Rassegna stampa 25 maggio

 

Proposta di legge contro la tortura di Apt, Antigone e Amnesty

 

Ratifica ed esecuzione del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, fatto a New York il 18 dicembre 2002

 

Proposta di legge di iniziativa dei senatori

 

De Zulueta, Battisti, Malabarba, Pagliarulo, Peterlini, Salvi, Zancan, Acciarini, Basso, Brunale, Paolo Brutti, Cortiana, D’andrea, De Petris, Di Siena, Donati, Falomi, Flammia, Franco, Garraffa, Giaretta, Iovene, Longhi, Magistrelli, Marino, Maritati, Martone, Monticone, Muzio, Occhetto, Petrini, Piloni, Pizzinato, Ripamonti, Rotondo, Sodano, Tessitore, Turroni, Vicini, Vitali, Viviani, Zanda

 

Dopo oltre un decennio di lavori preparatori e di pressioni delle organizzazioni non governative, prime fra tutte l’Apt di Ginevra, Antigone e Amnesty International, in data 18 dicembre 2002, l’Onu ha adottato (con 127 voti favorevoli e solo 4 contrari) il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti del 1984, in tal modo promuovendo un ulteriore passo in avanti nella protezione dei diritti umani.

La tortura è un crimine contro l’umanità, perseguito anche a livello di Corte Penale Internazionale. È necessario, quindi, attivarsi in tutte le sedi per prevenire il perpetrarsi di tale crimine e per sanzionarne gli autori.

Lo scorso marzo, durante un Convegno organizzato dalle associazioni Amnesty International e Antigone, i componenti del Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite hanno auspicato una pronta ratifica del nostro paese.

In particolare, obiettivo del Protocollo, è quello di istituire un sistema di ispezioni regolari a livello universale nei luoghi di detenzione per prevenire la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Si tratta di un meccanismo ispettivo fondamentale per assicurare standard elevati di tutela dei diritti delle persone private della libertà. Quanto accaduto in questi mesi a Guantanamo e nelle prigioni irachene rende ancora più urgente l’immediata entrata in vigore di nuovi ed efficaci organismi di controllo, privi di condizionamenti delle grandi potenze.

La Convenzione del 1984 prevedeva forme non penetranti di controllo. Con il protocollo si è fatto un enorme passo in avanti. Da un lato è stata prevista la creazione di un "Sottocomitato di prevenzione" facente capo al Comitato contro la tortura e, dall’altro, a livello di ogni Stato firmatario (ed il nostro Paese è stato uno dei primi), viene imposta l’introduzione di un meccanismo nazionale di prevenzione consistente in un organo indipendente di controllo dei luoghi in cui le persone sono private della libertà.

Dunque, oltre al previsto comitato internazionale di esperti indipendenti con facoltà di verifica ispettiva degli istituti di detenzione e dei posti di polizia dei Paesi membri, nel Protocollo è stabilito che ogni Stato debba istituire un "sistema" interno di controllo affidato ad un’autorità indipendente che abbia accesso ad ogni luogo di privazione della libertà: non solo carceri, quindi, ma anche stazioni di polizia, centri di detenzione per immigrati, ospedali psichiatrici, etc.

Il trattato entrerà in vigore al deposito della 20° ratifica e, da quel momento, il riflesso nella legislazione interna di ogni paese sarà immediato (essendo, infatti, pari ad un anno il termine entro il quale gli Stati dovranno istituire la citata figura indipendente di controllo).

L’Italia ha firmato il Protocollo sin dal 20 agosto 2003. La situazione internazionale rende evidente quanto sia urgente raggiungere al più presto l’obiettivo della ventesima ratifica.

L’auspicata ratifica del citato Protocollo da parte dell’Italia si "salderebbe", inoltre, perfettamente alla discussione, già avviata in Commissione Affari Costituzionali alla Camera dei Deputati, sul garante nazionale delle persone private o limitate nella libertà personale.

Con la presente proposta di legge, in linea con l’impegno che il nostro Paese ha sempre mostrato su questi temi delicati e fondamentali, si intende quindi sollecitare la ratifica e l’esecuzione del Protocollo opzionale adottato dall’ONU il 18 dicembre 2002. Se il nostro Paese ratificherà tale protocollo potrà essere da traino a molti altri Paesi.

 

Articolo 1

 

1. Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare il Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite del 10 dicembre 1984 contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, fatto a New York il 18 dicembre 2002.

 

Articolo 2

 

Piena ed intera esecuzione è data al Protocollo di cui all’articolo 1, a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in conformità a quanto previsto dall’articolo 28 del Protocollo stesso.

 

Articolo 3

 

La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

Magistrati in sciopero: "Ma non fermiamo i tribunali"


Corriere della sera, 25 maggio 2004

 

Oggi scioperano i magistrati. È la seconda volta che le toghe incrociano le braccia per protestare sempre contro lo stesso provvedimento governativo, il disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario. "L’astensione non ci fa paura. Noi andremo avanti con buonsenso per la nostra strada", il commento di Roberto Castelli, ministro della Giustizia.

"Credo di essere l’unico ministro contro i quali i magistrati hanno scioperato già due volte e questo è un record". La prima protesta fu fatta due anni fa: aderì allo sciopero l’85% dei magistrati. Oggi le previsioni dicono che l’adesione potrebbe essere ancora più alta: in questi due anni le associazioni dei magistrati hanno tentato inutilmente di trattare con il governo i punti della riforma. Tutte le trattative sono fallite.

Per questo adesso la categoria appare molto più compatta nella protesta. "Abbiamo sempre avuto una partecipazione elevata alle nostre proteste", dice Pietro Martello, vicepresidente dell’Anm. E aggiunge: "Siamo convinti che l’avremo alta anche in questa occasione, visto che il malcontento tra i colleghi è altissimo, anche da parte di quelli che non avevano mai preso parte alle nostre iniziative". Allo sciopero di oggi hanno infatti aderito tutte le correnti dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) e sono tante le adesioni dei capi degli uffici.

Ovvero: i procuratori capi (tra questi quelli di Roma, Firenze, Palermo, Milano, Torino, Venezia, Bologna, Bari, Cagliari, Genova, Catania); i procuratori generali (Roma, Firenze, Torino, Venezia, Ancona, Cagliari, Catania). Anche i giudici togati hanno dato la loro ferma adesione. Di più: le due correnti di sinistra del Consiglio superiore della magistratura (che nel concreto non hanno la possibilità di scioperare) hanno fatto sapere che devolveranno all’Anm la giornata del loro stipendio di oggi. "Ad andarci di mezzo per questo sciopero non saranno né i magistrati né il ministro, ma soltanto quei cittadini in attesa di udienza" la valutazione laconica del ministro Roberto Castelli.

Non tutte le udienze, tuttavia, oggi saranno sospese. Le porte di tribunali e di procure, infatti, rimarranno aperte e nelle aule penali verranno celebrati tutti i processi con i detenuti, ma anche quelli per i quali è imminente la prescrizione e quelli in cui si debbano compiere atti urgenti, come un sequestro. Udienze in programma anche per alcuni processi civili: quelli dove è in ballo un licenziamento e quelli per i procedimenti sommari di natura cautelare.

Il ministro della Giustizia ha chiesto di avere entro mezzogiorno di oggi le liste dei nomi di chi ha aderito alla protesta: una richiesta fatta già da qualche giorno e che ha suscitato un po’ di polemiche e perplessità, ma alla quale Edmondo Bruti Liberati taglia corto: "Vedremo quello che si può fare. Ci sono udienze fissate alle dieci, il che significa che prima della fine della mattinata non ci potranno essere dati attendibili sull’adesione alla protesta".

Sono tante le polemiche per questo sciopero, prima fra tutte quella interna ai Palazzi di giustizia degli avvocati penalisti: hanno fatto volantinaggio in questi giorni per distribuire il manifesto dell’Unione delle Camere penali e difendere la separazione delle carriere. Quella separazione invocata ieri nell’intervento di Marcello Pera: il presidente del Senato ha citato Giovanni Falcone per difendere la riforma dell’ordinamento della giustizia.

E Giuseppe Ayala, ex Pm dell’antimafia e oggi senatore diessino, non ha dubbi: "La citazione di Pera è giusta. Falcone disse infatti che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono valori che non vanno protetti solo rispetto ad altri poteri dello Stato, ma anche all’interno della magistratura". Secondo Ayala, tuttavia "non si può usare Falcone come un alibi per procedere come una falange armata sulla riforma dell’ordinamento giudiziario". Secondo Piero Fassino, segretario dei Ds, è "sconcertante" questo intervento che viola l’imparzialità della seconda carica dello Stato.

Oristano: "nel carcere poca igiene, pericoli e troppi detenuti…"

 

L’unione Sarda, 25 maggio 2004

 

 

Il carcere deve dire addio a piazza Manno. Nessun intervento può servire a migliorare la struttura, l’unica soluzione è la sua chiusura. Ne sono convinti i membri di una delegazione di Rifondazione comunista che ieri mattina hanno fatto visita alla casa circondariale. Due ore tra sbarre, bocche di lupo e piccole celle per convincersi ancora una volta che è necessario un nuovo penitenziario.

"Anni fa avevo visitato il carcere di Oristano - ricorda Giovanni Russo Spena, deputato e membro della Commissione Giustizia, - e oggi la mia impressione è uguale a quella di ieri: questo carcere deve chiudere, non può stare qui". I problemi sono innumerevoli a partire dall’umidità per arrivare agli spazi ridotti e alla strutture igieniche carenti.

La doccia può essere fatta soltanto ogni due giorni; ci sono solo otto impianti a disposizione dislocati tutte sullo stesso piano, "così i detenuti sono costretti a spostarsi da una parte all’altra in accappatoio e scortati dagli agenti", aggiunge il deputato di Rifondazione. Mancano le aree verdi e una biblioteca attrezzata: la sala di lettura, con pochi e vecchi libri, è piccola e buia. Si parla di realizzare dei prati in erba sintetica per creare delle zone per la socializzazione o gli incontri con le famiglie, ma per ora è soltanto un progetto.

Attualmente in piazza Manno sono ospitati 101 detenuti (tra cui due donne), un quinto sono immigrati e circa la metà sono tossicodipendenti. "La situazione rispetto ad altre carceri italiane non è drammatica per sovraffollamento - continua Giovani Russo Spena, - ma non è accettabile vivere ancora con le bocche di lupo (abolite nel resto d’Italia) o in spazi così ristretti.

Bisogna chiudere e restituire alla città un monumento storico come la Reggia giudicale". Il carcere di piazza Manno era stato inserito nel progetto delle nuove strutture penitenziarie, aveva anche la priorità, ma è tutto bloccato.

"Forse al Ministero interessa costruire nuove carceri laddove è maggiore l’allarme sociale e la priorità Oristano slitta sempre, - dice Russo Spena, - ma buona parte della responsabilità va al Comune che non sceglie l’area su cui realizzarla". E se la Giunta Barberio non smette con i tentennamenti rischia di perdere i fondi, tanto più che sono congelati anche i 600 milioni di vecchie lire stanziati anni fa per l’abbattimento delle bocche di lupo: bloccati in attesa del nuovo carcere. Se non si decide in fretta si perde tutto.

Cagliari: "Traffico e parcheggi, vere emergenze Buoncammino"

(Dichiarazione del Comandante della Polizia Penitenziaria)

 

L’unione Sarda, 25 maggio 2004

 

Le attenzioni dei responsabili del carcere di Buoncammino sono rivolte alla sanità (è in corso uno screening tra i detenuti malati) ma anche ai problemi posti quotidianamente dalla sicurezza. Il nuovo comandante degli agenti, il commissario Pietro Torre, ha messo al primo posto gli accessi all’edificio.

"L’ingresso e l’uscita degli automezzi - dice l’ufficiale - è diventato quasi impossibile se non si vuole bloccare il traffico diretto in piazza d’Armi.

La soluzione migliore - visto che il portone d’ingresso è a raso - sarebbe chiudere il viale al traffico e cercare un’alternativa. Ciò che accade durante l’arco della giornata è al limite dell’assurdo". Forse il Ministero sta correndo ai ripari consentendo l’allargamento della porta carraia all’interno del complesso carcerario. Ma senza una soluzione urgente c’è il rischio che tutto si complichi.
Così come un problema che sta a cuore ai dirigenti del carcere è la sistemazione del parcheggio che si affaccia in viale San Vincenzo.

"Una pietraia - dice il commissario Torre - che con una piccola sistemazione a parcheggio, senza grandi interventi, garantirebbe i posti auto che occorrono ai 100 dipendenti che si alternano nei vari turni di servizio".

Nell’attesa si può assistere anche di giorno ai colloqui all’aperto tra detenuti e familiari: un sistema per sfuggire alla lunga coda dei colloqui che talvolta hanno bisogno dei bigliettini o di una prenotazione in base all’area di provenienza.

Forlì: muore detenuto che s'era impiccato dopo condanna a 30 anni

 

Il Resto del Carlino, 25 maggio 2004

 

Giuseppe Petronici Reggiani, 53 anni, il 12 maggio viene condannato a trent’anni di carcere, per avere ucciso il padre adottivo Dino Reggiani, 91 anni, al termine di una lite, nell’ottobre 2003. La notte seguente alla sentenza si impicca, nella sua cella del carcere di Forlì. Viene soccorso e trasportato, in coma, all’Ospedale cittadino. Non si risveglierà più dal coma.

L’accusato si era presentato al processo come reo confesso. La notte dell’ 8 ottobre l’omicida strangolò l’anziano, che lo aveva adottato per permettergli di mantenere il possesso dell’appartamento di edilizia pubblica, dopo una nottata di litigi sempre più violenti.
L’uomo cercò di occultare l’accaduto con un lenzuolo sporco di sangue, inscenando un malore mortale del genitore. Dopo un interrogatorio durato oltre 14 ore Petronici Reggiani crollò, confessando di avere strangolato, in preda ai fumi dell’alcool, il genitore.

Trapani: confronto a più voci dedicato alle vittime della mafia

 

La Sicilia, 25 maggio 2004

 

Il progetto per la "legalità" condotto all’interno della casa di reclusione di San Giuliano, ha vissuto ieri nell’aula conferenze dell’istituto penitenziario, davanti ad un centinaio di detenuti e detenute, presenti operatori carcerari, educatori e docenti, un intenso momento di partecipazione con un confronto a più voci dedicato ai giudici Gian Giacomo Ciaccio Montalto e Alberto Giacomelli e a Rita Atria.

"È una iniziativa – spiega la direttrice Francesca Vazzana – che va avanti da tempo, adesso è il momento scelto per discutere di legalità e di mafia, e la cosa rilevante è che questo confronto è stato sviluppato con la partecipazione di chi oggi qui si trova a scontare condanne inflitte per la partecipazione all’associazione mafiosa".

Valutazioni positive quelle che sono state fatte ieri da chi ha partecipato al dibattito. C’erano mons. Gaspare Gruppuso, il pediatra Benedetto Mirto che ha portato una toccante testimonianza dedicata al giudice Montalto, Bianca Guzzetta e Anna Lisa Castiglione, protagoniste del film-documento "Picciridda" di Alberto Castiglione e dedicato a Rita Atria.

Un detenuto ha anche letto la lettera inviata da frate Giuseppe, figlio del giudice Giacomelli. Tra i partecipanti al dibattito c’è stata anche Margherita Asta. È coordinatrice di "Libera" ed è figlia e sorella delle vittime della strage mafiosa di Pizzolungo del 1982.

"Sono venuta qui – ha detto – per portare segnali di pace e serenità, indispensabili per reagire al fenomeno mafioso, per far cambiare la società. Sono venuta a dire che il carcere deve essere vissuto come momento di riflessione, perché non si può restare indifferenti rispetto a ciò che ci circonda. La mafia – ha concluso – ha cambiato aspetto, ma esiste ed è più forte di prima, ognuno deve dare un contributo, deve fare ciò che può". E la partecipazione al dibattito ha dimostrato che in tanti hanno maturato questa voglia.

Caltanisetta: carcere minorile, appello operatori a Fassino

 

La Sicilia, 25 maggio 2004

 

Una delegazione di operatori del carcere minorile di Caltanissetta, accompagnata dal segretario dei Democratici di Sinistra Salvatore Parenti e dal segretario della Funzione pubblica della Cgil Rosario Di Prima, ha consegnato domenica scorsa al segretario nazionale dei Ds Piero Fassino una petizione contro la chiusura del carcere minorile di via Turati.

"I Democratici di Sinistra di Caltanissetta - afferma Parenti - esprimono solidarietà alle famiglie che rischiano di doversi trasferire in altre strutture dell’isola. Il segretario Fassino ha accolto la petizione ed ha assicurato l’impegno del gruppo parlamentare Ds per impedire che il Decreto di soppressione del Ministro Castelli sia causa di disagi e sofferenza alle famiglie dei lavoratori, danno per la città che perde un’altra struttura che nel territorio svolge una importantissima funzione sociale per il recupero dei minori in stato di detenzione.

L’incredibile scelta del Ministro leghista costringerà il definitivo trasferimento dei detenuti che a breve sarebbero stati accolti nel centro ristrutturato, in strutture carcerarie che non operano per il reinserimento ed il recupero dei giovani".

I Democratici di Sinistra definiscono "cinica e condannano la scelta del Governo che "ancora una volta penalizza un territorio del Sud e non tiene conto delle emergenze sociali che anziché trovare impegno e risorse da parte del Ministero, viene privato delle strutture indispensabili per affrontare adeguatamente i problemi".

Come abbiamo avuto modo di anticipare nei giorni scorsi, sul futuro della struttura di via Turati si parla da punti di vista opposti; da una parte il personale di Polizia Penitenziaria che contesta l’annunciata chiusura dell’Istituto Penale e del Centro di Prima Accoglienza (con il conseguente trasferimento in sedi lavorative diverse dall’attuale); dall’altra chi puntualizza che in via Turati l’Istituto Penale minorile verrà riaperto, ma con una sezione unicamente femminile che porterà a Caltanissetta personale compatibile con questo tipo di detenzione.

Roma: Vita da prof tra i detenuti, parla Edoardo Albinati

 

Avvenire, 25 maggio 2004

 

Edoardo Albinati a Roma Rebibbia insegna dal 1994 lettere a Rebibbia. A 18enni e 70enni. "La scuola è una pausa in una giornata di 20 ore di caos in cella". "Sono sensibili ai giudizi e hanno rispetto per me, come scrittore e come docente". "C’è chi sconta per periodi lunghi, anche l’ergastolo, e sono gli studenti migliori: quelli che frequentano più a lungo, si applicano con più pazienza".

Oggi, dice, è un po’ spompato: "Sono uscito dalla galera alle 14.30 e ho la lingua di fuori. Se si trattasse soltanto di fare scuola… ma coi detenuti le parole hanno sempre un altro peso, e un’altra funzione". Edoardo Albinati insegna lettere a Rebibbia dal 1994. Adesso ha il part time: 11 ore settimanali, divise in tre giorni. "Essendo un istituto tecnico industriale, ho una classe prima e una quinta".

 

Oltre lo stipendio, gli danno 300 euro all’anno in più come "indennità di rischio". Fare scuola in carcere è stata una scelta o una necessità?

"Una scelta, l’ho chiesto io. Ma anche una necessità, perché ero stanco di insegnare in una scuola normale. Ero burned out: cotto".


Chi sono i suoi alunni? Che età hanno?

"Sono detenuti di ogni estrazione e nazionalità, che hanno già la licenza media. L’età va dai 18 anni in su, ho anche avuto studenti di 65-70 anni".


Come è stato accolto?

"All’inizio? Bene, mi sembra. Poi, sa?, ogni anno ho persone diverse: tranne pochi, che continuano, il ricambio è notevole; è come se ogni settembre si ricominciasse da capo".

 

Non ha una memoria forte del primo impatto?

"Fino al giorno prima ero in una qualsiasi scuola della periferia romana; il giorno dopo sono stato catapultato dentro le mura di Rebibbia. Avevo una classe numerosa: una trentina di studenti, in una cella molto piccola. Il ricordo più forte è lo stesso per tutti coloro che mettono piede la prima volta in carcere: sarà banale, ma è il suono metallico del grande portone d’accesso, i cancelli blindati che ti si chiudono alle spalle…".


Sapevano che lei è uno scrittore?

"Oh, no. Non ci tengo a presentarmi come uno scrittore. Poi, certo, dopo aver pubblicato Maggio selvaggio, il diario di un anno d’insegnamento a Rebibbia, che alcuni hanno letto…".


La scoperta ha destato curiosità, interesse?

"Nei confronti di figure come quella dello scrittore, alcuni reclusi hanno un atteggiamento vagamente reverenziale. Ma anche verso il professore in quanto tale. Una differenza con la scuola normale è anche questa: in galera ancora lo si considera una figura rispettabile, "Cavolo, ha una laurea!" quantomeno, è degno di attenzione".

 

Con quali difficoltà, insufficienze, problematiche, strutturali e umane, si deve misurare?

"Con tutta la gamma immaginabile: povertà assoluta di mezzi, libri di testo mancanti o spaiati… Burocrazia che rende difficile l’accesso a scuola dei detenuti... Studenti malati che non riescono a curarsi… Questioni di ordine psicologico: dalla fortissima pressione dell’ambiente all’avere a che fare con persone che comunicano una dose di aggressività o di dolore o di rassegnazione; e poi l’insanità generale del luogo, perché la galera è un posto veramente fetente, va detto senza mezzi termini. Il che rende, almeno in parte, la scuola come un momento necessario, diverso o comunque di sospensione e di liberazione".

 

Le accade di dover affrontare anche la diffidenza, la provocazione, lo scherno?

"Scherno, no. Diffidenza, senz’altro, è una legge del carcere: io stesso ho imparato a essere diffidente da quando ci insegno".

 

Lo è all’interno e all’esterno?

"Assolutamente. È un’esperienza interessante per me, che sono un figlio di papà, per molti versi, cresciuto nella bambagia. Lì, insomma, tra quello che uno dice e quello che uno è davvero… Prima di dare il proprio cuore o le proprie confidenze a qualcuno ci si pensa su due volte. Provocazione? Beh, essendo un mondo esclusivamente virile, è come stare in caserma o in uno spogliatoio o nella curva di uno stadio. È chiaro che si sentono forti attriti, che tuttavia s’impara a dominare. Un certo self-control me l’hanno insegnato i detenuti stessi".

 

Come supera i disagi? Dove rintraccia le motivazioni?

"Le motivazioni profonde restano sepolte dentro l’anima, dentro la mente", sorride Albinati. "Diciamo che mi è utile mettermi alla prova: è una specie di palestra interiore, che costa fatica ma può dare anche un insolito piacere. Le pressioni è impossibile non viverle profondamente, soprattutto in certi periodi dell’anno. Per esempio verso Natale il pathos negativo di drammi, di tristezze è quasi insostenibile… Ma, siccome ci tengo a insegnare, cerco di tenere a bada l’emotività, perché, se diventa troppo invadente, ti impedisce di lavorare. Proprio ieri si è sfogata con me una insegnante, poveraccia, era psicologicamente distrutta da confessioni e richieste di aiuto che le erano state rivolte da alcuni studenti".

 

Lo studio che cosa rappresenta per i detenuti? Una parentesi? Un progetto? Un riscatto? Una speranza?

"Quasi tutti sono in cella con altri, in condizioni degradanti, e studiare, mentre c’è chi guarda la tv, chi si cuoce la pasta, chi litiga, eccetera, è molto difficile. Trascorrere un po’ di tempo a scuola può essere una sospensione dal caos ininterrotto delle 20 ore di cella quotidiane. Per qualche detenuto si tratta veramente di un progetto chiaro di riscatto o di riabilitazione sociale: il corso termina con l’esame di stato per cui si diventa periti industriali con indirizzo informatico, e ad alcuni serve a rientrare nel mondo del lavoro, intendiamoci, il lavoro pulito. Per altri venire a scuola è semplicemente un modo meno disumano di passare il tempo".

 

Sono sensibili ai suoi giudizi?

"Eh, accidenti, come ragazzini: c’è il secchione, il saputello, quello che se prende quattro non dico che si mette a piangere, ma quasi… Non mancano momenti simpatici: per esempio il giorno del colloquio con le famiglie. Lì, generalmente, sono i figli che ci chiedono: "Papà, come va in matematica? E in italiano?". E il papà arrossisce".

 

Accade che contestino i suoi voti?

"Sì, sì. Come nella scuola normale, anche in carcere non mancano allievi caratteriali… e non sono caratteri da poco! C’è chi sconta pene lunghe: anche l’ergastolo. E sono gli studenti migliori: frequentano più a lungo, si applicano con più pazienza, talvolta saltano i pasti per studiare e alla fine si diplomano".

 

Affrontano gli esami con gli stessi patemi di u n alunno qualsiasi?

"Certamente: notti bianche, sudarelle. Malgrado alcuni siano delinquentoni notevoli, quando fanno gli esami hanno le mani che gli tremano. La scuola, in galera, conferma esattamente quello che è, con le gelosie, le invidie, le speranze, le sindromi più classiche da timidezze. In un certo senso è un perfetto laboratorio per l’insegnamento".

 

Gli studenti le fanno delle richieste?

"Di ogni tipo. Ma la richiesta fondamentale è di sostegno psicologico". Si confidano? Che cosa le confidano, in particolare? Aspettative? Pentimenti? Rimorsi? Umiliazioni? "La confidenza vera è rara. Ed è giusto che sia così. Il carcere è anche un luogo di infinita menzogna, perché tutto quello che uno dice potrebbe essere usato strumentalmente. Non si è mai sicuri di aver ottenuto una piena sincerità. Anche con il professore. E una verità ultimissima non va nemmeno chiesta. Preferisco il pudore".

Ha fatto anche l’esperienza della sconfitta?

"Mi sento sconfitto quasi tutti i giorni: se penso che il 70 per cento dei detenuti torna a delinquere… che alcuni dei nostri migliori studenti si sono fatti ammazzare appena usciti dalla galera, e avergli insegnato la grammatica e Petrarca non li ha salvati... Intendiamoci, non mi sento responsabile, ma di fronte a un caso di estrema violenza accaduto pochi giorni fa mi viene da riflettere: "Sto lì a sfiatarmi, gli insegno che io ho si scrive con l’h, e poi...". Del resto, la condizione di qualsiasi insegnante, fuori ancora di più che in carcere, include la possibilità dello scacco".
Ha la tentazione di fuggire o gli scacchi sono un pungolo ulteriore ad andare avanti?
"Entrambe le cose. Penso ogni giorno di smettere. Anche stamattina mi sono detto: "Basta!". L’insegnamento in galera è sempre più boicottato. E l’atmosfera si è molto deteriorata negli ultimi due - tre anni perché i detenuti hanno perduto quasi ogni speranza di riforma (e di riscatto) che si erano illusi di conquistare. L’attesa sfibrante crea una rassegnazione che si riverbera negativamente su qualsiasi attività".


Chi ha lasciato un segno?

"Sono un po’ invecchiato dentro Rebibbia, e tanti dei miei cambiamenti li devo alle persone che vi ho conosciuto. Quando i miei studenti hanno delle crisi e vorrebbero lasciare, dico: "Guarda, se tu molli la scuola la fregatura la dai a te stesso ma anche a me! Su di te ho investito, ho speso più energie e tempo con te che a educare i miei figli!!".

 

Cosa si augura di trasmettere?

"Mah, soprattutto un entusiasmo per la bellezza e la verità: talvolta vedo che questo fiammifero si accende di colpo. E poi un dubbio metodico sulle proprie certezze. Molti detenuti sono prigionieri prima di tutto di una mentalità. Allora la missione principale di chi insegna è rompere questa coazione a ripetere. Mostrare come certe cose sono più complicate di come sembrano, che certi valori, per esempio il denaro, per cui molti ragazzetti finiscono in galera, sono vuoti, fasulli, si possono smontare pezzo a pezzo".

 

Qual è la lezione che ha imparato?

"Ho toccato con mano la capacità che hanno le persone di resistere nelle più difficili condizioni. Ma temo di non averlo imparato sul serio, io forse non resisterei".

 

Tornerà a insegnare in una scuola normale?

"Mai. La risposta suona antipatica. Ma è impossibile tornare indietro. Il mio problema semmai sarà: "E adesso, cosa c’è più in là della galera? Insegnare ai marziani?"".

Pordenone: donna s’incatena per rivedere il marito detenuto

 

Il Gazzettino, 25 maggio 2004

 

Si è incatenata a un palo della segnaletica stradale, sotto palazzo Lovaria, nel tentativo di attirare l’attenzione della Procura di Udine. Ai magistrati chiede di poter rivedere suo marito, Salvatore Viro, 40 anni, siciliano, in carcere dal 13 gennaio con l’accusa di essere uno degli autori della rapina alla Laser srl di via Di Prampero a Udine.

"Mi va bene anche un colloquio sorvegliato - spiega Patrizia Apuzzo, 23 anni, all’ottavo mese di gravidanza - ma almeno me lo facciano vedere". Per due volte le istanze presentate dall’avvocato Filippo Capomacchia al sostituto procuratore Leonardo Bianco sono state rigettate, in quanto la giovane è a sua volta imputata di favoreggiamento e c’è il timore di un eventuale inquinamento delle prove. "Quello che dovevo dire l’ho detto - continua Patrizia Apuzzo. Mi hanno già interrogato, ho già spiegato tutto, non capisco perché non posso vedere mio marito".

La sua speranza è di poter riabbracciare il compagno, che si trova nel carcere di Tolmezzo, e di averlo accanto durante il parto. Ieri, poco prima delle 13, ha tentato con un gesto eclatante di poter parlare con il magistrato e di sensibilizzare la Procura.

Si è legata al palo con una catena di ferro e ha chiuso le estremità con un lucchetto. Due ore dopo gli agenti della Squadra Volante l’hanno convinta a tornare dalla sua bambina di tre anni e a percorrere le strade ufficiali. "Vedremo se c’è la possibilità di ottenere un colloquio assistito in modo che il papà possa vedere il bambino che deve nascere", ha detto l’avvocato Capomacchia, che nei prossimi giorni si rivolgerà al gip. Nei mesi scorsi, oltre alle due istanze di colloquio rigettate, è stato respinto anche il ricorso al Tribunale del riesame, con il quale si chiedeva di annullare la misura cautelare in carcere o che fossero concessi gli arresti domiciliari.

Brescia: sipario aperto sul teatro in carcere

 

Il Giornale di Brescia, 25 maggio 2004

 

Il prossimo 11 giugno l’Università Cattolica di Brescia, nella sua sede di via Musei 41, organizza una mattinata di studi dedicata al tema del teatro in carcere, partendo da un’esperienza bresciana in corso nella Casa circondariale di Verziano e allargando il tema al panorama nazionale. Sembra infatti prospettarsi una stagione favorevole per il teatro in carcere.

Il segnale di un rinnovato interesse mediatico e politico a questo tema si è avuto lo scorso gennaio, in occasione dello spettacolo "Shooting Romeo & Giulietta" del coreografo Philippe Talard, in scena nel carcere di Rebibbia a Roma. Sull’insolita ribalta, dopo un percorso preparatorio di due mesi, alcune donne e uomini detenuti hanno danzato con attori professionisti. L’evento ha attirato l’attenzione della stampa. È stato infatti il biglietto da visita con cui il Ministero di Giustizia ha presentato un suo progetto d’intervento. Parte del piano è un monitoraggio, non ancora concluso, che censisce i laboratori teatrali presenti nelle carceri italiane.

Accanto a questo, un Protocollo firmato dall’Amministrazione penitenziaria, dai Ministeri di Giustizia e dei Beni Culturali. Tra gli obiettivi: valorizzare i progetti artistici e culturali a favore del recupero dei detenuti. Il teatro, oltre a musica, lettura, cinema e sport, è strumento centrale per offrire formazione professionale e concrete possibilità di inserimento lavorativo ai detenuti coinvolti. Del resto il teatro ben si presta a tutto ciò, perché si rivolge a tutti, grazie alla molteplicità dei linguaggi e delle risorse che valorizza: il corpo, la voce, la scrittura creativa, la tecnica nella realizzazione di scenografie, nella cura dei suoni e delle luci, nelle riprese video.

Il monitoraggio in corso attesta, negli istituti di pena italiani, una diffusione notevole di esperienze teatrali dagli svariati approcci e metodi. Si parla di 107 istituti in cui è attivo un laboratorio teatrale e/o musicale, su 206 presenti in Italia, e di 1676 detenuti coinvolti, su un totale di 54.237 registrati dal Dap (31/12/2003) e di 57.277 secondo i dati forniti da Gruppo Abele e Cgl (Convegno su carcere, indulto e droghe, Camera del lavoro di Milano, 27/6/2003).

Occorrono alcune precisazioni. I dati pubblicati sul sito del ministero, divulgati a gennaio dalla stampa, si riferiscono ad un ampio ventaglio di attività: laboratori teatrali e di danza, di canto corale e di strumenti musicali, corsi di formazione per tecnici di scena, del suono, delle luci e corsi di formazione per conduttori di interventi teatrali rivolti a persone emarginate (come disabili e anziani). Non vengono distinte esperienze occasionali e intensive, ma di breve durata, da altre che, spesso rimanendo nell’ombra, testimoniano invece un impegno costante e continuo.

Gradualità, lentezza e tempo condiviso sono premesse che alimentano la fiducia, ingrediente indispensabile non solo per mettersi in gioco attoralmente, ma per partecipare in modo attivo allo sviluppo di qualsiasi progetto comune, non calato dall’alto.

Teatro stride con carcere, che è realtà, non metafora, della costrizione del corpo, della privazione dell’affettività, dell’esclusione dalla "polis", la comunità sociale e politica. Teatro richiama corpi di uomini e donne che si toccano e che si incontrano, creatività condivisa. Implica esplorazione, cura di sé e degli altri, il coraggio di esporsi, collaborazione, comunicazione... Teatro in carcere sa, quindi, di ossimoro, ma ha molto da offrire. Il teatro aiuta a tessere relazioni e contribuisce all’incontro tra la città e una parte del suo cuore, rifiutata e separata. Il prezzo richiesto è un percorso consapevole e paziente che non si riduce a uno spettacolo di successo, ma riconosce in primo luogo la dignità di ogni persona coinvolta.

 

 

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