Rassegna stampa 9 aprile

 

Per i ricchi ci sono gli avvocati, ai poveri serve l’amnistia

di Giulio Salierno

 

Liberazione, 9 aprile 2005

 

Come ricorda, in un suo saggio, il costituzionalista Michele Ainis, la prima amnistia della nostra storia nazionale reca la stessa data dell’unificazione: il 17 marzo 1861. Da allora se ne sono succedute 333, più di un paio l’anno, sino al 1992. Il 1992 è l’anno del "terrore", non quello della rivoluzione francese, ma di "mani pulite", che come l’ombra di Banquo, incombe sui partiti - Macbeth, i quali, in preda al panico, ghigliottinano d’urgenza Robespierre, danno avvio al Termidoro e castrano il Parlamento, introducendo un quorum di due terzi dei membri di ogni Camera per varare un provvedimento di clemenza.

Riforma improvvida, decisione presa anche per reciproca sfiducia delle forze politiche. Si vuole impedire che una maggioranza - con l’amnistia - possa assolvere se stessa e le proprie malefatte. Ma, ma in realtà, i provvedimenti generali di clemenza (come vengono definiti l’amnistia e l’indulto) hanno sempre avuto, sin dall’antichità, carattere politico. E venivano varati per porre riparo, come in Grecia, agli effetti della purga contro i trenta tiranni, o, a Roma, su proposta di Cicerone, per sedare le conseguenze della guerra civile. Oppure da noi, dopo la seconda guerra mondiale, promossi da Togliatti, come atto di pacificazione nazionale. O per non infierire contro i disertori, i malcapitati, o contro coloro che non avevano assolto quella o questa imposta, o avevano rubato quattro mele. C’è qualcuno che ricorda le pagine indignate scritte dal giovane Marx contro le sanzioni comminate ai ladri di legna?

In Italia, durante gli anni della ricostruzione, il partito comunista, soprattutto per bocca di Pajetta e Terracini, che ben conoscevano la galera per averla subita, era in prima fila per richiedere, con forza, l’amnistia e l’indulto. E si deve proprio al Pci se nel 1953 fu varato, a completamento della cosiddetta amnistia Togliatti, un ampio, largo atto di clemenza che, oltre a svuotare le carceri dai detenuti comuni, introdusse, per gli ex partigiani, norme che riducevano l’ergastolo a soli dieci anni di reclusione.

E, nei dibattiti parlamentari, Pajetta e Terracini - oltre a battersi come leoni per l’amnistia, la riforma del sistema penitenziario, l’abolizione delle norme repressive, del confino e della vigilanza speciale - adducevano, con fierezza, a merito storico del Pci, la sua attenzione (amnistia in primo luogo) per il sottoproletariato urbano e le borgate (i cui abitanti, per i quali il carcere aveva la stessa incidenza della fabbrica e dell’ospedale, erano proprio dall’azione didascalica ed educativa del Pci condotti o ricondotti nell’alveo della democrazia).

Altri tempi, si dirà. Certo. Ma il numero di "fuori margine" coinvolti, a vario titolo, nell’universo della piccola criminalità non è certo diminuito da allora. Al contrario, è aumentato. Sono circa 350 mila le persone che abitualmente commettono furtarelli, scippi, contrabbando, spaccio. E circa due milioni quelle che vivono o sopravvivono con la cosiddetta "economia del vicolo"; cioè con la rete commerciale (furto, ricettazione, commercio abusivo al minuto, contrabbando, consumi in certi bar, trattorie, eccetera, eccetera) che rappresenta un fiorente mercato alternativo a quello canonico.

Del resto, come potrebbe diminuire il numero dei "fuori margine" se la legislazione sulle droghe e sull’immigrazione clandestina - con i suoi effetti criminogeni - ne aumenta consistenza e patologia?

L’amnistia, inoltre, è uno degli strumenti che il potere politico, sino al 1992, impiegava per attenuare l’effetto perverso della legislazione italiana. A esempio, chi è in grado oggi di dire con certezza quante sono le norme, statali e regionali, che governano e presiedono la nostra esistenza? C’è chi parla addirittura di 100 mila, chi, più ragionevolmente, di 50 mila. Comunque, siamo in presenza di un diluvio enorme di decreti, regolamenti, leggi speciali, circolari interpretative, eccetera, eccetera. Peggio: siamo in presenza di norme oscure, scritte in burocratese, assurde, contraddittorie, incomprensibili non solo ai cittadini comuni, ma anche ai cultori del diritto. Siamo arrivati al punto da costringere le più alte organizzazioni giuridiche del paese, Corte costituzionale, Corte di cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei conti, a sancire la resa dello Stato, a minare cioè il principio su cui posa l’autorità di ogni ordinamento giuridico di questo mondo: ignorantia iuris non excusat (l’ignoranza della legge non è una scusante). Viceversa, i nostri massimi istituti di diritto hanno dovuto sentenziare che, in Italia, l’ignoranza della norma costituisce una scusa; o almeno una esimente quando il fatto illecito - come ormai è comune - sia previsto da norme tanto intricate da non lasciarsi decifrare.

Non basta: la selva giuridica, il detto e il non detto, le incredibili lungaggini burocratiche, l’assenza di ogni seria riforma dell’apparato normativo, l’assenza di oralità e la stessa mancanza di buon senso (il buon senso reazionario di gramsciana memoria) hanno reso il processo penale una lotteria, una scommessa con il tempo (un procedimento penale, dura in media, un decennio), con il proprio decorso di vita (moltissimi imputati muoiono prima che la causa in cui sono imputati vada in porto). E per tanti, tantissimi, l’unica salvezza è la prescrizione. Anzi, la prescrizione è diventata l’amnistia occulta di chi incappa nell’apparato repressivo penale. E sono milioni (milioni e non migliaia) i cittadini in attesa di giudizio penale. Nessuno può dire quando l’avranno e se l’avranno, ma è ben difficile, forse impossibile, che abbiano giustizia.

La legge - si sa - si applica ai nemici e s’interpreta per gli amici. E chi, per ignoranza o censo, non ha amici, o per gli immigrati, chi si incaricherà di "interpretare " la legge"? La domanda è retorica. Sappiamo bene che chi vive in fondo alla scala sociale non ha amici, non ha santi in paradiso. E allora, non è forse tempo di rendere un po’ di serenità, un pizzico, solo un pizzico, di attenzione ai loro guai penali? Un provvedimento, ampio, molto ampio, di clemenza s’imporrebbe. Oltretutto, servirebbe anche per porre fine alla ricorrente, inutile, propagandistica disputa sulla questione degli "anni di piombo". In proposito, c’è chi obietta: ormai è troppo tardi. E, a dirlo, sono gli stessi che venti anni fa dicevano: è troppo presto. Per altri bisogna attendere la riforma dei codici. Peccato che di riforma della giustizia si parli dal 1861. Speriamo ci pensi un redivivo Garibaldi.

Amnistia: Pannella; a Regina Coeli, per continuare la lotta del Papa

 

Ansa, 9 aprile 2005

 

"Non fiori, ma opere di bene" per Karol Wojtyla. Nel giorno in cui Roma e il mondo danno l’ultimo saluto a Giovanni Paolo II, Marco Pannella, al sesto giorno di sciopero della sete, va a Regina Coeli per spiegare ai detenuti la sua iniziativa per ottenere l’amnistia, che il Papa chiese ancora nel suo discorso in Parlamento l’11 novembre del 2002.

"Ho imparato banalmente da ragazzo: non fiori ma opere di bene - spiega il leader radicale entrando nel carcere romano, accompagnato dal suo medico personale e da Daniele Capezzone, segretario di Radicali italiani - Ci ho pensato molto in questi otto giorni, in cui le tv ci hanno presentato le immagini di esponenti politici e delle istituzioni immobili davanti alla bara del Papa. E mi è parso invece che fosse buono e bello, ora che lui se n’è andato, dimostrare che è vero che chi se ne va resta vivo con le sue opere".

"L’opera - spiega - è stata una lotta disarmata, fatta anche in Parlamento, dove è stato trascinato a forza e poi applaudito quando parlò dell’amnistia in un modo che non dirò come appare oggi a chi riascolta quei 7-8 minuti di ovazione. Sto tentando adesso di venire qui, tra i detenuti, come faccio da quarant’anni (a Regina Coeli ho anche abitato...) per ricordare che quella lotta continua, che sappiamo farci forti della presenza spirituale dell’uomo che se n’è andato".

Amnistia: Pannella al settimo giorno di sciopero della fame

 

L’Unità, 9 aprile 2005

 

Il sesto giorno di sciopero della fame e della sete di Marco Pannella per chiedere al Parlamento un’amnistia per i detenuti delle carceri italiane inizia con una lettera rivolta al Quirinale. A scrivere, però, non è il leader radicale ma sua sorella Liliana docente di Storia della Musica all’Accademia di S. Cecilia a Roma. Un messaggio al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (e per interposta persona anche al presidente del Consiglio e ai presidenti di Camera e Senato) perché, scrive, “non si verifichi ciò che, sono sicura, non si vorrebbe che accadesse, ma che potrebbe verosimilmente verificarsi anche molto presto”. E così, mentre il Paese si sveglia immerso nel dolore e nel cordoglio nel giorno dei funeralii di Giovanni Paolo II, Liliana Pannella prende carta e penna per denunciare che “quest’uomo 75enne è oscurato e la muraglia del silenzio circonda questo estremo sacrificio per ottenere qualcosa che sin dal 2000 chiedeva, inascoltato, il grande Papa, di cui questa mattina si celebrano le esequie”. E non è una scelta casuale, quella della sorella del leader radicale, perché fu proprio al Quirinale che Liliana Pannella si rivolse nell’aprile scorso ai tempi dell’ultimo, durissimo, sciopero della sete del fratello per chiedere il rispetto del potere di grazia in capo a Carlo Azeglio Ciampi.

Marco Pannella, invece, fa la sua apparizione quando sono da poco passate le 14. Volto teso, le parole pronunciate a fatica alla soglia delle 140 ore di astensione totale dai cibi e acqua, il leader dei Radicali arriva a bordo di uno scooterone di fronte al portone del carcere di Regina Coeli per far visita ai detenuti per i quali si sta battendo. A poche centinaia di metri, intanto, i funerali del papa sono finiti da un’ora appena.

Nei bracci del carcere in cui lui stesso venne recluso nel 1975 per uno spinello, Marco Pannella si trattiene per quasi tre ore a colloquio con decine di detenuti. “Come tutte le volte che vengo qui, anche in questa occasione sono stato accolto come uno di loro - spiega - e di questo sono immensamente fiero. I detenuti e il personale che lavora a Regina Coeli hanno una straordinaria consapevolezza di quello che la società civile e le istituzioni devono fare. Dobbiamo aiutarli: io sto sperimentando bene una cosa che non avevo mai fatto, il sesto giorno dello sciopero della fame e della sete, e lo sto facendo con la letizia di trovare qui dentro una riserva di saggezza acquisita drammaticamente”.

Le notizie che arrivano dal Parlamento, nel frattempo, raccontano di una situazione di stallo da cui tardano ada arrivare notizie convincenti tali da convincere Marco Pannella ad interrompere la sua protesta. “Se aspettassi segnali dalle istituzioni - scherza il leader radicale - sarei fregato. Sarei fregato io e sarebbe fregata l’Italia. In Parlamento ci sono due testi base che vanno votati in fretta mantenendo i caratteri di amnistia straordinaria ed indulto, sapendo che nella società civile c’è un grande e straordinariamente forte movimento che sostiene questa proposta”.

Al fianco di Pannella anche il segretario Daniele Capezzone che assieme ad uno dei medici di fiducia ha accompagnato l’anziano “mentore” nella sua visita al carcere. “Siamo preoccupati - spiega - perché nonostante le ultime analisi descrivano una condizione critica ma stazionaria sappiamo che Marco Pannella non si è mai spinto tanto avanti in uno sciopero della fame e della sete. A questo punto possiamo solo augurarci che il Parlamento faccia velocemente e approvi quello che la stragrande maggioranza sente come un provvedimento necessario e di giustizia”.

Amnistia: Testa (Detenuto ignoto) in presidio permanente al Senato

 

Agenzia Radicale, 9 aprile 2005

 

Dichiarazione di Irene Testa, segretario dell’associazione radicale "Il Detenuto Ignoto", membro giunta nazionale di Radicali Italiani. Nell’ostracismo mediatico che condanna, ora per ora, lo sciopero della sete di Marco Pannella, giunto ormai alla 158° ora, nella preoccupazione che ora per ora aumenta per la sua salute, maturo la disperata decisione di stabilirmi in presidio permanente dinanzi al Senato, dalle ore 13 di oggi, recando un cartello che ricordi agli onorevoli Senatori e ai politici l’impegno che si sono assunti davanti a Papa Giovanni Paolo II nel 2002, quando plaudivano alla richiesta del Pontefice perché fosse concesso un atto di clemenza per i detenuti. Chiedo a chi sente, chi vuole e chi può di raggiungermi e unirsi a questa iniziativa nonviolenta per darle forza.

Cassazione: curare boss latitante in ospedale non è reato

 

Ansa, 9 aprile 2005

 

Visitare un boss latitante in ospedale non è reato. È il principio fissato dalla corte di Cassazione, che ha assolto Rosario Mandalà, ex primario di ortopedia all’ ospizio Marino di Palermo ed ex sindaco democristiano di Villabate, dall’accusa di favoreggiamento personale del capomafia Giuseppe Graviano, condannato per l’omicidio di padre Pino Puglisi e per le stragi del 1993. L’imputato era difeso dagli avvocati Giovanni Di Benedetto, Rocco Chinnici e Armando Veneto. Il medico era stato arrestato nel 1997.

Alcuni collaboratori di giustizia lo avevano accusato di avere visitato, nella struttura pubblica, il boss di Brancaccio durante la latitanza. In primo grado Mandalà venne condannato a tre anni di reclusione per favoreggiamento personale. La prima assoluzione arrivò in appello, quando il collegio presieduto da Francesco Ingargiola scagionò l’ex primario "per non avere commesso il fatto". Il verdetto riconosceva che le visite c’erano state; secondo i magistrati, però, il fatto che Mandalà avesse ricevuto il boss nella struttura pubblica escludeva la configurabilità del favoreggiamento. La prestazione medica, insomma, in quel caso sarebbe stata doverosa. Analoghe le considerazioni della Cassazione che ha respinto il ricorso della procura generale contro la sentenza d’appello.

Papa: i detenuti di Regina Coeli; ci ha fatto sentire figli di Dio

 

Ansa, 9 aprile 2005

 

"È stato l’unico che ci ha fatto sentire come tutti gli altri e non come figli minori". È racchiusa forse in questa frase, detta quasi tra le lacrime da Carmelo Gullotta, uno dei detenuti di Regina Coeli, che stamani hanno seguito dall’interno del carcere i funerali del papa, il senso della partecipazione, all’ultimo saluto al papa. Un saluto da parte di chi non ha potuto essere fisicamente rendergli omaggio perchè costretto dietro le sbarre di un carcere.

Italiani, polacchi, nigeriani e angolani, giovani e anziani di diverse etnie, si sono riuniti stamani per seguire insieme, proprio nel luogo dove il papa ha fatto loro visita nel 2000, la rotonda dove il pontefice celebrò una messa per loro. Lo stesso papa che per loro "ha avuto il coraggio di chiedere clemenza per noi - ricorda Biagio Confalone - anche da dentro l’emiciclo del parlamento italiano. Peccato - aggiunge - che si sono limitati ad applaudirlo ma poi non hanno fatto nulla, lo hanno preso in giro". Occhi lucidi, mani congiunte ognuno dei detenuti sembra voler vivere per proprio conto il momento del saluto a quel pontefice che pochi dei presenti ha incontrato ma che tutti hanno sentito profondamente vicino.

"Io non ero credente - ammette un detenuto - lui mi ha convertito". Un momento di grande commozione, nella sala dove tre lapidi ricordano le visite oltre che di Giovanni Paolo II, di Giovanni XXIII (nel 1958) e Paolo VI (nel 1964), si è vissuto mentre il cardinale Ratzinger alzava il calice per benedire l’Eucarestia durante il rito funebre a san Pietro: tutti si sono alzati in piedi e all’interno del penitenziario un velo di silenzio ha avvolto tutto. Più tardi, sarà un giovane sudamericano a chiedere nuovamente di alzarsi e dedicare un minuto di silenzio dicendo "non dico addio al papa, ma solo un arrivederci". Una frase accolta da un lungo applauso.

Molte le testimonianze che, mentre scorrevano le immagini della cerimonia funebre dai monitor dei due televisori che il direttore del penitenziario Mauro Mariani, anch’esso presente ha messo a disposizione, sono state espresse su invito del cappellano di Regina Coeli, Vittorio Trani. "Nell’istante in cui viene sepolto - ha detto un giovane nigeriano - non finisce il nostro sogno di speranza". Anche un polacco ha voluto sottolineare quanto fosse per lui "un onore essere nato nella stessa terra del santo Padre. Ha permesso al nostro popolo di essere libero", ha aggiunto. E, ancora. Un giovane romano, quinto di cinque fratelli, in carcere a soli 19 anni e che "in questi due mesi di detenzione ha capito d’aver sbagliato e chiede di poter dire "non l’ho conosciuto ma è stata una persona straordinaria.

Anche per merito suo - aggiunge - leggo la bibbia e sto studiando per prendere la licenza media". Quando uscirà, tra alcuni mesi "non sbaglierà più", lo garantisce con convinzione. E poi parla della sua morte che ha prodotto "una cosa grandiosa, straordinaria ... Era un messia - aggiunge - lo capivi dallo sguardo". Chi non è riuscito a seguire la cerimonia insieme agli altri è quello stesso detenuto, Pasquale Di Stefano, che per il papa ha dipinto un quadro ("bellissimo" confermano gli agenti di vigilanza) che è stato donato a Wojtyla ed è in Vaticano.

La sua salute è molto precaria e la forte emozione, lui al papa gli ha anche parlato, lo ha costretto a lasciare la sala dopo poco l’inizio della cerimonia. Ma gli altri sono rimasti, fino alla fine della cerimonia. Come Franco Calderone, anche lui da anni detenuto nel carcere romano e che nel giorno dei funerali del papa ha un grande rammarico "non essere potuto andare a san Pietro per questo papa speciale che ha unito il mondo intero, ha amato i giovani e ha dato loro tanta forza". Lui era "diventato credente con papa Giovanni, il papa di noi del popolo, e all’inizio con Wojtyla ero scettico, lo sentivo troppo politico - spiega - ma poi mi sono ricreduto". E oggi, nel giorno dell’ultimo saluto, lo piange, in silenzio.

Tempio Pausania: approvato il progetto del nuovo carcere

 

L’Unione Sarda, 9 aprile 2005

 

I funzionari del Ministero delle Infrastrutture hanno informato il Comune di Tempio ieri mattina. Il progetto di realizzazione dl carcere che sostituirà il vecchio ed inadeguato penitenziario della Rotonda è stato approvato definitivamente. L’ultimo ostacolo di natura strettamente tecnica è stato superato. Ora anche le commissioni incaricate di valutare il progetto hanno dato il loro parere positivo. La struttura sorgerà a pochi chilometri da Nuchis e sono state già avviate le procedure per gli espropri.

Il ministero guidato da Pietro Lunardi ha preso atto della disponibilità dell’intero finanziamento per la costruzione del penitenziario, si parla di circa quaranta milioni di euro. Anche l’iter per la modifica della destinazione d’uso dei terreni è stato completato. A questo punto manca soltanto il bando di gara per l’affidamento dei lavori. Ma gli ultimi passaggi burocratici potrebbero essere completati entro l’autunno. L’area individuata è di circa sette ettari, il carcere avrà una sezione di massima sicurezza e impianti sportivi come campi di calcio e palestre. Potrà contenere sino a 300 detenuti, il Ministero della Giustizia ha chiesto che venga realizzato nelle immediate vicinanze del nuovo tracciato della Tempio-Olbia.

"Il Ministero della Giustizia e quello delle Infrastrutture - spiega l’assessore ai lavori pubblici Franco Anziani - ci hanno chiesto di accelerare i tempi, almeno per quanto riguarda le questioni sulle quali possiamo direttamente incidere con le nostre competenze. Ormai il nuovo carcere di Tempio è un dato acquisito. Ci sono soltanto da individuare gli strumenti per completare alcuni passaggi di natura strettamente amministrativa. E noi siamo a disposizione dei tecnici dell’amministrazione penitenziaria nel caso in cui ci dovessero essere dei problemi urbanistici". A Tempio sono state già diverse le prese di posizioni di chi non vuole il supercarcere. Anche il progetto del penitenziario di Nuchis è destinato ad entrare subito tra i temi della campagna elettorale per l’elezione del consiglio comunale e del sindaco. (a.b.)

Sassari: va in pensione l’ispettore Spanu, 40 anni all’Asinara

 

L’Unione Sarda, 9 aprile 2005

 

"Quarant’anni di carcere senza essere mai comparso davanti a un giudice". Scherza Lorenzo Spanu, sessant’anni, ispettore superiore della polizia penitenziaria, quando parla della sua vita dall’altra parte delle sbarre, da "detenuto fra detenuti". Il 31 marzo ha varcato per l’ultima volta il portone d’ingresso della casa circondariale di Alghero che dirigeva dal 1998.

Da quando aveva lasciato l’altro carcere, quello dell’Asinara, che ha scandito davvero ogni minuto della sua vita per trentatré lunghissimi anni. Dal primo aprile è in pensione. Ma dietro il portone del carcere non è riuscito a lasciare tutti i ricordi. "Un po’ di magone l’ho provato. È frutto della "carcerite" che ci portiamo addosso. Quarant’anni sono tanti e mi viene difficile dire "finalmente sono fuori" perché anche i momenti di difficoltà, che ci sono stati, non annullano le cose positive che questo lavoro mi ha dato".

Chi ricorda in particolare? "I colleghi con cui ho diviso questa professione, i miei superiori. Molti li ho rivisti alla festicciola della pensione. Li ringrazio davvero tutti di cuore". Forse neppure un detenuto ha trascorso più anni di lei all’Asinara. Eppure quando è stato istituito il parco e il carcere venne smantellato lei non ne gioì. Perché? "Non ho gioito allora e non gioisco oggi a vedere come è ridotta l’Asinara. È stata persa una grossa occasione. Se avessero accettato il progetto del direttore Nicolò Amato, che prevedeva la permanenza all’Asinara di un nucleo di detenuti a bassa pericolosità, oggi il parco avrebbe garantita la vigilanza via mare e un controllo sull’isola. Senza rinunciare a nessuno dei programmi che l’Ente Parco ha previsto di sviluppare.

Un’occasione buttata al vento". Il ricordo più brutto. "Risale al Natale del 1976. Un collega, l’appuntato Antonio Scanu, accusò un malore. Capimmo subito che era qualcosa di grave. Ma il levante che imperversava sull’isola impediva di trasportarlo a Stintino. Quando ci riuscimmo, il giorno dopo, era ormai troppo tardi. Capii che di fronte al levante eravamo tutti uguali, detenuti e agenti". Il ricordo più piacevole.

"La storia di Carmine Rea. Era rinchiuso nella diramazione centrale dove scontava una condanna a vent’anni per un omicidio commesso nel 1958. Era innocente, glielo leggevamo in faccia. Dopo otto anni di detenzione la figlia riuscì a trovare un giovane avvocato che prese a cuore il suo caso e ottenne la riapertura del processo. Carmine venne assolto e lasciò l’isola. La figlia sposò l’avvocato. Una bella storia dal finale lieto. Come nelle favole". Gibi Puggioni

Ancona: tenta d’impiccarsi in cella, salvo per la rottura della corda

 

Corriere Adriatico, 9 aprile 2005

 

L’hanno trovato gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Montacuto mentre era accasciato a terra, privo di sensi e con un cappio legato al collo. L’altra metà della fune, spezzata, era invece ancora attaccata al soffitto. Si è salvato così un detenuto di Montacuto che ha cercato di suicidarsi ieri intorno alle 12.30 e che ha avuto la fortuna di avere con sé una corda tutt’altro che robusta.

Allertata la centrale operativa di "Ancona soccorso", sul posto sono intervenute un’ambulanza della Croce Gialla e l’automedica del 118. L’uomo è stato trattato sul posto e poi accompagnato al pronto soccorso dell’ospedale di Torrette dove i medici gli hanno riscontrato un leggero trauma al collo e qualche lieve contusione dovuta all’impatto sul pavimento che il detenuto ha fatto da svenuto.

Catania: in municipio direttore del carcere di Piazza Lanza

 

La Sicilia, 9 aprile 2005

 

Ieri al Palazzo degli Elefanti c’è stato un incontro tra il sindaco Umberto Scapagnini, il direttore della casa circondariale di piazza Lanza Rosario Tortorella e l’onorevole Giuseppe Palumbo, presidente della 12ª commissione parlamentare sulla Sanità, sul tema della preannunciata riforma della sanità penitenziaria e della bozza del progetto di legge che proprio in questi giorni è allo studio della Commissione.

Quella che doveva essere una semplice visita di cortesia si è trasformata invece in un interessante incontro, nel corso del quale il presidente Palumbo ha illustrato in linee generali il testo base della nuova riforma, voluta anche dal Dap (dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) guidato da Giovanni Tinebra e dal ministero di Grazia e Giustizia. "L’attenzione che il Parlamento riserva alla medicina penitenziaria - ha detto l’onorevole Giuseppe Palumbo - è importante perché la sanità è un diritto che va garantito a tutti".

Il sindaco Umberto Scapagnini - si legge poi in un comunicato stampa - ha espresso il suo personale ringraziamento al direttore Tortorella e, in particolare, al responsabile del Dap Tinebra che -ha affermato il primo cittadino - ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo della realtà delle carceri: "Restituirò al più presto la visita che oggi il neo direttore di piazza Lanza ha voluto farmi. Egli rappresenta un punto di collegamento importante tra la società esterna e quella fascia meno felice della popolazione". E Tortorella ha risposto assicurando quel necessario e fondamentale raccordo con il territorio indispensabile per il suo ufficio.

L’iter di questo progetto di riforma ha avuto all’inizio dello scorso anno, quando le commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera dei deputati avviarono un’indagine conoscitiva congiunta sulla sanità penitenziaria, dando vita a una serie di audizioni cominciate a fine gennaio 2004. Vennero ascoltati esperti del settore (medici e infermieri iscritti alle varie associazioni categoria) che misero in luce numerose discrasie che rendono l’attuale situazione sanitaria carceraria assai precaria: tra i problemi messi in luce nel corso delle audizioni: assistenza per le persone affette da malattie infettive quali l’aids, per i tossicodipendenti e per altre categorie "deboli", come immigrati extracomunitari e detenute madri. Ma più in generale si avverte l’esigenza che anche all’interno del carcere un cittadino debba godere degli stessi diritti di coloro che si trovano in condizioni di libertà.

Siracusa: sospetto uso di droghe, detenuto straniero ricoverato

 

La Sicilia, 9 aprile 2005

 

Un detenuto della casa di reclusione di Brucoli è finito in pronto soccorso per sospetto uso di cannabinoidi. D.M. cittadino senegalese di 31 anni, attualmente rinchiuso, è stato trasportato al pronto soccorso del Muscatello, perché in stato soporoso, mercoledì pomeriggio, scortato da agenti di polizia penitenziaria. Le prime cure le ha ricevute direttamente all’interno dell’istituto, ma l’infermeria dello stesso non è attrezzata con particolari apparecchiature richieste in casi del genere. La diagnosi dei medici parla di sospetto uso di cannabinoidi.

Come si sia potuto procurare della droga in carcere, resta l’interrogativo a cui non hanno potuto dare risposta nemmeno all’interno dell’istituto. Sembra essere una prassi, come dice chi ha esperienza di carcere, che alcuni detenuti assuntori di sostanze stupefacenti ottengono uno sballo simile a quello provocato dalle droghe leggere inalando il butano contenuto nelle bombolette di alimentazione dei fornelli che alcuni di essi possono tenere in cella.

Lo stato di dormiveglia che ne deriva potrebbe essere simile a quello provocato dalle droghe come hashish e marjuana. Le analisi, secondo quanto spiegato dai medici, d’altro canto, rivelano la presenza nel sangue di droghe anche parecchi mesi dopo l’assunzione. D.M. positivo al drug test è stato accompagnato a Lentini per la tac e poi ricoverato in medicina. Anna Burzilleri

Brescia: il carcere scoppia, 169 detenuti in più del limite

 

Giornale di Brescia, 9 aprile 2005

 

Tra gli intervenuti al dibattito di ieri mattina promosso dall’associazione carcere e Territorio anche Maria Grazia Bregoli, direttrice della casa circondariale di Brescia. Alcuni semplici dati hanno descritto la situazione di emergenza e di invivibilità che la popolazione carceraria è costretta a subire. Al momento, ha detto, nel carcere cittadino ci sono 467 detenuti, quando la capienza considerata "tollerabile" è di 298. Ci sono quindi 169 detenuti in più rispetto al limite massimo di vivibilità. Del totale dei detenuti, 225 sono stranieri, la maggior parte dei quali provenienti da Marocco (97), Tunisia (38) e Romania (18). La massiccia presenza di stranieri nelle carceri ha di conseguenza profondamente mutato l’istituzione carceraria nell’ultimo decennio, ponendo nuove problematiche. Un quarto delle persone che si trova in carcere ha commesso reati legati alla condizione di tossicodipendenza. I reati più frequenti sono quelli contro il patrimonio.

Quotidianamente, ha aggiunto Maria Grazia Bregoli, si registrano dai 10 ai 15 ingressi in carcere, un terzo dei quali dovuto alla violazione dell’articolo 13 della legge Bossi-Fini sull’immigrazione che prevede l’arresto per il cittadino straniero che si trattiene in Italia in violazione dell’ordine di espulsione. Il "capitolo immigrati" è stato toccato anche dal docente di Criminologia Carlo Alberto Romano. "La comunità - ha detto - spesso individua negli immigrati clandestini la fonte dei reati. È indubbio che in parte questo sia vero. Di frequente è infatti proprio la "condizione di clandestinità" che porta a compiere un maggior numero di reati". La risposta penale, hanno affermato entrambi, non può continuare ad essere l’unica possibile. Altre dovrebbero essere le soluzioni, in parte peraltro già presenti nella legislazione vigente.

Brescia: strategie contro criminalità, troppe risposte fuorvianti

 

Giornale di Brescia, 9 aprile 2005

 

Da anni il fenomeno della devianza e della criminalità sta suscitando un grande dibattito politico e culturale nelle società economicamente avanzate. Spesso le risposte sono fuorvianti: si va dal rassegnato fatalismo, all’autodifesa individuale fino all’ invocazione di misure repressive, a volte collegate alla criminalizzazione pregiudiziale di talune categorie.

E’ partendo da questo approccio che l’associazione Carcere e Territorio di Brescia ha promosso ieri mattina un dibattito alla facoltà di Giurisprudenza di via San Faustino con l’intento di approfondire un fenomeno criminale complesso. E con una proposta pratica lanciata alle istituzioni: costituire un osservatorio della devianza e della criminalità in provincia di Brescia.

Strategie in Lombardia. La normativa degli ultimi anni, ha affermato il responsabile della Direzione Generale sicurezza Regione Lombardia Fabrizio Cristalli, ha dato maggior peso agli enti locali in materia di sicurezza. Le forze di polizia restano i principali attori, ma anche i Comuni devono rispondere alla percezione di insicurezza del cittadino attraverso la polizia locale (che non appartiene alle forze dell’ordine), i servizi sociali e provvedimenti di carattere urbanistico.

La Regione Lombardia (legge regionale 4/2003) diventa soggetto di legislazione e programmazione, tenendo presente l’autonomia degli enti locali e il rispetto delle competenze statali. Uno dei percorsi affrontati in regione è stato di favorire l’associazionismo tra enti locali.

L’evoluzione del fenomeno. Alberto Vitalini (Istat Lombardia) ha invitato alla cautela e, più che fornire risposte, ha aumentato in modo salutare i dubbi. Non mancano i dati a disposizione, ma il fenomeno è complesso. Nel totale dei delitti Brescia risulta al secondo posto (dopo Milano), ma il dato significa poco. Non si considerano i flussi reali di persone (diversi dalla popolazione residente) e soprattutto vengono aggregati reati diversi. Come si fa a mettere insieme, ad esempio, furti e violenze sessuali?

Nelle statistiche ufficiali, inoltre, influiscono gli andamenti della criminalità reale, le scelte operative delle forze dell’ordine e della magistratura (la propensione a perseguire determinati reati rispetto ad altri), la propensione o meno alla denuncia, la modificazione delle modalità di raccolta dei dati (dal cartaceo all’informatizzazione). Fino a quando non si troverà il modo di scomporre tali fattori occorre perciò molta cautela prima di affermare che la criminalità sta crescendo o diminuendo.

Un osservatorio della devianza. E’ necessario, ha affermato il rappresentante dell’associazione Carcere e Territorio di Brescia Gabriele Ringhini, mettere in campo un osservatorio. Non solo con finalità quantitative, ma anche in grado di leggere ed interpretare fenomeni sociali complessi, ricorrenti in tutte le società economicamente avanzate, ancora incapaci di coniugare benessere economico e sociale. Manca un approccio culturale adeguato ad affrontare l’analisi del fenomeno criminale, spesso affrontato con troppa emotività, rassegnazione o spinte repressive.

Il ruolo della scuola. La scuola, ha affermato Maria Carla Scorza del Csa di Brescia, rappresenta un osservatorio particolare della devianza giovanile. E’ un luogo della prevenzione e dove poter percepire segnali silenziosi o visibili del disagio giovanile. Questo vale ancora di più, ha sostenuto, nel momento in cui il patto formativo tra scuola e famiglia non c’è più. La famiglia è sempre più percepita come luogo degli affetti, ma non come luogo normativo.

Il senso di insicurezza. I valori di insicurezza rilevati in Italia rispetto ai paesi europei sono corrispondenti, ma allora perché da noi si avverte un senso di insicurezza maggiore?

Le risposte, ha affermato il docente di Criminologia e motore dell’associazione Carcere e Territorio Carlo Alberto Romano, sono diverse. Problemi di diffidenza nei confronti dell’autorità e l’inquietante fenomeno della scarsa propensione alla denuncia o la presenza di una criminalità organizzata così forte. O la stessa presenza di forze di polizia sul territorio: alcuni ricercatori ritengono che aumentare la visibilità della polizia (quanto si è fatto in Italia negli ultimi anni) in realtà aumenti il senso di insicurezza invece di risolverlo. La questione, ha proseguito, si gioca sulla capacità dell’operatore di interagire sul territorio. Altro aspetto è l’enfasi mediatica che dà eccessivo peso ad alcune tipologie di reati rispetto ad altre. Urge, ha concluso, individuare strumenti alternativi di risposta. Thomas Bendinelli

 

 

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