Rassegna stampa 8 gennaio

 

Napoli: Secondigliano uccide, nuovo morto nel penitenziario

 

Il Manifesto, 8 gennaio 2005

 

Morte misteriosa di un detenuto del carcere di Secondigliano. Domenico Del Duca, classe 1978, fine pena nel 2007, è deceduto il 23 dicembre presso l’ospedale Cotugno, dove era arrivato, in coma, il giorno prima, proveniente dal secondo istituto di pena della città. La notizia è trapelata solo in questi giorni grazie al passaparola di radio carcere. Sulla sua morte è sino ad oggi regnato il completo silenzio (ne parla oggi Metrovie, l’inserto campano del manifesto).

Del Duca, sieropositivo, immunodeficiente, era ricoverato nel centro clinico del carcere da settembre. Proveniva da un anno di internamento nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, perché soffriva di disturbi mentali. La notte del 21 dicembre si è barricato in cella, per un motivo apparentemente banale, una sigaretta negata.

Gli agenti di polizia penitenziaria decidono di fare irruzione e utilizzano gli idranti per riportare l’ordine. La cella viene inondata di acqua e ruggine, così come il suo occupante. Il ragazzo viene trasferito nella cella liscia, priva di ogni suppellettile, di un altro reparto. La mattina del 22 viene trovato in coma di primo grado dal medico di turno che ne dispone l’immediato ricovero in una struttura ospedaliera. Del Duca viene trasferito, sembra solo dopo alcune ore, presso l’ospedale Cotugno, specializzato per le patologie da Hiv, dove muore, il giorno successivo senza riprendere conoscenza. Il suo referto parla di morte causata da crisi cardio-respiratoria (polmonite fulminante?), ma sul corpo non è stata disposta alcuna autopsia, indispensabile per chiarire i fatti. Non risulta che la Procura di Napoli abbia aperto un’inchiesta, né che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ne abbia disposto una interna per verificare le modalità dell’intervento degli agenti ed eventuali responsabilità.

La morte di Del Duca è la quinta avvenuta nel carcere negli ultimi mesi del 2004. Nell’estate scorsa sono deceduti tre detenuti, tra cui Francesco Racco, che al momento della morte pesava appena 39 chili. Il 18 novembre, un detenuto di 31 anni, Francesco Pirozzi è morto di overdose all’interno del penitenziario.

Laureana di Borrello: corso di alfabetizzazione al "Luigi Daga"

 

Quotidiano di Calabria, 8 gennaio 2005

 

Sono iniziati da alcuni giorni presso l’Istituto sperimentale a custodia attenuata "Luigi Daga" di Laureana, i corsi di alfabetizzazione e per il conseguimento della licenza media riservati ai giovani detenuti dell’istituto.

La direzione didattica "L. Garcea", la scuola media "G.B. Marzano" e la direzione carceraria, guidate rispettivamente dalla dott.ssa Proto, dal prof. Laruffa e dalla dott.ssa Marcello, hanno elaborato un progetto didattico-educativo che, nello spirito del nuovo istituto carcerario di Laureana, teso al recupero e reinserimento sociale dei propri ospiti, realizzasse quel recupero culturale necessario e propedeutico ad ogni altro tipo di reinserimento.

L’importante e lodevole progetto, è stato accolto molto bene dall’ufficio scolastico regionale, fatto proprio ed interamente finanziato. Ai giovani ospiti dell’istituto "L. Daga" di Laureana, di età compresa tra i 18 ed i 32 anni, viene garantita per cinque giorni a settimana la presenza di quattro docenti che, a turno, svilupperanno nell’arco dell’intero anno scolastico le tematiche indicate dal programma. A conclusione delle attività didattiche, i giovani che avranno frequentato le 150 ore previste dal corso, parteciperanno agli esami di stato per il conseguimento della licenza media.

Milano: sfida tra "FreeOpera" e "Quelli che il calcio" finisce 3 a 4

 

Vita, 8 gennaio 2005

 

La squadra dei detenuti del carcere milanese di Opera ieri ha perso di misura contro la compagine tv guidata da Maifredi. È terminata con una sconfitta di misura l’amichevole fra la squadra dei detenuti del carcere milanese di Opera e la rappresentativa di vecchie glorie inventata dalla trasmissione tv "Quelli che il calcio" e diretta dall’ex mister di Juve e Bologna Gigi Maifredi.

Il match, giocato sul polveroso campo dell’istituto di pena si chiusa con la vittoria di misura degli ospiti per 4-3. L’iniziativa si è chiusa con i complimenti che l’allenatore bresciano ha voluto ha rivolto ai due bomber-detenuti Zingale e Hila, autori delle tre reti dei padroni di casa, che militano in II divisione.

Pavia: lite in carcere, grave un detenuto ferito al capo

 

Ansa, 8 gennaio 2005

 

Un detenuto di 58 anni di Milano è ricoverato in gravi condizioni a Pavia dopo essere stato coinvolto in una rissa in carcere. L’uomo, del quale non sono state rese note le generalità, è stato colpito ripetutamente al capo da un altro detenuto del penitenziario.

Le sue condizioni sono apparse subito molto gravi, tanto da consigliare ai medici della casa di pena il trasferimento immediato al policlinico. Sull’episodio è stata aperta una inchiesta dalla procura della Repubblica.

Pavia: scarcerato con l’indultino, ma chiede di rientrare…

 

Il Secolo XIX, 8 gennaio 2005

 

"Maresciallo, mi aiuti! Non sopporto più mia sorella. Mi faccia tornare in carcere". Così Giovanni Mastrorillo si è presentato ai carabinieri di Chignolo Po, nel Pavese, per farsi riportare in prigione da dove era uscito grazie al cosiddetto indultino. Mastrorillo, 30 anni, dopo una condanna ad otto mesi di reclusione per piccoli furti, viveva con la sorella e aveva l’obbligo di firma.

L’altro ieri si è presentato nella caserma dove periodicamente firmava il registro delle libertà condizionate e, piangendo, ha raccontato il suo dramma familiare. "Non posso più stare con quella. Fatemi tornare in prigione perché altrimenti potrei morire o diventare davvero un delinquente".

Il maresciallo ha capito che quel giovane non fingeva, dopo la notte trascorsa all’addiaccio. In attesa di conoscere la valutazione del Tribunale di sorveglianza di Milano che aveva disposto la scarcerazione in applicazione della legge dello scorso anno sull’indulto, ha provveduto a porgere un immediato aiuto al singolare personaggio, offrendogli qualcosa da mangiare e anche una fetta di panettone. Poi, non potendo trattenerlo in caserma, ha chiamato il parroco del paese, don Claudio Zanaboni per trovare una soluzione umana al problema. Il sacerdote non ha perduto tempo e ha messo a disposizione del giovane un locale accanto all’oratorio.

Napoli: dopo la prigione non può esserci solo il buio…

 

Il Mattino, 8 gennaio 2005

 

Leggo, con la morte nel cuore, la cronaca napoletana dei tanti giovani morti ammazzati nel quartiere dove sono nato e cresciuto. Dal carcere di Benevento leggo con sconcerto i vari appelli ai napoletani "onesti e laboriosi" a far fronte a riappropriarsi della città con l’eco stonata di politici, ministri, tuttologi. Ma cosa si può pretendere ancora dalla gente onesta di Napoli?

Sono i veri eroi dei giorni nostri, perché il vero miracolo è rimanere onesti. Siamo abituati a veder vagare da tempo anime di tossici e indigenti, con i conti che non tornano mai del salario a fine mese, strozzati da affitti da rapina, pensioni da sorridere per non piangere, case occupate abusivamente. È un buco nero che sta trascinando il "fu" ceto medio.

Quali responsabilità vogliamo dargli ancora? Il livello della criminalità va di pari passo con la dilagante miseria. Eppure c’è chi pensa ad andare verso la parificazione del numero degli abitanti a quello delle forze dell’ordine, "ognuno il suo vigilante". Si possono costruire sempre più carceri come vuole Castelli, stessa logica. Ma è proprio questa la soluzione, o bisogna invertire la rotta? Avere il coraggio civico di farlo? La criminalità va estirpata dalla radice, restituendo la dignità a chi non ce l’ha: casa, lavoro, un futuro migliore.

Vittime sono coloro che subiscono il reato, ma vittime sono anche quelli che i reati li fanno, che siano vittime della droga, dell’ambiente, del degrado. Questo è un aspetto di cui nessuno ha il coraggio di parlare, perché vuol dire guardare la realtà dritta negli occhi, solo così possiamo trovare la forza di risolverlo, sradicarlo. Costruiamo lavoro, cooperative e non carceri, costruiamo case dignitose. Poi c’è il carcere, dove sei bollato, ghettizzato, dove non si ascolta la storia del reo per trovargli, se non giusta collocazione, conforto; non si attua nessun "reinserimento sociale", nessuna "opera rieducativa", basta entrarci per capire. Sono ammassati solo i nuovi poveri, tossici, diseredati, gente che non ha possibilità di adeguate difese, i miserabili.

Le scarcerazioni facili avvengono laddove c’è da spendere per costosi avvocati. "Certezze della pena", "pene più severe": cosa si crede di ottenere, la cessazione dei morti ammazzati? Come dimostra la storia degli ultimi anni, saranno solo tregue spesso brevi. Bisogna avere il coraggio di invertire la rotta, la criminalità sostituisce uno Stato che non c’è, che quando appare lo fa in divisa e con sempre meno operatori sociali, Allora programmi di reinserimento, dove si collocano senzatetto, disoccupati, emarginati, dove alla droga si offrono valide alternative. La repressione è destinata ad eruzioni ben peggiori di quelle dei giorni nostri, che in fondo è una faida nello stesso clan. Fermiamoci, ma dateci un orizzonte dove si può immaginare di avere una famiglia, i propri affetti, in modo normale, senza commettere reati per ottenere dignità.

È una guerra fra vittime, coloro che sopravvivono onestamente e coloro che sopravvivono commettendo reati. Gli omicidi efferati sono degenerazioni annunciate, cocktail di droga, soldi, potere criminale. Ma non coinvolgiamo gli "onesti e laboriosi" (il nemico del povero è il più povero e così all’infinito), già duramente provati dai salti mortali di tutti i giorni. Lavori la società sui "criminali", sulle loro storie legate alla miseria, alla tossicodipendenza, all’emarginazione. Iniziamo dal territorio, dalle carceri, a diffondere una speranza. Chi finisce in carcere è una sconfitta, non una vittoria della società intera.

I nuovi modelli, nuovi valori, ci hanno insegnato a rimanere indifferenti, a tirare la croce addosso a chi sbaglia, ognuno si chiude nel suo guscio, ma quando si chiude una porta in faccia a chi sta soffrendo, lo stiamo consegnando nel ghetto alla malavita. Nella giungla metropolitana, nel silenzio delle bocche cucite, si spara, si uccide, per appropriarsi di mercati di morte.

È l’ingranaggio che stritola tutti. Educhiamo i carcerati, aiutiamoli a sperare, a rialzarsi, inutile far scontare pene qualsiasi se non si offrono alternative che permettono a tutti di reinserirsi. Non ha senso recuperare e sovraffollare dei lager, meravigliandosi che questo fiume in piena rompe gli argini e devasta tutto. Bisogna pensarci prima, bisogna ascoltare disoccupati, no global, ex detenuti, carcerati. Né pene certe, né carceri nuove, né leggi più severe fermeranno la spirale di violenza. Diamo dignità a chi non ce l’ha, per vincere le distanze sempre più devastanti fra pochi ricchi e nullatenenti. Distribuiamo le ricchezze sfruttando i nostri patrimoni turistici, commerciali, artistici. La malavita non avrà più ragione di esistere e si dissolverà rapidamente, come nebbia.

 

Domenico Maria Rizzuto - Benevento

 

Nessun commento: affidiamo questa lettera dal carcere alla sensibilità dei lettori. Aggiungendo il parere di un altro detenuto che ci ha scritto da Poggioreale, Vincenzo Cioffi: aderisce al manifesto del Mattino e chiede "una legge che dia un lavoro, anche dei più umili, a tutti coloro che dopo aver scontato una condanna vogliono guadagnarsi da vivere onestamente".

Aderiscono a questa proposta i compagni della stanza numero 21: Gennaro Parisi, Salvatore Vitale, Antonio Pucci, Antonio Mazzucchillo, Ferdinando Iacomino, Ciro Formicola, Antonio Vanacore. Dal numero delle firme si può capire l’affollamento delle celle.

Trapani: gli agenti penitenziari contestano le trasferte al nord

 

La Sicilia, 8 gennaio 2005

 

Venticinque da Trapani, ottantotto in totale da tutta la Sicilia. Sono gli agenti di polizia penitenziaria che entro il 12 gennaio dovranno prendere servizio per tre mesi in diverse case circondariali del Nord Italia, in base a quanto disposto lo scorso 18 dicembre dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Un provvedimento che le organizzazioni sindacali del settore hanno duramente contestato.

"Respingiamo ogni forma di "mobilità coattiva" - si legge in una nota che i sindacati hanno inviato al Capo del Dipartimento di Roma, Giovanni Tinebra, ed al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Orazio Faramo - perché il "confino al Nord" non risolverà nessuno dei problemi del settore". Ieri mattina, nella casa circondariale di San Giuliano, si è tenuta un’assemblea degli operatori di polizia: è in programma una serie di manifestazioni che partiranno con l’autoconsegna per mezz’ora ad ogni inizio di turno ed il rifiuto di consumare il vitto in mensa. Previste anche assemblee permanenti e manifestazioni di piazza.

Tutte le organizzazioni sindacali - afferma il segretario regionale della Uil Penitenziari, Gioacchino Veneziano - chiederanno l’apertura del confronto con il Governo per rivedere le piante organiche della polizia penitenziaria in Sicilia. Da anni siamo costretti a sopperire ad organici insufficienti, perché negli ultimi anni la situazione della polizia penitenziaria si è evoluta, i nostri compiti sono cresciuti e gli organici previsti inizialmente per determinati compiti non sono più adeguati a quelli attuali. Inviare in missione per tre mesi 88 agenti siciliani al Nord non risolverà i problemi di organico. È soltanto un inutile "provvedimento tampone" che limita la libertà di ogni singolo agente. Siamo stufi di essere trattati come pacchi postali".

Il delegato nazionale del Sappe, Giuseppe Romano, punta l’indice contro "un’assoluta mancanza di programmazione" da parte del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. "Entro il 12 di questo mese - sottolinea - gli agenti in missione dovranno prendere servizio. In mancanza di riscontri alle nostre richieste di revoca del provvedimento saremo costretti a mettere in campo tutte le forme di protesta che ci sono consentite contro atteggiamenti che contrastano con ogni forma di protezione prevista per i lavoratori".

Genova: il Cardinale Tarcisio Bertone prega con le detenute

 

Il Secolo XIX, 8 gennaio 2005

 

Una visita al carcere di Pontedecimo per inaugurare la nuova cappella. Il cardinale Tarcisio Bertone ha celebrato ieri mattina una messa nella casa circondariale, dopo aver incontrato il personale e le detenute e aver dato la sua benedizione alle tante iniziative di recupero promosse all’interno dell’istituto.

Tra le 95 detenute di Pontedecimo una dozzina hanno avuto la possibilità di accedere a programmi di recupero che prevedono lavori esterni al carcere (alla vigilia delle feste un gruppo è stato assunto dalla Preti di Sant’Olcese per il confezionamento dei panettoni), con la possibilità di guadagnare uno stipendio onestamente e di sperimentare il ritorno alla vita quotidiana.

La visita di Tarcisio Bertone arriva a una settimana di distanza dall’analogo incontro con i detenuti di Marassi per il Natale: in quell’occasione il cardinale aveva benedetto anche un sorprendente presepe vivente frutto della partecipazione comune di detenuti e agenti di polizia penitenziaria.

Nel pomeriggio, Bertone ha visitato l’istituto per ciechi David Chiossone, storica istituzione genovese che dal 1868 si occupa a livello nazionale della riabilitazione e dell’assistenza dei disabili visivi, dai bambini agli anziani.

Il cardinale ha visitato la mostra iconografica "Al di là degli occhi" allestita nell’atrio del Chiossone per raccontare l’attività svolta nel campo della riabilitazione, dell’arte, della sensorialità e della comunicazione. Al termine gli è stato consegnato il catalogo della mostra, in vendita in questi giorni per sostenere il progetto di realizzazione del nuovo Centro di riabilitazione visiva per l’età evolutiva di Villa Chiossone in corso Italia, che sarà inaugurato a giugno e che permetterà all’Istituto di diventare un punto di riferimento nazionale anche per la ricerca sulla vista artificiale.

Ragusa: ottiene arresti per accudire le bambine, poi si impicca

 

La Sicilia, 8 gennaio 2005

 

Si è impiccata. Ha lasciato due bambine, una di sei mesi, l’altra di quattro anni. Lucilla Trovato, 29 anni, forse non ha retto allo stress del suo ultimo, travagliato mese di vita. Arrestata dai carabinieri il 22 dicembre scorso nell’operazione "Sylvie" con altre otto persone accusate di spaccio di stupefacenti in concorso, Lucilla aveva ottenuto gli arresti domiciliari nella sua casa di Bruca, per accudire la sue bambine, troppo piccole per stare lontane dalla madre o, ancora peggio, sopportare la vita carceraria.

Uscita dal carcere però ha vissuto il trauma della morte della sorella Giovanna che viveva a Bagnocavallo, in provincia di Ravenna. Suicida. Giovanna, dopo essersi allontanata dalla Sicilia per cambiare aria e vita, si è tolta la vita a Natale. A Pozzallo, dove era nata, Giovanna è tornata in una bara. Una vita difficile quella di Lucilla che risultava essere vittima della droga, dell’ambiente che in cui viveva e probabilmente di sé stessa. In un biglietto, che riguarda Lucilla e i suoi cari, forse ha spiegato perché ha scelto di fermarsi. Alle figlie però nessuno potrà mai spiegare perché la loro mamma non c’è più. Ha lasciato un posto vuoto nel letto di notte.

Quando il marito si è svegliato di soprassalto e non l’ha vista nel letto, si è alzato a cercarla. L’ha trovata e ha tentato di tutto per riportarla in vita. Come i medici dell’ospedale. Troppo tardi. Alle 3, come dice il manifesto funebre, Lucilla si è spenta. Lo stesso manifesto che tra i familiari che l’hanno persa, annovera i nonni. Quasi a rimarcare la giovane età di una bella ragazza, moglie e mamma di due bimbe, incappata in vicende più grandi di lei.

Vicende che vedono protagonista, ancora una volta, quel lento veleno che fa pagare a caro prezzo, e non poche volte con la vita, quei pochi attimi di incoscienza scambiati per estasi. Lucilla ha capito. Troppo tardi per avere la forza di tornare indietro. Troppo presto per morire. Alle 10 i funerali di Lucilla saranno celebrati a Pozzallo nella chiesa di San Paolo Apostolo. Poi, sarà sepolta nel cimitero di contrada Carpintera.

Agrigento: nell’ex carcere nascerà un centro sociale polivalente

 

La Sicilia, 8 gennaio 2005

 

L’ex carcere mandamentale di Favara diventerà un Centro sociale polivalente. Va in questa direzione, infatti, la variazione di destinazione d’uso che il consiglio comunale di Favara è chiamato ad approvare. "Un atto necessario – ci dice il primo cittadino favarese Lorenzo Airò – in quanto attualmente è prevista la destinazione di edilizia scolastica per la quale l’antico manufatto non è assolutamente adatto". In realtà nessuno aveva mai pensato di fare una scuola dell’antico carcere, vecchi consiglieri e amministratori comunali in più occasioni avevano manifestato la volontà di convertire il carcere in centro sociale per anziani e minori.

Un ex commissario ad acta, addirittura, durante il suo mandato aveva anche dato incarico ad un architetto di fare un progetto i tal senso. Ma nessuno aveva pensato che si doveva cambiare la vecchia destinazione d’uso da edilizia scolastica a centro sociale.

"Ci sono anche dei soldi - ci dice ancora il sindaco - circa 350 mila euro fermi dal 1996 che non possono essere utilizzati senza la variazione". Il consiglio comunale nella prossima seduta potrà finalmente aprire le porte del carcere verso il centro sociale votando il cambio di destinazione.

Attualmente il vecchio carcere che si trova in piazza della Vittoria è utilizzato come magazzino per la segnaletica stradale, nel corso degli anni l’incuria e l’azione del tempo hanno indebolito la struttura, il tetto è crollato ma il corpo centrale è ancora ben stabile.

Il progetto realizzato dall’architetto Pecoraro tende a conservare la struttura originaria nella sua quasi totalità per non cambiarne l’aspetto e l’architettura.

Da tempo le associazioni di volontariato che operano nel territorio hanno chiesto che si avviasse l’iter per la ristrutturazione del vecchio carcere in modo da avere una sede dove poter operare.

Danimarca: galera per un giorno al posto dell’amico; condannato

 

Agi, 8 gennaio 2005

 

Un danese di 49 anni è stato condannato a due mesi di carcere per aver preso il posto di un amico dietro le sbarre. Secondo quanto riferisce la stampa di Copenhagen, il 28 agosto Thorbjoern Lonka era comparso in tribunale spacciandosi per il suo amico, che doveva andare in carcere. Nessuno gli aveva chiesto i documenti, ma il giorno dopo aveva detto alle guardie che non era lui quello che cercavano. Il suo scopo, ha spiegato il danese, era dimostrare che chi è ricco può contare sull’impunità, posto che paghi qualcuno per prendere il suo posto in carcere, ma il giudice non ha gradito e l’ha condannato per davvero.

La pratica del carcere "per procura", in cambio di un congruo compenso, sembra piuttosto diffusa in Danimarca: nel gennaio del 2004 il quotidiano Exstra Bladet scriveva che ogni anno un centinaio di persone pagano fino a mille corone al giorno (135 euro) chi sia disposto a prendere il loro posto dietro le sbarre.

Napoli: Protocollo su giustizia riparativa tra Prap e volontariato

 

Giustizia.it, 8 gennaio 2005

 

Martedì 11 gennaio 2005 alle ore 14.00 presso il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap) della Campania, verrà stipulato un protocollo d’intesa sulla giustizia riparativa, tra il Provveditore, Dott. Tommaso Contestabile, e i legali rappresentanti della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia, della Delegazione Regionale Caritas, di Legambiente Campania e del Mo.V.I. (Movimento di Volontariato Italiano) Federazione Regionale Campania.

Il protocollo d’intesa, promosso e curato dall’Ufficio dell’Esecuzione Penale Esterna presso il Prap Campania, riguarda la realizzazione di progetti di giustizia riparativa per persone in esecuzione penale esterna, che, riconoscendo il danno causato dal proprio reato, si impegnano in attività di volontariato come risarcimento nei confronti della società, direttamente o indirettamente "offesa". L’attività riparatoria proposta va considerata come "valore aggiunto" che accompagna il percorso riabilitativo della persona e non sostituisce l’espiazione della condanna.

Agrigento: 300 euro stanziati non bastano, niente riscaldamento

 

La Sicilia, 8 gennaio 2005

 

Per il riscaldamento non c’è niente da fare. I 300 mila euro stanziati,dall’amministrazione penitenziaria per lavori di manutenzione alla casa circondariale saccense non sono sufficienti per attivare l’impianto. E così gli 80 detenuti si difendono dal freddo anche grazie alle iniziative di solidarietà. Una serie di pigiami sono stati donati durante le festività natalizie alla casa circondariale. "Iniziative di famiglie saccensi - dice il direttore dell’istituto penitenziario, Fabio Prestopino - che abbiamo accettato di buon grado".

Infiltrazioni d’acqua dal tetto della struttura hanno fatto balzare al primo punto tra le priorità proprio la bonifica. "Per fortuna il clima, tranne che negli ultimi giorni - aggiunge il direttore - è stato abbastanza clemente. Eliminando le infiltrazioni d’acqua la situazione migliorerà. Certo è che la mancanza dei riscaldamenti determina disagi soprattutto per in detenuti". Attualmente sono 80 quelli ospitati nella struttura. Con i 300 mila euro stanziati dall’amministrazione penitenziaria sarà possibile anche la sistemazione di alcuni impianti.

Il direttore Prestopino ha già firmato i primi contratti per i lavori da realizzare. Per il riscaldamento, invece, non c’è niente da fare. "La spesa è notevole - dice il direttore - e, visto che occorrerebbe smantellare la struttura, nella prospettiva di un trasferimento l’amministrazione non è intervenuta".

Per la realizzazione della nuova casa circondariale, però, non si prevedono tempi brevi. Il procuratore della Repubblica, Bernardo Petralia, ha valutato negativamente il mancato inserimento dell’opera in una posizione utile per poter essere finanziata nell’ultimo decreto interministeriale sul programma di edilizia penitenziaria.

Il sindaco della città, Mario Turturici, valuta, invece, positivamente l’inserimento di Sciacca tra le 10 sedi con priorità uno nella graduatoria dei 59 istituti penitenziari per i quali il decreto del ministero della Giustizia del settembre 2003 ha previsto il criterio della permuta nel programma di edilizia penitenziaria. A questo scopo è nata la "Dike Aedifica", società per la realizzazione dei programmi di edilizia carceraria e giudiziaria del ministero, controllata da "Patrimonio dello Stato spa".

Milano: il buffet? lo preparano i detenuti del carcere di Bollate…

 

Famiglia Cristiana, 8 gennaio 2005

 

Una cooperativa di detenuti, nata nella Casa penitenziale di Bollate (Mi), si è specializzata nel servizio di ristorazione: con grande successo. Tavole arredate con cura e imbandite con un’invitante varietà di cibi: antipasti, specialità gastronomiche, piatti caldi e freddi, dolci e bevande.

È lo scenario consueto di tanti banchetti allestiti da società specializzate in quello che in gergo si chiama "catering". Fin qui nulla di particolare, se non fosse per il tipo di organizzazione che nel nostro caso sovrintende a questa attività.

Perché la cucina da cui provengono questi cibi si trova in un carcere; i cuochi preposti alla confezione sono dei detenuti e così i camerieri; e le persone che fanno da collegamento con l’esterno sono le operatrici sociali di una cooperativa (un nome curioso: "Abc, la sapienza in tavola") nata tra le mura del carcere di Bollate (Milano) per dare un’occasione di reinserimento lavorativo ai detenuti, secondo le loro competenze.

La cooperativa rientra in un progetto più vasto voluto dalla direttrice del carcere, la dottoressa Luciana Castellano, che ha dato il via a una piccola rivoluzione nell’organizzazione del lavoro interno alla Casa di reclusione: il progetto "Virgilio", che attraverso l’appoggio della Provincia, della Regione e dell’Amministrazione penitenziaria mira alla costituzione, nel tempo di cinque anni, di un consorzio di cooperative di detenuti che rispondano alle richieste del mercato. "Un’occasione per dare ai carcerati la possibilità di riappropriarsi del loro lavoro", dice.

In quest’ottica è nata l’idea del catering, realizzata sotto la guida di una collaudata operatrice del settore, Silvia Polleri, che ha messo la sua professionalità e la sua vocazione sociale al servizio della cooperativa. Sei le persone addette alla preparazione dei cibi: Renato e Nino, cuochi, Lino, pizzaiolo, Luigi, capo cameriere, Giancarlo e Maurizio, camerieri.

La cucina, in attesa di ulteriori attrezzature adeguate (occorrerebbero per esempio un forno e un’impastatrice), è quella del carcere, concessa in comodato; le materie prime, ordinate secondo le necessità, arrivano da fuori, dove la squadra delle operatrici si preoccupa di allestire le mense e di gestire gli eventi. Il tutto con altissima professionalità: tant’è che tra i servizi realizzati dalla cooperativa figurano quelli recenti per la festa della Polizia e dell’Università Cattolica.

 

Camerieri in uscita

 

"Certo", dice Silvia Polleri, "non mancano le difficoltà; a parte la concorrenza del mercato, nel nostro caso abbiamo qualche problema in più: l’introduzione e l’uscita di merci dal carcere devono seguire particolari normative, i collegamenti con l’esterno non sono sempre facili, e così è anche per i permessi di uscita dei camerieri e dei cuochi-detenuti. Ma devo dire che la direzione e il personale di custodia sono molto disponibili".

I soci della cooperativa per ora hanno accettato di lavorare senza emolumenti per poter reinvestire i guadagni nelle attrezzature necessarie al lavoro. Di qui a un anno, se le cose, come sembra, continueranno a funzionare bene, ci sarà un regolare contratto di lavoro e una fonte di guadagno. Ma soprattutto una speranza in più per il domani. Per informazioni: Cooperativa "Abc, la sapienza in tavola" Tel. 333.6003263 (Silvia Polleri). abc.sapienzaintavola@tiscali.it

Roma: il garante regionale dei detenuti sarà operativo da lunedì

 

Il Messaggero, 8 gennaio 2005

 

Lunedì diventerà operativo a Roma l’Ufficio regionale del garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Si tratta di un organismo autonomo, finanziato dalla Regione Lazio, composto dall’ex assessore regionale diessino Angiolo Marroni (presidente), dal generale di polizia penitenziaria Franco Russo e dall’insegnante Candido D’Urso.

Quest’ultimo, formiano, 59 anni, sposato con due figli, fino a pochi mesi fa vice preside della scuola media "Mattej" di Formia e consigliere comunale del Msi dall’85 al ‘93, rappresenterà il territorio pontino. E prossimamente sorgerà a Formia una sede decentrata dell’Ufficio regionale del garante, di cui il sindaco Bartolomeo si è già impegnato a mettere a disposizione i locali.

La funzione del nuovo organismo (il primo in Italia) e il ruolo dei tre componenti, sono stati illustrati ieri, in un incontro presentato da Franco Matricardi, a Formia dallo stesso Candido D’Urso e dal consigliere regionale di An Fabrizio Cirilli, presidente della commissione speciale per la sicurezza e l’integrazione sociale e la lotta alla criminalità e presentatore dello specifico disegno di legge.

"La Regione Lazio - ha osservato Cirilli - con questa legge dà prova di grande civiltà. Garantendo i diritti dei detenuti ma anche quelli dei minori e degli extracomunitari nei centri di prima accoglienza e quelli dei disagiati mentali. Ed estende il rispetto dei diritti anche a coloro che lavorano nelle carceri. E il carcere di Latina sarà uno dei primi ad essere esaminato dai tre garanti.

La scelta del professor D’Urso - ha aggiunto Cirilli - non è casuale. Egli è stato individuato per il suo vissuto legato all’attività educativa, al volontariato e all’interesse per il sociale". "La tutela dei diritti dei reclusi - ha affermato D’Urso - è anche garanzia del buon funzionamento dell’istituzione carceraria".

Mario Tuti: mi ha rovinato l’ideologia, ma la droga è peggio...

 

Il Messaggero, 8 gennaio 2005

 

Se fosse possibile giudicare una persona cancellandone un capitolo della vita, di Mario Tuti si parlerebbe oggi come di un cittadino modello. Un uomo di cultura, impegnato nel sociale, che per arricchire se stesso dedica la vita agli altri. Questo è Mario Tuti prima del ‘72, studente alla facoltà di architettura dell’università di Firenze poi funzionario del Comune di Empoli, e questo è Mario Tuti dopo l’87, con una seconda laurea in scienze forestali e un master in agricoltura etico sociale all’Università della Tuscia che lo vedrà sia studente sia collaboratore, impegnato nella comunità "Mondo Nuovo" di Tarquinia per il recupero di tossicodipendenti ed in numerosi progetti finalizzati al reintegro dei detenuti una volta fuori del carcere.

Nel mezzo 15 anni di follia pura, con attentati dinamitardi, due carabinieri uccisi a sangue freddo sull’uscio di casa, l’omicidio di un compagno di cella ed un clamoroso tentativo di fuga dal penitenziario di Porto Azzurro. Reati che fanno di Tuti un rivoluzionario, un terrorista, un assassino. Una vita da dottor Jekyll e mister Hyde difficile da comprendere, perfino da chi ne è stato l’artefice.

"Chi non ha vissuto quegli anni - ha detto Tuti da quella che da marzo scorso è la sua seconda casa (il centro aziendale della comunità Mondo Nuovo) - non può capire che tipo di clima si respirava, come è potuto accadere ciò che è accaduto. Mia figlia mi chiede ancora oggi come io, persona normale, benestante, non certo aggressiva, possa aver fatto allora tutto questo. Io provo a spiegarmi ma non riesco a farmi capire sino in fondo, forse anche perché nemmeno io riesco del tutto a spiegarmelo".

"Fino al ‘68 - racconta Mario Tuti - noi di estrema destra studiavamo, lavoravamo e ci confrontavamo in modo appassionato ma rispettoso coi ragazzi di estrema sinistra. Poi partii per fare il militare e al mio ritorno tutto era cambiato: non potevo più nemmeno entrare all’università. Era guerra, agguati, attentati. È stata la guerra di quasi un’intera generazione divisa su due opposti fronti e "insieme" contro il sistema . Noi, nostalgici della Repubblica sociale, non pensavamo di riuscire a riportare in Italia il fascismo e non eravamo organizzati per farlo. Sapevamo solo che quello stato di cose non ci piaceva e ci ribellavamo perché fosse chiaro a tutti".

"La cosa che voglio far capire - continua - è che eravamo in tanti a pensarla in quel modo: 20, 50 mila, o forse anche di più. Molti oggi rivestono anche alte cariche nello Stato, altri hanno avuto una vita normalissima. Per me ed alcuni altri si è invece aperto l’abisso. È bastato essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, una parola di troppo, una reazione spropositata e ci siamo ritrovati in un vortice a giocare con il nostro istinto di morte. Allora sembrava che si potesse sacrificare anche una vita per il bene collettivo, la nostra compresa".

"Con questo - spiega ancora Tuti - non cerco un alibi, né tanto meno il perdono. Con la giustizia credo di aver saldato il mio conto; con la coscienza, però, il conto è ancora aperto. Non ucciderei più, ma questo non mi consola. Sono cosciente che abbiamo condizionato gravemente le generazioni successive. Nostra è la responsabilità dell’allontanamento dei giovani dalla politica e dall’impegno sociale. È forse per questo che oggi passo il mio tempo impegnandomi in progetti che aiutino i giovani del carcere a reintegrarsi e coopero con la comunità "Mondo nuovo", spaccato di un’altra grave piaga sociale di cui la mia generazione è in parte responsabile: la droga.

Perché se togli la politica e l’impegno sociale, quello che Freud chiama "istinto di morte" (molto forte a quell’età) ti porta a "sfidare" la vita in quel modo. Per me è stato facile reintegrarmi: quel mondo in cui ho vissuto prima di entrare in carcere non c’è più, sono un architetto di famiglia benestante con amici benestanti. Per molti di questi ragazzi la cosa è ben diversa: se arrivi alla droga, alla malavita, una volta uscito dal carcere per forza di cose tornerai dai vecchi amici per rifare le stesse cose perché non hai una via diversa da seguire".

"Il dramma delle grandi ideologie politiche, delle utopie - conclude - è che nella ricerca di un mondo migliore per tutti ci si dimentica del singolo individuo. È molto meglio invece impegnarsi per cercare di salvarne uno, due, dieci".

Latina: corsi di formazione e laboratori per i detenuti

 

Il Messaggero, 8 gennaio 2005

 

Aiutare i detenuti ad acquisire competenze professionali, aumentare le loro possibilità di inserimento lavorativo e sociale, "riconciliare" vita normale con il "dopo" detenzione. Arrivano i primi fondi regionali, 38 mila euro, le prime borse-lavoro (18 mila euro) per risocializzazione e formazione, ma anche iniziative culturali, artistiche, sportive per offrire "più servizi, una migliore qualità del tempo in ambienti già di per sé atipici, quali le case di pena e di rieducazione", sottolineano all’assessorato Servizi sociali del Comune di Latina.

Più soldi, dunque, per l’affollato istituto penitenziario di Latina, 130 detenuti nel "braccio" maschile concepito per ospitarne sessanta e le 26 recluse (tra cui nove irriducibili Br, condannate all’ergastolo per delitti politici) che si dividono gli esigui spazi della sezione femminile. In particolare, riservato alle donne, la realizzazione di un laboratorio per la lavorazione e la decorazione di cuoio e pellame.

A tenere i corsi (spesa finanziata, 3500 euro che serviranno per l’acquisto della materia prima) volontarie che già operano in via Aspromonte con attività di maglieria, taglio, cucito. "Il progetto offre la possibilità di acquisire tecniche, abilità artigianali - spiega Giovanni Di Giorgi, assessore comunale alle Politiche sociali di Latina - utilissime non solo come espressività creativa, soprattutto come aumento delle possibilità di occupazione una volta scontata la condanna. In fondo, oggi, il mercato mira a profili professionali specializzati, figure sempre più difficili da reperire".

Per i detenuti "in uscita", cinque borse-lavoro di 12 mesi ciascuna, dovrebbero facilitare reinserimento e reimpiego nei cicli produttivi, nei quadri socio-economici. Il contributo sarà di 300 euro mensili, 3600 euro annui. Giovanni Di Giorgi: "Un piccolo aiuto per sostenerli durante i primi tempi, anche perché la domanda di lavoro si scontra spesso con resistenze e difficoltà". E, ancora, laboratori teatrali e musicali, potenziamento della biblioteca con l’ingresso di nuovi libri e testi in lingua italiana, in considerazione della forte concentrazione extracomunitaria, il 50 per cento dell’intera popolazione carceraria. Infine, 266 ore di educazione fisica per tutti, a cura di un istruttore Isef e potenziamento della palestra con l’acquisto di nuovi strumenti ed attrezzature (costi, 10.480 euro complessivi).

Bari: bambina di 16 mesi muore di stenti, arrestati i genitori

 

Reuters, 8 gennaio 2005

 

Sono stati arrestati stamani dagli agenti della Polizia di Bari la madre e il patrigno della bimba di 16 mesi giunta morta ieri pomeriggio all’ospedale del quartiere San Paolo di Bari perché affetta, secondo gli inquirenti, da "gravissimo stato di denutrizione, disidratazione e mancanza di igiene nell’ambiente nella quale era costretta a vivere". Lo riferiscono fonti investigative.

Francesca S., 23 anni, e Armando M.,42, rispettivamente madre e patrigno della bimba morta sono finiti in carcere con l’accusa di omicidio colposo, violazione degli obblighi familiari, maltrattamenti in famiglia nei confronti della piccola deceduta.

Secondo l’ordinanza di custodia cautelare disposta dal pm Emanuele De Maria, "i genitori avrebbero accudito la bimba con imperizia e negligenza, abbandonandola al suo tragico destino, pur avendone di fatto la custodia, fino a cagionarle per colpa la morte".

La coppia arrestata è stata portata via dall’abitazione che occupava abusivamente. Era un basso di un edificio di case popolari nel rione Enziteto, alla periferia di Bari. Qui i due conviventi abitavano insieme ad altri tre bimbi: il più piccolo ha 4 mesi, mentre gli altri due anni hanno 2 e 4 anni.

I fratellini della piccola vittima, già ieri sera, sono stati visitati e curati in ospedale e ora sono sotto la tutela del tribunale per i minorenni di Bari. "I bimbi stanno bene, anche se sono denutriti e sono ancora ricoverati in una struttura ospedaliera", spiegano dalla Questura di Bari. "Una volta terminate le cure necessarie saranno trasferiti in una comunità, in un ambiente protetto. Così ha disposto per loro il sostituto procuratore del Tribunale per i minorenni Marcello Barbanente", ha aggiunto un funzionario della Questura barese. "Ci dispiace dover parlare di questa triste vicenda e pensare che qualcuno dei vicini poteva avvisarci e riferirci quanto accadeva in quel basso al rione Enziteto", ha detto il questore di Bari Zannini Quirini nel corso della conferenza stampa tenutasi stamattina a Bari dopo l’arresto della coppia. "Vivevano veramente in condizioni disperate, in un tugurio che non è possibile immaginare che possa ospitare bimbi che vivono di stenti, senza cure, al freddo e senza essere nutriti", ha detto al telefono a Reuters uno degli agenti che ha condotto le indagini. Domani sulla bimba sarà eseguita l’autopsia.

 

 

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