Carcere duro per sempre

 

Carcere duro, per sempre

Il Senato vara il nuovo 41 bis: rende ordinario uno strumento d’emergenza

 di Alessandro Margara

 

Fuoriluogo, 25 ottobre 2002

 

La disciplina dell'art. 41 bis, comma 2, della Legge penitenziaria, è stata modificata nei giorni scorsi dal Senato. E stata l'occasione perché tutti, politici e non, dicessero la loro, con valutazioni positive, facendo bella figura, con poca fatica e, cosa eccezionale, generalmente d'accordo. Nella relazione al disegno di legge si dice anche che "accogliendo i suggerimenti forniti in questi anni dalla esperienza applicativa e dalla giurisprudenza, si è inteso procedere ad una ristrutturazione complessiva dell'istituto orientata al rispetto dei limiti individuati dalle decisioni della Corte Costituzionale". Sante parole: ovviamente, se corrispondono al vero. Del che dubito fortemente.

È noto che la Corte costituzionale fu chiamata a decidere sulla norma in questione fin dalla sua introduzione nel regime penitenziario (1992) e con due sentenze del 1993 chiarì che la medesima poteva non essere considerata incostituzionale solo in presenza di due condizioni indispensabili: il controllo giurisdizionale sulla sua applicazione e il rispetto dei diritti degli interessati nelle restrizioni apportate al regime penitenziario ordinario. È ricorrente il rimpianto del 41 bis delle origini, così come introdotto dalla legislazione del 1992: sarà bene tenere presente che quella norma, senza le indicazioni integrative della Corte, doveva ritenersi incostituzionale e non dovrebbe essere rimpianta.

La prima condizione posta dalla Corte fu realizzata, seguendo le indicazioni della stessa, con il reclamo al Tribunale di sorveglianza contro il provvedimento ministeriale applicativo. Solo con la legge 7.1.1998, n. 11, la legislazione rese esplicita la conferma di questa prassi.

Fu più faticoso il riconoscimento della seconda condizione, che richiese nuove eccezioni di costituzionalità, decise con la sentenza costituzionale 376/97, che ribadiva, in modo più esplicito, i concetti già espressi: le restrizioni del regime penitenziario contenute nei decreti ministeriali dovevano limitarsi a quelle relative ai collegamenti con l’esterno e, nel fare ciò, non dovevano, comunque, violare i diritti degli interessati, compreso quello alle attività trattamentali e riabilitative, e non potevano perseguire finalità afflittive, ovvero realizzare quello che si chiama usualmente carcere duro. Questo termine ha continuato ad essere usato, con notevole corrispondenza alle concrete prassi applicative.

In un recente dibattito televisivo un uomo politico governativo ha ricordato che un direttore generale del DAP aveva anche emesso una circolare di attenuazione del regime 41 bis. Disgraziatamente quel direttore generale ero io. Non era stato fatto, però, un regalo ai mafiosi, ma, con quella circolare, del 20.2.1998, erano state date, doverosamente, disposizioni esecutive della sentenza costituzionale citata. E ciò avveniva in coincidenza con l’approvazione della legge 7.1.1998, n. 11, che prevedeva la partecipazione a distanza dei detenuti 41 bis ai processi, normativa che interruppe i continui spostamenti di tali detenuti, con costante rientro degli stessi nei luoghi delle loro aggregazioni criminali e conseguenti collegamenti tra loro nelle udienze comuni.

Il fatto era ed è che il 41 bis era ormai diventata una norma - manifesto, da difendere a tutti i costi, anche costituzionali. Ma vengo all'analisi del disegno di legge. Nonostante le affermazioni fatte nella relazione circa la finalità di rispettare la giurisprudenza in genere e quella costituzionale in specie, devo rilevare che la comunicazione fra tale giurisprudenza e i fautori dell'art. 41 bis non è buona: come si usa dire, non si danno del tu.

Prescinderò da altri aspetti, relativi ad altre parti, e mi limiterò all'esame del comma 2 ter del disegno di legge, relativo al contenuto delle restrizioni apportabili al regime penitenziario ordinario: e, in particolare, a quelle contenute nelle lettere a), b), f) e g).

Alla lettera a) vengono consentite "l’adozione di misure per la elevazioni delle precauzioni di sicurezza interna ed esterna". È una norma di cui non c'è bisogno in quanto le cautele ci sono sempre state e sono state abbondanti. Il ricorso alla stessa può fare ipotizzare che, per ragioni di sicurezza esterna o interna, si adottino sistemi di blindatura dei luoghi di vita, per così dire, che sono in contrasto con le regole di igiene di cui all'art. 6 della Legge penitenziaria e ancora 6 del Regolamento di esecuzione alla legge, che non fanno che garantire quel diritto alla salute previsto dall'art. 32 Cost..

C'è da dire che situazioni di questo genere esistevano già in alcuni istituti 41 bis e la nuova normativa consentirebbe di estendere e ratificare le situazioni esistenti. Ma siamo solo a un esempio. Comunque, l’indicazione di cui alla lettera a) potrebbe essere il mezzo di violazioni dei diritti dei detenuti e, in particolare, di aggiunte di afflittività che confermano il carcere duro, contro le indicazioni della sentenza costituzionale 376/97.

Alla lettera b) si prevede "la riduzione del numero dei colloqui e delle comunicazioni telefoniche, prevedendo per essi speciali misure nonché la registrazione delle conversazioni, previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria competente e nel rispetto delle condizioni di legge". La norma è di quelle che pongono problemi molto gravi, come quello del superamento radicale dell'art. 15 Cost., con il totale annullamento della privacy, particolarmente grave nell'ambito familiare. Occorrerebbe qui, come da tempo previsto (senza alcun esito concreto), un controllo giurisdizionale più significativo, formalizzato e controllabile, diverso, quindi, dalla semplice autorizzazione dell'art. 18, comma 7, Legge penitenziaria. Problema, d'altronde, esattamente identico, sempre con il coinvolgimento dell' art. 15 Cost., per il controllo sulla corrispondenza.

Ma vorrei rilevare un altro problema, che è quella della riduzioni dei colloqui (più che delle telefonate, che hanno modalità di esecuzione tanto complesse, da essere, per quanto si può supporre, molto rare). Il problema è che la riduzione dei colloqui è stata contestata dalla giurisprudenza, quantomeno quella di merito, anche se non unanime. Anche qui, credo, si tocca un diritto del detenuto, tenuto conto che il diritto al trattamento è stato affermato dalla giurisprudenza costituzionale e che i rapporti con la famiglia sono previsti fra gli elementi del trattamento, da seguire "con particolare cura" (art. 15 e 28 Legge Penit.). Non si configura questa particolare cura in uno o al massimo due colloqui mensili, di solito registrati? E fra le attività trattamentali negate, già che ci siamo, non c'è anche quella della scuola (un diritto anche questo ex art. 34 Cost. e 15 e 19 Legge penit.) e, seminegata, anche quella del lavoro?

Anche la lettera f) è costituzionalmente censurabile: l'art. 10 della L. P. prevede "almeno" due ore d'aria al giorno: la previsione della nuova normativa non più di due ore d'aria al giorno. La differenza va letta insieme alla prescrizione che l'aria va fruita in non più di tre persone in istituti di varie decine. Ciò imporrà la riduzione degli orari dell'aria per la necessità di soddisfare tutti i detenuti, salvo non si vogliano dividere i cortili in vere e proprie gabbie, violando l'art.16 del Regolamento di esecuzione alla legge. Anche qui, come per la lettera a) suindicata, è da considerare coinvolto il diritto alla salute. Ma quali attività trattamentali potranno essere svolte se dovrà essere evitata la compresenza di non più di tre persone?

Ma è alla lettera g) che si esalta la fondamentale riluttanza dei fautori del disegno di legge alle indicazioni costituzionali, verso cui avrebbe dovuta essere "orientata" la nuova normativa. Si deve osservare che ai presentatori è mancato evidentemente il senso di orientamento, per cui si vuol fare passare nella legge ciò che rappresenta l'esatto contrario della giurisprudenza costituzionale.

Dice la lettera g) che le restrizioni possono avere ad oggetto "la limitazione di ogni altra facoltà derivante dalla applicazione delle regole di trattamento previste dalla presente legge, ove ne sia ravvisato il contrasto con le esigenze di cui al comma 2". Ma il punto importante è che qui si rovescia il discorso costituzionale, che è nel senso che, per essere costituzionale, il comma 2, deve non violare i diritti dei detenuti: le restrizioni dallo stesso consentite devono rispettare questi limiti, altrimenti la norma è incostituzionale. Con la lettera g) citata si afferma l'opposto: quando ci si riporta alle esigenze del comma 2 è tutto a posto. Con buona pace della giurisprudenza costituzionale di tutti questi anni.

Ricordo che qualche seria riserva sulla applicazione dell'art. 41 bis è contenuta nel rapporto 5.9.2000 del CPT (Comitato prevenzione tortura) del Consiglio d'Europa: sia sul ruolo del Goffi, un gruppo speciale della Polizia penitenziaria, che gestisce le sezioni 41 bis, sia sulla reale applicazione della circolare 20.2.1998.

Ma, se posso, aggiungo tre brevi osservazioni. La prima. Nonostante quanto si sostiene, il 41 bis non ha contribuito che eccezionalmente a convincere i detenuti a collaborare con la giustizia: credo che sia stata la legislazione premiale molto ampia a farli decidere: la carota era sufficientemente appetibile, anche senza il bastone. Ma il discorso non mi piace troppo. n carcere, come persuasore della collaborazione, non mi pare cosa di cui vantarsi. Penso che il carcere dovrebbe essere neutrale rispetto alle scelte processuali di chi è affidato alla sua custodia.

La seconda osservazione riguarda i riflessi sul carcere di tale normativa. È forse un nodo critico fondamentale pensare il carcere come il luogo dove si incapacita un uomo (per pericoloso che possa essere, negandogli che possa mantenere relazioni di vita) e supporre, poi, che altri uomini possano ritrovare in esso occasione di riabilitazione.

Ultima osservazione. Si dà un'efficacia miracolosa al carcere se si pensa che lì si battono la mafia e le altre aggregazioni criminali, che possono soccombere solo, a mio avviso, se sono battute sul territorio di cui si sono impadronite: battute, questo è il senso del mio discorso, da uno Stato credibile, che si fa reale carico delle proprie responsabilità istituzionali e sociali. Ma, questo è difficile e se ne parla meno.

 

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