Privilegio della sicurezza

 

Il privilegio della sicurezza

di Alessandro Baratta

 

La sicurezza è un bisogno umano e una funzione generale del sistema giuridico. Considerando il bisogno di sicurezza in una teoria sociologica del diritto la domanda che ci poniamo è: fino a che punto il diritto contribuisce alla sicurezza nella società? Questa è una questione diretta alla validità «empirica» del diritto, nella quale la sicurezza è concepita come un fatto. In una teoria normativa (tecnico-giuridica) del diritto, invece, la questione della sicurezza è diretta alla validità «ideale» del diritto. Nella teoria sociologica consideriamo la sicurezza attraverso il diritto; nella teoria normativa consideriamo la sicurezza del diritto: per questo concetto si usa frequentemente il sinonimo «certezza». Il punto di vista empirico o sociologico è esterno al sistema giuridico, quello ideale o tecnico-giuridico è invece un punto di vista interno. La sicurezza (o certezza) del diritto dal punto di vista interno al sistema giuridico deve venire costruita, perciò, in riferimento a norme e interpretazioni di norme. Dire «i diritti sono certi» significa, dal punto di vista interno, che le norme che li proteggono sono sufficientemente chiare, coerenti con le regole e i principi della costituzione e operazionalizzate in maniera coerente.

Pertanto dovrebbe risultare evidente che un «diritto fondamentale alla sicurezza» non può essere altro che il risultato di una costruzione costituzionale falsa o perversa. Infatti o una tale costruzione è superflua, se significa la legittima domanda di sicurezza di tutti i diritti da parte di tutti i soggetti - e in questo caso, anziché di diritto alla sicurezza sarebbe corretto parlare piuttosto sicurezza dei diritti, o di «diritto ai diritti» - oppure è ideologica, se implica la selezione di alcuni diritti di gruppi privilegiati e una priorità di azione per l'apparato amministrativo e giudiziale a loro vantaggio, e, allo stesso tempo, limitazioni per i diritti fondamentali riconosciuti nella costituzione e nelle convenzioni internazionali.

Questi meccanismi discriminatori nell'amministrazione dei diritti fondamentali a vantaggio di cittadini «rispettabili» e garantiti e ai costi degli esclusi (emigranti, persone di colore, senza lavoro, senza casa, tossicodipendenti, giovani marginalizzati ecc.) condizionano una riduzione della sicurezza giuridica che, allo stesso tempo, alimenta il sentimento di insicurezza nell'opinione pubblica e trae alimento da esso.

Da un punto di vista astratto le «politiche di sicurezza» possono avere due direzioni opposte: possono essere orientate al modello del diritto alla sicurezza o al modello della sicurezza dei diritti. In concreto il modello dominante in Europa (e negli Stati uniti) è il primo. Però l'orientamento al secondo modello, rappresentato da alcune notevoli esperienze di politica di sicurezza intesa come politica della città, costituisce non solo un modello alternativo legittimo, ma anche una opzione possibile, seppure improbabile. Questa opzione corrisponde a una politica integrale di protezione e soddisfacimento di tutti i diritti umani e fondamentali.

Una politica integrale di protezione e soddisfacimento dei diritti umani e fondamentali è un modello legittimo, perché corrisponde alla validità ideale delle norme contenute nella costituzione degli Stati sociali di diritto, nel diritto internazionale dei diritti umani e alla domanda sociale di implementazione di queste norme. La politica di prevenzione del delitto e il diritto penale non possono prendere il posto di una politica integrale dei diritti, ma al contrario sono efficaci e legittimi solo in quanto operino come una componente parziale e sussidiaria di questa politica.

In una visione corretta dal punto di vista del diritto costituzionale e internazionale la politica di prevenzione e di sicurezza abbraccia un campo estremamente più ampio della ristretta prospettiva della «lotta» contro la criminalità (una lotta diretta soprattutto o solamente al controllo degli esclusi). Essa è anche e sopratutto una lotta contro l'esclusione sociale e contro i meccanismi disumani e schiavistici di accumulazione imposti dalla globalizzazione neoliberale dell'economia; una lotta per per una società basata sulla realizzazione dei bisogni reali, cioè delle potenzialità di sviluppo degli individui e dei popoli.

Negli ultimi venti anni due storie differenti hanno marcato le politiche di prevenzione e di sicurezza negli Stati uniti e in Europa. Agli inizi degli anni Ottanta è largamente diffusa la consapevolezza del fallimento di una politica di controllo del crimine attraverso la repressione penale (minaccia e applicazione della pena statale), così come dei limiti di una politica di sicurezza centralistica, tecnocratica e autoritaria. Si intensifica, di conseguenza, la ricerca di una nuova via per l'amministrazione della sicurezza intesa come un «bene collettivo» attraverso politiche non repressive locali e partecipative. Le amministrazioni locali e gli uffici dei sindaci delle città diventano protagonisti dei programmi di controllo del delitto e dei comportamenti «incivili» nel quadro di una più vasta politica della città rivolta, in particolare, a prevenire l'emarginazione sociale Si moltiplicano i tentativi di coinvolgere diversi attori dello Stato e della comunità locale in programmi «multiagenziali» di azione.

Invece della struttura verticale di centro e periferia o, a seconda dei paesi, accanto ad essa, gioca un ruolo importante la struttura orizzontale costituita da reti nazionali o internazionali di governi locali. Il Forum des collectivités locales européennes pour la securité urbaine e la Conferenza dei sindaci degli Stati Uniti convocano nel 1989 a Montréal la First European and North American Conference on Prevention of Delinquency. La seconda conferenza, con la partecipazione dell'Australia e di Paesi africani, segue nel 1991 a Parigi. I temi principali della conferenza sono i crimini di strada (furti e rapine), la delinquenza giovanile e quella legata alla tossicodipendenza. La problematica della sicurezza si estende al sentimento di insicurezza e ai comportamenti «incivili». Accanto alla prevenzione «situazionale» si dà importanza alla prevenzione «sociale» della delinquenza.

Dovuto all'impatto dei progetti di valutazione, ma più ancora alla crisi dello Stato sociale, un generale scetticismo si diffonde negli Stati uniti, durante gli anni Ottanta, nei confronti dei programmi di trattamento e di risocializazione nelle prigioni così come di quelli alternativi e postpenitenziari. La crisi della politica della rehabilitation produce uno spostamento, allo stesso tempo, verso le teorie «neoclassiche» della pena come retribuzione e verso quelle neoautoritarie della pena come neutralizzazione (nelle forme della incapacitation e della specific deterrence). La conseguenza è un drammatico incremento della popolazione carceraria e delle esecuzioni capitali negli anni novanta. Accanto alla «nuova penalogia» sorge e si siviluppa negli anni ottanta e novanta, negli Stati uniti e in Gran Bretagna, una politica criminale «attuariale».

La politica criminale attuariale presuppone l'esistenza di gruppi sociali caratterizzati da un alto rischio di criminalità che non può essere ridotto in breve tempo (ma in realtà si tratta di un alto rischio di criminalizzazione, dovuto alla selettività del sistema repressivo, che si dirige in prevalenza o quasi esclusivamente verso i gruppi sociali più deboli). Conseguentemente le misure repressive devono essere concentrate su una «classe di infrattori severamente ristretta»; il che può essere giustificato solo per il fatto che stiamo «ridistribuendo un carico di rischio che non siamo capaci immediatamente di ridurre». Alessandro De Giorgi descrive la «logica assicurativa», che ispira questa politica criminale, nei termini seguenti: «Esistono dunque fattori di rischio distribuiti casualmente nell'ambito di una collettività, che non possono essere riferiti direttamente a singoli soggetti, se non in quanto questi ultimi rientrino in gruppi determinabili in base a un maggiore o minore tasso di rischiosità». (Una tesi che il giovane studioso italiano ha sviluppato nel volume Tolleranza zero, DeriveApprodi).

Si sviluppano nel Stati uniti e acquistano grande risonanza in Europa modelli di tolleranza zero come risposta alla criminalità e al disordine sociale («Finestre rotte»). Si assiste ad una diffusa recezione, sopratutto negli ambienti conservatori della politica e dell'amministrazione, del «modello di New York». In Gran Bretagna si sviluppano le nuove politiche repressive dell'era Thatcher e ora del governo Blair. Dal punto di vista della ricerca scientifica torna così attuale l'impostazione che proposero i coniugi Schwendinger nel 1970 che si riferivano a due modelli opposti di criminologia. La domanda formulata allora si rivolge ancora a tutti noi: vogliamo essere custodi dello status quo, o difensori dei diritti umani? Più in generale, in una visione corretta dal punto di vista costituzionale e internazionale della politica di prevenzione e sicurezza, si deve pensare a una lotta contro l'esclusione sociale e contro i meccanismi disumani e schiavistici di accumulazione imposti dalla globalizzazione neoliberale dell'economia.

 

 

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