Il processo condannato

 

Il Processo Condannato 

di Enzo Albano, presidente dell’undicesima sezione del Tribunale penale di Napoli

La destra, con la proposta Pittelli, sancisce la fine dell’illusione accusatoria
Ma giudici e PM non sono senza colpe

 

Il Manifesto, giovedì 22 agosto 2002 

 

Per continuare a fare il giudice, in questo paese, ci vuole davvero un fisico bestiale; per occuparsi e scrivere di giustizia e stato di diritto, un ottimismo ai limiti del demenziale. La gente, nel mondo, continua a morire di fame, una guerra non è finita che già ne viene servita un’altra, interi paesi di straordinaria civiltà sono in una crisi senza precedenti che toglie loro persino capacità di reazione ed identità, nuove povertà si sommano a quelle antiche, l’aggressione dell’ambiente non è mai stata così radicale e, forse, irrecuperabile, ma noi dobbiamo continuare ad occuparci di giustizia o meglio del processo penale o meglio ancora di un unico processo penale, quello di Milano a carico del Presidente del Consiglio e dell’onorevole Previti.

È su questo processo, sugli strumenti processuali per non celebrarlo, per allontanare il momento della sentenza che va valutato il riformismo esasperato ed accelerato della Casa della Libertà. Un regime è tale, anche quando impone una precisa agenda dei lavori. Una schiera di giuristi, con la tempra morale e culturale di antichi giureconsulti, sta dando il meglio di sé per perseguire il nobilissimo scopo di allontanare il proprio signore e padrone dal pericolo, eventuale, di una sentenza di condanna. Un minimo di economia di tempie di razionalità nel perseguimento dello scopo pretende che simili situazioni di «emergenza» non abbiano a ripetersi, per cui appare indispensabile ed urgente risolvere in via preventiva il problema, ideando un processo, penale, che ha come unico carattere peculiare quello di non funzionare, di non funzionare, resta ben inteso, contro i potenti. Una fastosa e costosa macchina barocca, che per la sua sostanziale inutilità, avrebbe affascinato dadaisti e patafisici.

Gli onorevoli Anedda, Cirami, Pittelli e Palma sono andati dritti allo scopo, aggredendo al cuore quello che restava del sistema processuale accusatorio, dopo che già il centro-sinistra ne aveva ampiamente iniziato la demolizione. Certamente quando si deve operare con urgenza è possibile che qualche regolamento parlamentare venga violato, che qualche principio costituzionale non venga del tutto osservato, ma cosa volete che sia di fronte alla salus principis. Gli onorevoli giureconsulti, magari non hanno molto studiato i sistemi processuali, magari hanno un salutare rifiuto fisico per l’approfondimento teorico e per l’arte combinatoria delle norme, ma sanno in maniera perfetta ciò che vogliono e, soprattutto, non si pongono problemi ideali o di principio. La magistratura ha dato fastidio al progetto iperliberista di questo governo ed è sempre possibile che qualche giudice pensi di essere a Berlino e con i suoi stupidi codici si metta a strologare di principi di eguaglianza, di stato di diritto, di divisione dei poteri. È possibile che abbia la baldanza e l’incoscienza di voler applicare a tutti la legge e, così facendo, crei ostacoli, impedimenti, fastidi ai progetti di una seria e consapevole modernizzazione. Insomma un governo, legittimamente eletto, deve poter governare senza stupidi e condizionanti intralci; occorre, quindi, poter liquidare velocemente i brandelli di stato sociale, che ancora condizionano lo sviluppo di questa democrazia. Il costituzionalismo, i sacri principi della giustizia e del diritto, le regole della democrazia parlamentare sono formule vuote, espedienti retorici di tardo comunisti, sempre più in crisi di idee e programmi.

La proposta Pitteli si iscriva a buon diritto in questa maestosa opera riformatrice: il gran capo lo aveva promesso in campagna elettorale. «Riformeremo tutti codici nel giro di pochi mesi». Meglio di Giustiniano, più efficace di Napoleone. La proposta Pittelli ha, comunque, un gran merito; decreta senza infingimenti e senza ipocrisia la fine di ogni tentazione accusatoria. Dare immediato avviso all’imputato dell’inizio delle indagini era formalità necessaria nel vecchio processo inquisitorio e la disposizione aveva una sua funzione evidente. In quel processo, infatti, gli elementi raccolti dal pubblico ministero avevano valore di prova, per cui, ai fini difensivi, era necessario che l’imputato sapesse da subito, cosa si stava indagando contro di lui. L’illusione accusatoria dell’89 cancellò l’istituto: le prove sarebbero state raccolte di regola solo a dibattimento e gli elementi acquisiti dal pm dovevano servire soltanto al promovimento dell’azione penale. La proposta Pittelli libera dall’illusione che aveva sedotto molte anime belle, che fosse, cioè, possibile un processo penale democratico e civile.

Qualche giorno fa (il 14 agosto), dalle colonne di questo giornale Valentino Parlato, occupandosi del Patto di Maastricht, ci ha invitato a trovare un bambino, che gridasse che il Re è nudo a rischio di passare per amico di Berlusconi o Pecorella.

Seguiamo il suo consiglio metodologico e confessiamo che la rivolta della magistratura per questa ultima iniziativa sembra francamente inspiegabile. La fine dell’illusione accusatoria si deve in gran parte proprio a quella magistratura che oggi sembra gridare più forte, a quella magistratura che ha ritenuto di assegnare un valore progressivo-rivoluzionario, si è detto, alla repressione penale, a quella magistratura che ha fatto di tutto per restituire ai pubblici ministeri il potere di formare le prove, inondando di eccezioni la Corte costituzionale sull’originario sistema probatorio del processo accusatorio. Ne è derivato un mostro processuale, nel quale il pubblico ministero può indagare e raccogliere prove senza che l’imputato ne sappia nulla e senza che egli possa partecipare dialetticamente alla formazione delle prove stesse, come esigono i trattati internazionali e oggi la nostra costituzione. Non parteciperò per questo alla manifestazione del 14 settembre e non sarà certo un gran danno per nessuno: certo che è scomodo essere contrario a Dio e agli inimici suoi.

 

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