Privatizzazione delle carceri?

 

Un abbraccio pericoloso

di Alessandro Margara

 

Il Manifesto, 28 dicembre 2001

 

Nel protocollo d’intesa fra ministro di Grazia e giustizia e Regione Emilia - Romagna, firmato dal ministro Flick e dal presidente della Regione nel 1998, se non ricordo male, il recupero e la destinazione della Casa di lavoro di Castelfranco Emilia era già messo allo studio e individuato fra le cose da fare. Si lavorò a tale progetto e lo si definì concretamente, attraverso la cooperazione tra D.A.P., che avevo la ventura di dirigere, e enti locali: regione, provincia e comune.

Si elaborò un progetto di ristrutturazione dell’istituto, in buona parte ormai in pieno degrado e utilizzato per poche persone, e se ne previde la utilizzazione per un numero consistente di detenuti, attraverso la articolazione in due parti: una da destinare ai detenuti di Modena, in particolare tossicodipendenti, soggetti a frequenti e massicci sfollamenti per ogni dove, per la insufficienza dell’istituto a reggere il massiccio andamento degli arrivi in carcere; e l’altra sezione, separata, da destinare a custodia attenuata per tossicodipendenti con programmi attivi di recupero, detenuti nella regione o, se non sbaglio, in regioni vicine, prive di strutture carcerarie a custodia attenuata.

Anche la prima delle due sezioni indicate avrebbe dovuto contare sull’apporto dei Ser.T. locali, potendo avviare, quindi, all’altra sezione, a custodia attenuata, i detenuti disponibili a impegnarsi sui programmi. Furono effettuati incontri con gli enti locali e si acquisirono impegni di massima, che andavano ovviamente seguiti e definiti durante il tempo necessario per effettuare la ristrutturazione. L’istituto aveva laboratori in stato di semi abbandono e una colonia agricola abbastanza attiva.

Il tutto doveva essere recuperato ad effettiva e piena funzionalità. La vecchia casa di lavoro aveva ospitato per lunghi periodi e in condizioni non certo eccellenti più di duecento detenuti. Si trattava di farne una sede decente e con le finalizzazioni indicate per circa 150 persone complessive.

Nella regione esisteva già una sezione a custodia attenuata presso l’istituto di Rimini, fra le prime istituite, con forte apporto del Ser.T. locale, che poteva, però, accogliere una quindicina di persone. Il progetto su Castelfranco, inoltre, si inquadrava in un programma più ampio, che cercava di realizzare istituti o sezioni a custodia attenuata su tutto il territorio nazionale.

Temo di non essere sufficientemente sintetico, ma ci tengo a chiarire che esisteva per Castelfranco un progetto preciso, che aveva avuto consenso e impegno di collaborazione da parte di tutti gli enti interessati. Sarebbe bene ricordare che il T.U. 309/90 attribuiva e attribuisce esplicitamente alle A.S.L. e, quindi, ai Ser.T., le funzioni di cura e riabilitazione dei tossicodipendenti detenuti.

Credo che la parte relativa alla ristrutturazione dell’istituto sia a buon punto. Per quanto ricordo, esisteva un progetto esecutivo, messo a punto dal personale tecnico del D.A.P., regolarmente finanziato: e questo avveniva prima dell’aprile 1999, quando venni dimissionato, bontà sua, dal ministro Diliberto.

A questo punto raccolgo l’interrogativo: San Patrignano a Castelfranco? Intanto, si può porre un’altra domanda: si è tenuto conto o si è voluto anche soltanto conoscere il progetto esistente, sentire le parti che vi erano state coinvolte, chiarire se c’era bisogno di trovare un’altra soluzione? E poi: si è davvero pensato e meditato su tale nuova soluzione? Si è cercato di capire se tale soluzione andava stretta o larga al vestito che si era costruito per un altro progetto?

Che la cosa abbia avuto una meditazione abbastanza affrettata può risultare dalla enfasi ideologica con cui San Patrignano è stata presentata recentemente (e credo sia stato un pessimo regalo a quella comunità: un pessimo regalo in termini di comprensione razionale della comunità e dei suoi problemi e non di mediocri propaganda e visibilità, che credo non siano regali buoni) e con cui sono state messe in secondo piano le altre e numerose realtà comunitarie italiane e il ruolo svolto dai Ser.T., sparando a zero sugli stessi, spero non sapendo dello specifico ruolo previsto dalla legge per i medesimi; o, dispero, sapendolo bene. Che dire, comunque, di questo abbraccio tra carcere e San Patrignano?

L’impressione è che sia un abbraccio pericoloso per le due parti. Credo sia utile precisare, per capirlo, che Castelfranco resta, comunque, un carcere e che quelli che vi verranno assegnati restano dei detenuti. Non sono persone in misure alternative alla detenzione, che, già, in varie migliaia, sono regolarmente accolte a San Patrignano e in tante altre comunità italiane, aventi caratteristiche proprie, anche molto lontane dalla stessa San Patrignano. A Castelfranco ci sarà un carcere e ci saranno dei detenuti, in detenzione continuativa, ci saranno gli operatori penitenziari, agenti di polizia penitenziaria e operatori civili: e, non dimentichiamolo, se non si vuole ignorare la legge, ci saranno anche gli operatori dei servizi pubblici. E, allora, perché l’abbraccio può essere pericoloso? Perché gli operatori penitenziari e gli operatori pubblici dovranno convivere con operatori e con indirizzi che hanno una forte caratterizzazione, propria di San Patrignano e non si sa quanto compatibile con le regole penitenziarie: quindi, c’è un pericolo per l’istituto carcerario e la sua organizzazione; ma c’è anche un pericolo per la comunità, che può lasciarsi coinvolgere dalla rigidità del carcere, perdere la sua capacità di movimento e trovare incoraggiamento al filone autoritario, che può trovarsi, fra altri, alla sua radice. Risultato possibile e, forse, probabile: un cattivo carcere e una cattiva comunità.

Tre osservazioni per finire.

Prima. Credo che San Patrignano compensi certi momenti di rigore con una possibilità di spostamenti nei luoghi aperti e ampi, che ne fanno una specie di paese (posso sbagliarmi, ma credo di non essere lontano). Il carcere non è mai un paese: le sue mura lo negano.

Seconda osservazione. Anche se la cosa è abbastanza ignorata, c’è una laicità del carcere. Quando funziona (accade di rado, ma accade), fa recuperare regole, modalità di relazioni con gli altri, ma non impone idee o credi. Questa è una tentazione delle comunità, particolarmente di una comunità come quella di cui si parla.

Terza osservazione-domanda. Mai sentito parlare della privatizzazione delle carceri e dei cavalli di Troia?

 

* Alessandro Margara è stato direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

 

 

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