Volontariato penitenziario

 

Volontariato carcerario e cultura del carcere

di Francesco Borroni, Presidente della Sesta Opera San Fedele  

 

Da una recente indagine, commissionata dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, risulta che in Italia ci sono circa 5.000 volontari carcerari, capaci di garantire 21.500 ore di impegno ogni settimana.

Nell’arco di un anno si stabiliscono 63.000 contatti, in grado di promuovere la realizzazione di progetti che coinvolgono: 13.300 detenuti, 3.500 ex-detenuti, almeno altrettante persone che usufruiscono di misure alternative o sostitutive e 4.900 famiglie.

In questi dati e dietro questi volti, è possibile trovare anche la storia e l’impegno della Sesta Opera San Fedele che ha cominciato ad operare nel Carcere di San Vittore nel 1923. Siamo infatti tra le più antiche associazioni carcerarie italiane: il nostro sodalizio aveva già superato il mezzo secolo di vita quando la legge di riforma penitenziaria del 1975 ha assegnato al volontariato la promozione dello «sviluppo dei contatti fra la comunità carceraria e la società libera».

 

Dobbiamo osservare che il mondo del volontariato di cui facciamo parte, è costituito da soggetti individuali e associativi anche molto eterogenei.

Purtroppo a volte queste differenze non riescono ad integrarsi e si arriva in qualche caso a generare una sorta di concorrenza sul mercato del bene.

Tuttavia a fare da denominatore comune e da collante, c’è una cultura del carcere e della pena il cui perno sono la tutela della dignità della persona detenuta e la difesa dei diritti umani.

In occasioni come quella di oggi vogliamo fermarci per fare un esame di coscienza e chiederci se e come i vari gruppi di volontariato – fra cui noi – possono interagire con maggiore efficacia.

E’ fondamentale arrivare a una migliore conoscenza dei progetti ai quali i vari gruppi danno vita, e tentare soluzione integrate: è anche attraverso questi scambi reciproci che si aiuta a far maturare una cultura del trattamento penale realmente basato sul rapporto con la società e il mondo esterno.

Tutto questo per assicurare al detenuto quel tessuto di relazioni umane senza le quali non ha senso parlare di rieducazione, ed è impossibile avviare rapporti costruttivi che sappiano sostenere e sollecitare nel detenuto il difficile recupero di identità, autostima, desiderio di progettazione del “dopo e fuori” dal carcere.

Anche se in una misura sempre troppo piccola rispetto alle dimensioni dei problemi, la presenza del volontario contribuisce ad arginare il circuito dell’emarginazione e della violenza. Un circuito che – lo si deve riconoscere - è troppo spesso vincente nella nostra società. I tassi di recidività sono troppo alti. Sono indicatori di un fallimento di tutta una visione e gestione del carcere e del trattamento penale. A questo scacco doloroso contribuiscono in larga misura i gravi limiti dei percorsi rieducativi, malgrado l’impegno e la professionalità di tanti operatori, di cui siamo testimoni.

Progettare percorsi nuovi e realistici tuttavia è possibile. Da solo il mondo del volontariato può far solo piccoli passi. Occorre che i nostri buoni rapporti con le figure istituzionali, a partire dai direttori, guardie carcerarie, educatori, cappellani si arricchiscano di reciproci progetti che , su alcuni obiettivi, coinvolgano tutte le forze ‘rieducative ’in campo.

Guardiamo alla composizione della popolazione carceraria: a metà del 2001 si contavano 16.330 immigrati, cioè  il 29% dei 55.383 detenuti complessivi (5 anni prima gli stranieri detenuti erano il 18% del totale); un altro 30% della popolazione carceraria è costituito da tossicodipendenti e alcolisti.

In particolare a san Vittore gli immigrati presenti sono pari al 60% dell’intera popolazione carceraria. I rapporti del ministero degli Interni dicono come le carceri italiane siano il luogo per eccellenza di non-integrazione. In questi ultimi anni come volontari stiamo tentando di inculturarci con persone molto diverse da noi per fede, culture e modi di vivere. E’ una grande sfida sociale a cui non possiamo e non volgiamo sottrarci.

Qui a San Fedele, due anni fa, l’allora direttore del DAP dott. Caselli, ci diceva: “Oggi il carcere funziona come ultimo livello istituzionale, come una discarica dolorosa, molte volte tragica, come una discarica finale dove si fanno precipitare problemi che non sappiamo vedere o che, se anche vediamo, non sappiamo risolvere: i problemi della salute mentale, della tossicodipendenza, quelli collegati a fallimenti familiari e scolastici, al disordine amministrativo, alla miseria, all'immigrazione, alla disoccupazione, all'abbandono”.

In una società che giustamente chiede sicurezza, il carcere come discarica sociale dà corpo all’illusione  di riuscire ad ottenerla con più carcere, di maggiore durezza, buttando via la chiave. Anche la nostra esperienza associativa – per quanto limitata – ci fa concludere che si tratta di illusioni, confermando sostanzialmente quanto viene attestato dalle più serie indagini sociologiche e criminologiche.

La riflessione e le attività ormai avviate in questi ultimi anni al nostro interno non si fanno carico solo dei bisogni e dei problemi del detenuto in carcere.

Per noi continua ad essere importante elaborare investimenti progettuali sul “dopo e fuori”; e va notato che in questo “dopo e fuori”, nonostante le drammatiche difficoltà di realizzare le aspettative, il volontariato carcerario tutto è progressivamente più attivo e decisivo.

Se pensiamo ad un ex-detenuto che si trova ad affrontare il passaggio da un mondo eterodiretto a una vita riconsegnata alla sua autodirezione, fra pregiudizi e discriminazioni, spesso privo di casa, lavoro, relazioni familiari e sociali, allora essere volontari anche per il dopo e fuori diventa un servizio equivalente a quelli che da sempre facciamo nelle carceri.

In concreto la Sesta Opera San Fedele, oltre a garantire con i suoi quasi cento volontari, un sostegno morale e materiale ai detenuti delle tre carceri milanesi, offre un servizio di centro d’ascolto e ultimamente ha aperto anche due case di accoglienza ed una terza in via di realizzazione.

Questo continua ad essere un terreno pionieristico, le cui realizzazioni hanno contribuito a stimolare e orientare le strutture istituzionali che da sempre ci hanno accreditato come interlocutori preziosi non per la buona volontà ma per la buona e intelligente fattività.

Questi progetti, a volte molto pesanti da gestire e onerosi da mantenere, vivono grazie ai contributi di privati e pubblici. A questo riguardo vorrei con molta sincerità ringraziare l’Amministrazione Comunale, l’Amministrazione Regionale e singoli privati per le risorse che ci hanno messo a disposizione. Tuttavia continuiamo ad auspicare che i contributi pubblici siano erogati con modalità, tempi e garanzie tali da favorire iniziative razionalmente programmate, dando coperture e certezze per l’intero svolgimento dei progetti. Raccogliere questa esigenza, peraltro, è un test significativo della qualità del rapporto fra volontariato e istituzioni e del ruolo che queste ultime sono disposte a riconoscere al lavoro dei volontari. Un lavoro che deve essere valutato anche per la sua capacità di fare prevenzione e risolvere problemi di reinserimento: i fallimenti su questo terreno comportano costi altissimi, e l’impegno del volontariato, con tutta la ricchezza e la versatilità dei suoi progetti, può essere visto, allora, come un investimento razionale che produce profitti sociali in un rapporto costi/benefici mediamente assai positivo.

Perché gli interventi sul territorio, dopo e fuori, abbiano una reale possibilità di successo, occorre riconoscere, che un loro prerequisito è la capacità di operare in rete.

Una quantità di centri d’ascolto, centri d’accoglienza, iniziative per il lavoro, ecc., senza il raccordo, la condivisione, l’ottimizzazione che il lavoro in rete facilita e potenzia, vanno inevitabilmente incontro alla dispersione e alla sottoutilizzazione. Si tratta quindi di un passaggio cruciale, su cui non ci sono concesse proroghe.

Sappiamo bene che la quotidianità ci costringe a fare le cose più urgenti e non le più importanti; ma oggi importanza e urgenza del lavoro in rete, tendono a coincidere. Non è una concessione a una sorta di moda, ma una modalità non solo tecnica, ma, in senso lato, culturale di lavoro, dalla quale dipende sempre più la qualità e l’efficacia dell’intervento del volontariato dei prossimi anni.

Lavorare in rete significa inoltre riproporre in un contesto operativo più ricco e dinamico, due questioni nodali per il volontariato, su cui mi limito ai titoli: a) una migliore formazione dei volontari; b) una migliore informazione, sia all’interno del mondo del volontariato che verso l’esterno.

La prospettiva di lavoro schematicamente delineata vede già attive alcune realtà di volontariato, ma siamo ancora all'inizio. Quanto alla Sesta Opera, ha già fatto con convinzione i primi passi ed è pronta a dare il proprio contributo.

Per concludere sottolineo alcuni tratti costitutivi della nostra identità associativa.

Tutto il lavoro dei volontari della Sesta Opera, sia dentro il carcere che “dopo e fuori”, è prestato in spirito di servizio di assoluta gratuità; il fondamento del nostro impegno è nelle parole del Vangelo di Matteo: “ero carcerato e siete venuti a trovarmi”; considerando la crescente presenza di stranieri nelle carceri, questo appello si intreccia sempre più con quello, che avvertiamo con la stessa intensità, “ero straniero e mi avete accolto”. E’ un arricchimento della nostra originaria identità di cui siamo grati al Signore.

Per la Sesta Opera, inoltre, in tutti i suoi rapporti con il mondo penitenziario, è sempre stato centrale un principio, anch’esso con una profonda radice evangelica: non giudicare e sapere perdonare.

Un detto della saggezza degli indiani d’America recita: Grande spirito, preservami dal giudicare un uomo, non prima di aver percorso un miglio nei suoi mocassini. A molti di noi accade di fare un po’ di strada nei mocassini di alcune persone detenute: la sfida è, quando si è superato il miglio, di continuare a non giudicare e, se si vuole tentare di essere Suoi testimoni, anche di continuare a perdonare.

    

 

Precedente Home Su