sociale in cui vivono e su come essi riescono a dare un senso alla loro vita è stato quindi l’obiettivo dell’indagine, che ha riguardato principalmente i senza tetto "tradizionali", cioè i cittadini italiani privi di alloggio e con problemi di disagio sociale, tralasciando le forme di vita in strada legate più direttamente all’immigrazione straniera, allo spaccio, alla microcriminalità e al fenomeno dei "punkabbestia".

"L’idea che mi sono fatto - dice uno degli operatori dell’associazione Amici di Piazza Grande - è che chi sta in strada ha un’agenda molto fitta, è molto impegnato perché per procurarsi da mangiare, ad esempio, passa da una mensa all’altra e ognuna ha i propri orari". Per sopravvivere, dunque, è necessario che i senza tetto si dotino di una mappa dei servizi di accoglienza della città, che non sono solo luoghi dove cercare cibo, vestiti, un letto o una doccia, ma che sono anche spazi dove poter scambiare due parole.

Ognuno si crea quindi il proprio itinerario di sopravvivenza, ma anche di relazioni sociali, e, con il passare del tempo, subentrano forme di adattamento e di progressiva accettazione della propria condizione di vita. Sono questi forse i risultati più interessanti della ricerca che, dall’altro lato, ha coinvolto anche i cittadini, i commercianti e i supermercati della zona che sta intorno alla ex Manifattura Tabacchi. "In negozio vengono per chiedere una sigaretta, una brioche o un panino e allora io gliela allungo", dice il titolare di un bar. Più complesso, invece, il rapporto con i residenti o i passanti, il cui atteggiamento è a metà strada tra la solidarietà e l’indifferenza e la cui conoscenza del fenomeno è molto superficiale: alcuni pensano che si tratti di vere e proprie scelte di vita, altri invece parlano addirittura di colpe che hanno portato il senza tetto al fallimento individuale. In questo quadro, i senza fissa dimora hanno difficoltà a pensarsi come soggetti alla pari, preferendo invece interpretare il rapporto che si viene a creare con la cittadinanza in un’ottica soprattutto strumentale.

Ma "La vita di giorno" fornisce anche alcuni dati ufficiali. Secondo le statistiche disponibili sul sito dell’Osservatorio epidemiologico dell’Ausl di Bologna e in base alle cifre raccolte dal servizio mobile di sostegno dell’associazione Amici di Piazza Grande, le strutture di accoglienza attive sul territorio bolognese hanno ospitato, nel 2004, 566 persone senza fissa dimora. L’età media degli ospiti di queste strutture è di 40 anni, l’82,5% sono uomini, l’88% sono cittadini italiani (anche è difficile stimare il numero di cittadini stranieri che vivono in strada perché spesso i servizi non possono accogliere le persone senza regolare permesso di soggiorno), il 41% è tossicodipendente o presenta problematiche di disagio sociale (31%).

Sommando il numero di posti letto nei ripari bolognesi (285, ipotizzando che siano sempre tutti occupati), i contatti notturni in strada del servizio mobile di Piazza Grande (60-70) e il numero di persone straniere senza tetto (120-200), si può pensare che siano presenti giornalmente in città circa 500 persone che vivono all’addiaccio. (mt)

Padova: ogni detenuto costa allo Stato 250 euro al giorno

 

Il Gazzettino, 25 marzo 2005

 

Ben 51 milioni di euro: ecco il risparmio dello Stato se la recidiva dei detenuti nelle carceri italiane diminuisse solo dell’uno per cento. Perché ora l’80% di chi subisce una prima pena, ritorna presto in carcere. I costi per la collettività sono ingenti: lo Stato spende in media per ogni detenuto 250 euro al giorno. E la soluzione più convincente per recuperare risorse e tagliare queste immense spese è il lavoro.

Nel carcere penale Due Palazzi di Padova, per esempio, sono sorte varie esperienze. L’ultima è un call center telefonico. Un tipo di lavoro per cui gli istituti di pena sembrano adatti per il minore turn over degli operatori e grazie alle tecnologie odierne per gestire nella massima sicurezza la comunicazione. C’è già un’altra esperienza operativa a San Vittore, gestita da Telecom, che sta dando buoni risultati. Anche a Padova le premesse sono interessanti. Le prenotazioni delle visite specialistiche in ospedale, ad esempio, passeranno per via Due Palazzi: il carcere ospiterà una cellula di supporto del Centro di prenotazione dell’Azienda sanitaria locale e dell’Azienda ospedaliera di Padova. Il call center è attrezzato anche per gestione di numeri verdi o concorsi a premi, assistenza tecnica, indagini, sondaggi e telemarketing.

Un altro esempio di attività già funzionante tra le mura del penitenziario padovano è la ristorazione. Ma l’orizzonte non si limita al perimetro delle mura carcerarie: dalla casa di detenzione potrà prendere il via un servizio di catering per ospizi, istituti ospedalieri e comunità. Così nel corso degli anni la coop. Giotto ha affinato la sua capacità di far dialogare i soggetti più diversi e di progettare interventi su misura, andando a scovare le nicchie di mercato più adatte al lavoro dei detenuti. Il duplice laboratorio per la realizzazione di manichini che ora ha sede nel carcere padovano ne è un ulteriore esempio. Ma l’importanza del lavoro esterno è ancora maggiore perché permette ai detenuti di crearsi un curriculum utilissimo una volta scontata la pena per rientrare a pieno titolo nella società.

 

Chi non crede all’importanza sociale del reinserimento

 

Chi non crede all’importanza sociale del reinserimento dei detenuti può fare due conti e si convincerà subito del ritorno economico: ogni carcerato costa allo Stato 250 euro al giorno. In Italia ci sono 58.000 persone in carcere che pesano sulla collettività per 15 milioni di euro al giorno. In un anno la spesa è di 5 miliardi e mezzo di euro ovvero centomila miliardi di vecchie lire. Una enormità cui aggiungere le altre spese già varate: 30 milioni di euro per il nuovo carcere di Rovigo, per fare solo un piccolo esempio.

Ancora più pesanti sono i dati sulla recidiva: l’80% dei detenuti, una volta scontata la pena, torna a delinquere e rientra in carcere per periodi più lunghi. L’impegno delle 5 cooperative sociali attive nel Padovano nel settore del recupero di detenuti ha permesso di ridurre la recidiva al 15-20% portando un risparmio alla collettività di svariati milioni di euro.

Il presidente della cooperativa Giotto, Nicola Boscoletto, snocciola questi dati senza grande entusiasmo (lui crede più alla funzione sociale del proprio impegno). Ripete quei dati soltanto per far capire l’enorme importanza dei reinserimenti lavorativi, ma poi s’illumina presentando i suoi sette "campioni": sono i carcerati che hanno seguito il corso professionale ed ora lavorano regolarmente al Cimitero Maggiore (un mestiere ritenuto minore, ma di grande importanza visto che si occupano del decoro di un luogo tanto delicato). I "campioni" della Giotto hanno una media di 40 anni ("un’età in cui è difficile trovar lavoro anche per chi non ha precedenti penali, figuriamoci per loro"). Il più giovane è il tunisino Moncef, 33 anni, il decano è Luigino Gasparini, il 59enne di Trento che ha appena finito di scontare 11 anni per uxoricidio. Con loro lavorano altri tre italiani (ieri rientrati a casa in permesso premio per Pasqua), il marocchino Driss e il nigeriano Wilfred padre di 4 figli (dai 10 anni in giù, tutti ancora a Lagos con la madre).

Stanno finendo di pagare i loro debiti con la Giustizia e grazie alla cooperativa Giotto lavorano all’esterno del carcere e possono puntare a un reinserimento sociale. Ieri si sono presentati nella sala Rossini del caffè Pedrocchi di Padova e hanno spiegato l’importanza dell’attività della cooperativa: "Per noi è fondamentale avere un lavoro - hanno detto all’unisono - perché siamo vicini al termine della pena e non avremmo prospettive una volta fuori dal carcere".

Vien da chiedersi se nessuno dei compagni di cella suggerisce loro di fuggire approfittando del lavoro all’esterno: "Non avrebbe senso - spiegano - perché non risolverebbe i problemi a noi e ne creerebbe di grandi a chi è ancora dentro e anche alla cooperativa che ci ha tanto aiutato dandoci un contratto di lavoro".

La stessa coop. Giotto affianca i (semi)detenuti ad altri addetti, ma soprattutto sceglie attentamente i carcerati cui dar questa grande chance. "E in 13 anni di attività di questo tipo abbiamo avuto centinaia di carcerati impegnati all’esterno - conclude Boscoletto - e un solo caso di mancato rientro (anni fa per motivi familiari un trentenne fuggì per vedere il figlio e fu subito ripreso). Vorremmo dare possibilità a tanti altri disadattati, ma per questo abbiamo bisogno della collaborazione di tutte le realtà che operano nel "Pianeta carcere" e ovviamente di partner disposti ad accettare la nostra forza lavoro".

Il comune di Padova (in particolare gli assessori Sinigaglia e Scortegagna) ha accettato la sfida, ma è da 13 anni che collabora con le cooperative sociali anche per la raccolta rifiuti e nel settore verde pubblico. Fra i più soddisfatti dei risultati sin qui ottenuti c’è poi il direttore del Due Palazzi, Salvatore Pirruccio, ieri trattenuto all’interno del carcere dall’improvvisa visita di un alto magistrato. Per una volta i ruoli si sono invertiti: lui è rimasto dentro e i "suoi" detenuti fuori. Gigi Bignotti

Padova: la coop. sociale Giotto, da nove amici a 180 persone

 

Il Gazzettino, 25 marzo 2005

 

La Giotto è una Cooperativa sociale nata negli anni 80 a Padova. Si occupa dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, in particolare disabili e detenuti. Le attività spaziano dalla progettazione, realizzazione e manutenzione del verde alla gestione di parcheggi, dalle pulizie civili e industriali al settore dei rifiuti, dalla gestione dei servizi museali alla produzione di prodotti artigianali e alla ristorazione. Lavora per le amministrazioni pubbliche (quali ulss, comuni, province, aziende municipalizzate, consorzi di bonifica), le imprese e i privati, prevalentemente nel territorio della Regione Veneto, grazie alla presenza delle sedi di Padova e Chioggia.

"Dalle 9 persone iniziali e fondatori della Cooperativa ora siamo una realtà di 180 dipendenti - spiega il presidente Nicola Boscoletto - di cui oltre 30% sono persone svantaggiate, in particolare disabili e detenuti. Si tratta di una crescita maturata negli anni che ci ha permesso di far entrare nella nostra squadra professionalità di diverse provenienze". La Cooperativa conta al suo interno 13 laureati in discipline economiche, di ingegneria, agrarie e forestali, scienze sociali, che coordinano i diversi progetti e settori di intervento.

 

La storia

 

Luigino Gasparini aveva lanciato un appello tramite il Gazzettino il 7 gennaio scorso: il suo "messaggio nella bottiglia" è stato raccolto dalla Cooperativa sociale Giotto che ha salvato il 59enne operaio trentino accogliendolo appena uscito dal carcere.

Il presidente Nicola Boscoletto gli ha dato fiducia e lo ha fatto... tornare dietro le sbarre, ma solo per imparare un lavoro. Luigino non è uno dei tanti casi di recidiva (l’80% in Italia tornano a delinquere una volta scontata la pena) e anzi la sua storia è un grande esempio di recupero sociale. L’ha raccontata ieri in sala Rossini a margine dell’incontro sul corso per operatori cimiteriali.

"Ho pagato il mio debito con la Giustizia restando in carcere oltre 10 anni. Una volta uscito con le misure alternative mi barcamenavo fra le cucine popolari e il dormitorio, ma nessuno mi dava un lavoro. Sono quindi tornato a "frequentare" il carcere per seguire il corso organizzato dalla Giotto e dal Comune. Adesso ho un lavoro che mi piace e potrò forse prendere un affitto un monolocale per rifarmi una vita".

La sua vita e quella della sua famiglia - ha una figlia di 32 anni ma non vede mai - è stata stravolta il 6 aprile di 11 anni fa. Viveva in una casa popolare in Trentino a Mezzocorona: pochi giorni prima l’azienda in cui lavorava era fallita. Durante una furiosa lite con la moglie - pare per motivi di gelosia (lui non vuole approfondire) - Luigino la prese per il collo e la soffocò in un raptus di follia omicida. Poi chiamò i carabinieri e confessò il delitto.

Aveva 48 anni e ne ha trascorsi undici al "Due Palazzi" di Padova (la sua famiglia è originaria dell’Alta). Ora è uscito per buona condotta e la Giotto l’ha adottato: "Il suo pentimento fu immediato e in questi 11 anni s’è sempre comportato bene. Alla sua età sarebbe impossibile trovare un lavoro: è uno dei casi di disagio sociale facile preda della microcriminalità. Invece è fra i più impegnati nel lavoro al cimitero insieme agli altri 6 suoi colleghi".

Luigino vorrebbe trovarsi una compagna e spiega di essere un tipo mite nonostante quel precedente e il fatto di aver fatto lotta greco-romana da ragazzo: "A 19 anni vinsi i campionati regionali, ma oggi sono vecchio e solo; spero di mettere da parte qualche soldo per la pensione".

La Giotto è una cooperativa sociale nata a fine anni 80 a Padova. Si occupa dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, in particolare disabili e detenuti. "Da 9 fondatori siamo saliti a 180 dipendenti - spiega Boscoletto - di cui oltre 30% sono persone svantaggiate. Si tratta di una crescita maturata negli anni che ci ha permesso di far entrare nella nostra squadra professionalità di diverse provenienze. Dobbiamo ringraziare gli enti e le aziende (a cominciare da Comune di Padova e Aps) che continuano ad affidarsi a noi". "L’indice di soddisfazione degli utenti destinatari dei servizi della Giotto - hanno spiegato ieri l’assessore comunale Claudio Piron e l’ad di Aps Franco Giacomin - è altissimo e quindi continueremo a commissionare servizi alla cooperativa anche per l’importante funzione sociale che svolge in tutto il Veneto". Gigi Bigotti

Roma: detenuto beve acido muriatico, è in gravi condizioni

 

Ansa, 25 marzo 2005

 

Detenuto nel carcere di Civitavecchia, Nicolae T., 35 anni rumeno, tenta il suicidio bevendo acido muriatico. Ora è ricoverato all’Aurelia Hospital in prognosi riservata. L’uomo era stato arrestato due settimane fa, dai carabinieri di Campo di Mare, per non aver ottemperato a un provvedimento di espulsione. Le condizioni dell’uomo sono apparse subito gravi. È stata chiamata un’ambulanza e avvertiti i carabinieri. I medici l’hanno sottoposto a una serie di terapie. Indagini sono in corso.

Tibet: noi prigionieri nell’inferno delle carceri cinesi…

 

L’Eco di Bergamo, 25 marzo 2005

 

"La rabbia che provo nei confronti dei miei aguzzini mi aiuta a portare avanti la mia lotta". Parole di Ngawang Sangdrol, monaca tibetana ventisettenne, che, dal 1990 alla sua scarcerazione, ha scontato undici anni come prigioniera politica, per aver pronunciato slogan per l’indipendenza del Tibet dall’occupazione cinese. Undici anni di torture, dunque, subite durante la detenzione, che Sangdrol ha raccontato, aiutata da un’interprete, al numeroso pubblico accorso per ascoltare la sua testimonianza nella sala dell’Unione nazionale femminile di Milano.

"La mia non è vendetta contro la Cina. Il buddismo e il Dalai Lama mi insegnano a non odiare i nemici, ma sono un essere umano e tanta comunque è la rabbia per essere stata continuamente picchiata e torturata e per aver visto lo sterminio dei tibetani". Affermazioni che giungono dal ricordo di un passato che corre parallelamente al boom economico, tecnologico e demografico della Cina, futura superpotenza, ma che in temi di diritti umani è agli ultimi posti nella classifica mondiale. Sangdrol racconta che, nonostante l’età, - è finita dietro le sbarre per la prima volta nel 1990 a tredici anni - è stata sottoposta dai funzionari cinesi ad ogni tipo di tortura e privazione. "Ci picchiavamo - ricorda - con catene, tubi, pietre e bastoni elettrici. Dovevamo tenerli tra le mani o in bocca o su qualunque altra parte del corpo e le scosse erano fortissime. Appena varcata la soglia del carcere mi hanno sollevato a testa in giù e battuto ripetutamente il capo per terra". Dolore e umiliazioni non hanno piegato Sangdrol, convinta che "recuperare le nostre tradizioni culturali e professare la nostra religione è una ricchezza per tutto il mondo e non solo per i tibetani, che dal 1950 vivono come cittadini di serie B, in una sorta di apartheid, frustrati, senza diritti e senza lavoro".

"È grazie ad Amnesty International e alla mobilitazione internazionale se sono stata rilasciata, inaspettatamente, il 17 ottobre del 2002, dopo aver scontato più della metà dei venti anni inflitti per aver reso manifesta la mia opinione. Ora, al contrario di altri prigionieri politici tibetani ammazzati durante la detenzione, sono qui a raccontare la mia esperienza". "Fin da piccola - continua la monaca tibetana - avevo sentito dai miei genitori della violenza che subivamo dal regime cinese. Crescendo, non potevo più stare zitta, dovevo esprimere le mie idee". Idee che Sangdrol ha pagato care: "Nelle carceri cinesi non c’è nessuna differenza di trattamento tra uomini e donne, bambini e vecchi: ci picchiano con la stessa ferocia. Non possiamo pregare e siamo condannati alla "rieducazione attraverso il lavoro"".

"Non vengono assicurati - incalza - il cibo né l’acqua. Quando chiedevamo da bere, per tutta risposta, ci aprivano un rubinetto per farci sentire l’acqua scorrere, senza poterne avere una goccia". Tante le vessazioni subite dietro le sbarre, perché Sangdrol ha un atteggiamento da irriducibile: non si piega ad ossequiare i funzionari cinesi, aderisce a manifestazioni di protesta interne al carcere, riesce a far uscire dal luogo di pena una musicassetta su cui ha inciso canti e preghiere per l’indipendenza del Tibet. E allora la carcerazione si fa più pesante nella cella di isolamento, la pena aumenta e doppia è la razione di botte, fino a sanguinare. Per ore, poi, è costretta a stare immobile nella neve o in piedi sotto la pioggia o sotto il sole, tenendo sulla testa in equilibrio un libro o un bicchiere d’acqua, mentre i "torturatori" la provocano in tutti i modi per poter aumentare la dose di pugni, calci, bastonate… fino al punto che "il cortile è imbrattato di sangue". Immagini di rara crudezza passano nella mente dei presenti, mentre Sangdrol parla. E il pensiero va a tutti i detenuti politici e gli attivisti non violenti oppressi nel mondo da poteri brutali. Gabriella Persiani

Immigrazione: Federazione Stampa Italiana; trasparenza sui Cpt

 

Il Manifesto, 25 marzo 2005

 

"Chiediamo che ai giornalisti sia permesso visitare i centri di permanenza temporanea dove vengono rinchiusi gli immigrati per 60 drammatici giorni. A volte anche per un tempo maggiore. Che ci sia permesso di raccontare le loro storie, documentare cosa accade. I giornalisti hanno il diritto-dovere di fare informazione, ed è per questa libertà che ci battiamo". Parola del segretario della Federazione nazionale della stampa, Paolo Serventi Longhi.

L’Fnsi, insieme all’Associazione Articolo 21, scende finalmente in campo per chiedere che i cpt siano aperti a telecamere e microfoni. Sin dal 1998, anno di approvazione della legge Turco-Napolitano che sancì la nascita dei cpt, l’opacità è stata una caratteristica essenziale di queste strutture. Cosicché se nelle carceri è possibile entrare e parlare con i detenuti non è possibile fare altrettanto nei cpt, dove non sono rinchiuse persone che hanno commesso reati penali. Un vero e proprio paradosso, finora scarsamente denunciato dalle rappresentanze dei giornalisti - come ha sottolineato Stefano Mencherini, uno dei cronisti incappato nel muro di gomma della gestione dei cpt durante la realizzazione del suo film incentrato sul Regina Pacis di Lecce.

Neanche a farlo apposta nelle stesse ore in cui alla Camera dei Deputati l’Fnsi lanciava il suo appello, il ministro dell’interno Pisanu rilasciava interviste sull’"informazione troppo faziosa" che si sarebbe sviluppata attorno al caso dei ponti aerei partiti da Lampedusa verso la Libia. Il ministro si riferiva alle informazioni trapelate sul "richiamo" di Bruxelles all’Italia. "Nessun richiamo", ha assciurato Pisanu - che comunque invierà una relazione alla Commissione europea. E guai a chi si azzarda a scriverlo.

Eppure nell’ambito dell’iniziativa dell’Fnsi, si è discusso del fatto che la scorsa settimana, a Lampedusa, l’ingresso nel cpt dell’isola è stato negato sia alle senatrici Tana De Zulueta (Verdi) e Maria Chiara Acciarini (Ds) che al rappresentante in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Acnur). A questo proposito Acciarini ha presentato un’interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio e al ministro Pisanu.

Al titolare del dicastero dell’interno si è rivolto anche il gruppo di religiosi che ieri mattina ha presentato una "lettera aperta ai vescovi e ai credenti". Tra i firmatari, diversi rappresentanti dei Comboniani, don Alessandro Santoro della Comunità di base delle Piagge e don Gallo, della comunità di San Benedetto di Genova.

La lettera, che invita la Chiesa a denunciare le condizioni dei centri di permanenza e la "gestione disumana" delle politiche sull’immigrazione, è stata sottoscritta dai partiti di centrosinistra e da 44 ong. "I politici italiani di fede cattolica - ha sottolineato Don Albino Bizzotto dei Beati costruttori di pace - vivono in una totale schizofrenia. Non è possibile ammantarsi del titolo di cristiano e poi ordinare dei respingimenti collettivi, come fa il ministro Pisanu". Un analogo invito è stato rivolto alle realtà del terzo settore "che si ispirano a Gesù" affinché si rifiutino di gestire luoghi come i centri di permanenza temporanea. Cinzia Gubbini

 

 

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