Sergio Segio

    

Nuove BR: un’idea per batterle, la pietà fermi quel treno

 

7 marzo 2003

 

di Sergio Segio

 

Mettersi nei panni dell’altro: è questa la motivazione che il giuslavorista Pietro Ichino mette alla base della sua recente "Lettera aperta ai terroristi", pubblicata dal Corriere della Sera. Una lettera cui hanno risposto prima il silenzio degli altri quotidiani, incapaci di riconoscere una notizia se questa nasce su una testata rivale, e quello imbarazzato della politica, troppo narcotizzata dal piccolo cabotaggio e dalla navigazione a vista per saper riconoscere la lungimiranza strategica di certe proposte, e, poi, gli spari sul treno Roma-Arezzo di domenica 2 marzo.

Spari che hanno paradossalmente confermato la forza e la validità della coraggiosa proposta di Ichino, da tempo sotto scorta in quanto ritenuto possibile bersaglio dei brigatisti.

Spari che hanno rimesso all’ordine del giorno la necessità di fermare i treni della morte. Non solo quelli delle forze armate USA. Anche quello delle nuove Brigate Rosse. E francamente un po’ stupisce che, a parte una rapida dichiarazione del solo Luca Casarini, non siano venute dalle tante anime del movimento, usualmente generoso nelle esternazioni, giudizi e critiche alle azioni delle Br. Non tanto nel senso della pur doverosa condanna morale, che tanto non si nega mai a nessuno e che lascia il tempo che trova. Quanto della lucidità di proporre iniziativa politica, se non immediate mobilitazioni, contro quella pratica e quella organizzazione di cui il movimento è vittima e irriducibile avversario. Anche se dimostra di non saperlo. O di non volerlo dire, il che fa lo stesso, in una curiosa e autolesionistica reticenza. Certo, può essere smarrimento o comprensibile stanchezza per questo intramontabile déjà vu. Pure, mi stupisce che all’indomani della sparatoria, dagli ambiti sociali, gli unici che hanno sentito il bisogno e l’importanza di una dichiarazione siano stati solo i portavoce del Forum del Terzo Settore.

Occorre sapere che le BR si cibano e rafforzano proprio di questi silenzi, delle reticenze a sinistra e della mancanza di coraggio. C’è un "testimone" che è passato di mano tra le vecchie e le nuove BR. E ciò è potuto succedere per il silenzio che ha caratterizzato gran parte della vecchia leadership brigatista. Beninteso, non intendo il silenzio davanti ai giudici, quello può essere comprensibile, di fronte al cannibalistico mercimonio operato a quel tempo dai cosiddetti "pentiti". Intendo il silenzio politico, la mancata responsabilità di governare pubblicamente la chiusura di quella esperienza. Di dichiararla estinta a tempo debito e nel momento giusto, vale a dire i primi anni Ottanta. Quando i leader BR rappresentavano effettivamente ed ancora l’organizzazione e la gran parte dei militanti. Non averlo fatto è stata un grave miopia e una detestabile mancanza di coraggio. I cui effetti sono anche quelli che vediamo in questi giorni: la terribile coazione a ripetere che un pugno di persone, giovani e meno giovani, hanno scelto, ma in qualche modo anche si sono trovate appiccicate addosso come un destino.

Negli anni Settanta, quando molti di noi, militanti dei movimenti di allora, rinunciarono alla forza della ragione per scegliere quella che ci appariva essere la ragione delle armi, avevamo ancora nelle orecchie e nelle teste l’eco resistenziale di una canzone: "Pietà l’è morta".

Oggi, mentre di nuovo la parola sembra tornare alle armi, nelle strade o sui treni italiani così come negli scenari internazionali, bisogna avere il coraggio di scegliere e indicare ad alta voce e a testa alta la strada del dialogo e della pietà. Come ha fatto coraggiosamente Pietro Ichino. Sapendo e dicendo che la pietà non è un sentimento e una logica divisibile: vale per gli uni e per gli altri, per le vittime e per i carnefici, per gli uccisi dell’11 settembre come per i bambini iracheni. Sennò, non vale. Sennò, è di nuovo logica di cinica contrapposizione, di disumanizzazione dell’avversario, che può alimentare l’infinita catena dell’odio. Pietà allora, per il poliziotto Emanuele Petri, ma anche per il brigatista Mario Galesi, vittima di se stesso e della propria cieca solitudine.

 

 

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