Giancarlo Caselli

 

Il carcere non deve gestire immigrazione, povertà e degrado

 

Libertà - Quotidiano di Piacenza, 9 settembre 2003

 

Entrambi quasi sommersi dall'abbraccio della folla come ai tempi di Mani Pulite in cui i PM erano divenuti gli eroi popolari del momento, Gian Carlo Caselli e Gherardo Colombo mostrano un approccio assai diverso nei confronti delle interviste. Dopo aver suscitato qualche anno fa un'infinità di polemiche con la celebre intervista a Giuseppe D'Avanzo sul Corriere della Sera in cui parlava di "società del ricatto", Colombo sembra divenuto molto più timoroso che le sue parole possano essere sottoposte a deformazioni politiche: non vuole parlare né di Berlusconi, né della recente sentenza con cui il tribunale di Milano ha condannato Cesare Previti.

L'unico spazio di intervento che si ritaglia è quello sui massimi sistemi contenuto nel suo bel discorso filosofico sul rapporto tra giustizia intesa come amministrazione delle norme e Giustizia in senso morale, sull'esclusione dei quattro quinti dell'umanità dal godimento dei diritti umani come dal benessere, sulla necessità del senso di responsabilità e della coerenza cui ciascuno di noi è chiamato. Molto più disponibile appare Giancarlo Caselli, uno degli intervistati più scrupolosi e "organizzati" in cui chi scrive si sia mai imbattuto: a ogni domanda, il procuratore fruga in una cartelletta azzurra, ne estrae carte e appunti, consulta dati e numeri.

La conversazione parte dalla "rimozione", da parte dell'opinione pubblica, dell'emergenza legata alla criminalità organizzata. "Situerei l'inizio di questa inversione di tendenza nel 1996 - commenta Caselli - I cittadini tendono da sempre a raffigurarsi la mafia essenzialmente come problema di ordine pubblico. Perciò, quando la conta dei morti cala, come grazie a Dio sta succedendo ora, il problema viene messo tra parentesi. Ma spesso è in momenti come questi che la mafia invece rafforza il suo potere". Da ex direttore dell'amministrazione penitenziaria, cosa pensa delle proposte per ridurre l'affollamento delle carceri?

E cosa pensa delle tesi di chi sostiene che, a questo scopo, occorrerebbe abolire il proibizionismo sulle droghe? "Che le carceri siano sovraffollate, in Italia e in tutta Europa, è un fatto. Che i reati legati alla droga abbiano in questo un grande peso è vero, anche se sul proibizionismo non mi sento di darle risposte. Osservo, però, che, a fronte di una legge penale che contempla quasi 4mila tipi di reato in Italia oggi si va in prigione per meno di dieci reati e tutti gravi, oppure perché si è recidivi. Certo, è possibile studiare alternative al carcere: per esempio, stabilire l'irrilevanza del reato per i furti meno gravi se la vittima viene risarcita.

E in generale la nostra società deve evitare che il carcere diventi il mezzo principale cui affidare la gestione della povertà, dell'immigrazione, del degrado sociale". Nei suoi anni alla Procura di Palermo la lotta alla mafia ha fatto un salto di qualità per numero di latitanti catturati e processi celebrati. Per molti il suo nome resta però legato soprattutto all'istruttoria che ha portato al clamoroso processo di Giulio Andreotti. L'assoluzione del senatore lo fa sentire sconfitto? "Per niente. Anche perché le sentenze hanno riconosciuto la fondatezza della ricostruzione operata dall'accusa su molti intrecci fra politica e mafia in Italia".

 

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