Eppur si muove...

 

Eppur si muove...

 

In carcere la situazione è così drammatica che solo un miracolo
di ragionevolezza fa sì che non esploda.

Ma "fuori" non se ne accorge quasi nessuno

 

di Nicola Sansonna

 

Dobbiamo essere grati al Ministro della Giustizia, ingegner Castelli, se qualcuno si è accorto che in carcere qualcosa si muove, che non tutto è morto, che la delusione per quell’amnistia, che doveva arrivare col Giubileo e non è mai arrivata, non ha comunque cancellato la voglia dei detenuti di farsi sentire. Se Castelli non avesse parlato di un presunto tentativo di strumentalizzare la protesta dei detenuti, che nel frattempo è arrivata a coinvolgere più di 100 istituti carcerari su un totale di 205, la protesta stessa sarebbe probabilmente passata in sordina. Delle manifestazioni pacifiche che dal giorno 9 settembre con diverse modalità stanno portando avanti migliaia di detenuti, non si sarebbe parlato.

A parte pochi giornali, le televisioni non avevano affrontato l’argomento, semplicemente lo avevano ignorato. Sicuramente non è un atteggiamento tranquillizzante: tacere di un avvenimento equivale a negarne l’esistenza. Il carcere fa notizia solo quando il sangue scorre a fiumi?

Gli anni passano ma i problemi del carcere restano, ingigantiscono, incancreniscono, sino a diventare "tragicamente normali". Tragica normalità, in cui versano molti degli Hotel a 5 stelle sparsi per la penisola. Quando il Ministro ha parlato di qualcuno che "fomenta" le rivolte nelle carceri, il primo pensiero che ci è venuto è che nelle carceri c’è poco da fomentare, è una situazione così drammatica che solo un miracolo di ragionevolezza fa sì che non esploda.

Sono 12 anni che non viene concessa un’amnistia. Molti di noi stanno scontando anni ed anni di galera, a cui sono stati condannati in un particolare periodo storico, quello della cosiddetta emergenza, prima per l’allarme terrorismo, poi per la mafia, ma le batoste le abbiamo prese in larga maggioranza noi "piccoli", quelli che vengono definiti "piccola criminalità", quelli che nulla c’entrano con terrorismo e mafia, semmai sono portatori di problemi sociali, ragazzi delle grosse periferie urbane, emarginati, tossicodipendenti, immigrati, ladruncoli di quartiere, e siamo la stragrande maggioranza.

Quello che ha spinto molti detenuti ad aderire alla piattaforma presentata dall’associazione culturale Papillon di Rebibbia, oltre che le condizioni di vita all’interno della stragrande maggioranza degli istituti, è anche la certezza per chi ha effettuato già da tempo i processi di aver subito un torto, un danno, nel senso che, se si vuole essere onesti, bisogna riconoscere che chi fa un processo ora, ed ha la possibilità di chiedere il patteggiamento o il rito abbreviato, ha un terzo di pena scontato. Se queste leggi fossero state in vigore quando fui arrestato, avrei 10 anni in meno di galera da scontare. Quindi un indulto e un’amnistia farebbero giustizia, pareggiando questa disparità almeno in parte, visto che le leggi in questione non erano retroattive.

Mi trovo rinchiuso da 24 anni (a parte una breve interruzione) e da sempre ho visto entrare in carcere parlamentari di destra e di sinistra, e la loro presenza è sempre stata per noi molto rassicurante perché sta ad indicare che non tutta la società e i politici che la rappresentano ci hanno relegati in un contenitore ermetico di devianza e problemi sociali. Sono in molti che ancora ci considerano persone, cittadini, che certo hanno sbagliato, ma che in ogni modo prima o poi torneranno nella società e per questo vanno aiutati. L’essere al momento detenuto non deve significare perdere i diritti fondamentali che ogni essere umano ha in una società democratica e pluralista, come è appunto la nostra.

Ho avuto il piacere di incontrare, nel corso della mia lunga detenzione, deputati radicali, verdi, di alleanza nazionale, assessori leghisti (a Milano - Opera), democratici di sinistra. Visitare il carcere, è stato detto da più parti, è un diritto, ma anche un dovere di chi rappresenta le istituzioni e il popolo italiano.

 

"Forme di sensibilizzazione pacifica ai nostri problemi" o forme di lotta?

Personalmente non mi sono sentito strumentalizzato, né in passato né ora, ho aderito per mia scelta, come molti amici e compagni di detenzione, a quelle che qualcuno, attento alle sfumature, mi suggerisce di chiamare: "Forme di sensibilizzazione pacifica ai nostri problemi". Chiamarle forme di lotta può apparire troppo forte, in un luogo in cui si è costretti ad avere paura anche delle parole.

Qui a Padova la "sensibilizzazione" sui nostri problemi si è svolta tutta nel reciproco rispetto tra detenuti e operatori, perché certo non dimentichiamo che in carcere ad avere problemi sono in tanti: gli Agenti, che segnalano la scarsità di personale che li costringe a turni di lavoro massacranti; le Educatrici, che qui alla Casa di Reclusione di Padova sono rimaste in due a seguire oltre 600 persone detenute.

Tutti sostengono la necessità di dare una "boccata d’ossigeno" al carcere, e questo si può fare esclusivamente con un indulto. Ci sono proposte presentate da alcuni parlamentari di schieramenti diversi, tra i quali Pisapia, Taormina e Biondi, e gli stessi sindacati di Polizia Penitenziaria non sono contrari, essendo in prima persona testimoni di una situazione insostenibile.

A questo punto non è più così importante se uno o 25.000 detenuti rifiutano il vitto, fanno rumorose manifestazione, rinunciano all’ora d’aria, o magari rifiutano di fare acquisti al soppravvitto, come hanno proposto alcuni detenuti sul modello dello sciopero della spesa, attuato da molti cittadini per attirare l’attenzione sugli aumenti ingiustificati dei prezzi. Non è importante che forma pacifica, e sottolineo, pacifica, si è usata o si userà, per "sensibilizzare ai nostri problemi, ai problemi del carcere in generale", ora l’intera questione è sotto gli occhi di tutti, e la parola passa alla politica.

A questo punto, alle parole, ai proclami, al frastuono di pentole e gavette battute sulle sbarre, si devono sostituire i fatti, ed i fatti non possono che giungere da chi ha l’onere e l’onore di guidare il nostro Paese, e quindi anche le nostre sorti. Quando i problemi sono di questa portata, la volontà di trovare soluzioni accettabili dovrebbe prevalere sulle divisioni degli schieramenti e diventare punto d’incontro tra le varie componenti politiche.

Nella piattaforma dell’associazione Papillon c’è la richiesta dell’amnistia, di innalzare a 4 mesi l’anno la liberazione anticipata, l’abolizione del 41 bis, ma se si vuole che il carcere di domani non sia di pura reclusione e custodia, serve al più presto l’assunzione di operatori, che affianchino gli attuali 588 educatori "superstiti" che lavorano per 56.000 detenuti. Pochissimi. Se si vuole dare corso reale all’articolo 27 della Costituzione, secondo il quale il carcere deve tendere al recupero sociale del detenuto, non si può, non si dovrebbe restare insensibili alla richiesta di attenzione e all’invito alla società a provare un po’ di indignazione, che escono dalle carceri italiane.

 

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