Carcere e Aids

 

Carcere e Aids: le ragioni di un rapporto difficile

di

Susanna Ronconi e Silvia Ferazzi

Carcere e Aids tra norma giuridica e pratiche carcerarie

 

Da tempo sappiamo che il carcere rappresenta la zona più buia dell'apparato di giustizia, "il luogo dove il potere di punire, che non osa più esercitarsi a viso scoperto, organizza silenziosamente un campo di oggettività in cui il castigo può funzionare in piena luce come terapeutica" [M. Foucault, 1976, 281].
Del resto non è nemmeno indispensabile rileggere Michel Foucault per constatare come il giuridico e il carcerario parlino spesso linguaggi inconciliabili, in un dissidio estenuante nel quale il carcerario si rifiuta spesso alla limpida grammatica della legge.
A questa impressione di incomunicabilità non sfugge la normativa oggetto del presente articolo, quella relativa alla detenzione in carcere di individui affetti dal virus HIV o sieropositivi. L'esame della letteratura esistente sul tema e della situazione dei vari ordinamenti giuridici dei paesi europei ed extra-europei ha, infatti, mostrato come esista la tendenza a regolare tale fenomeno attraverso norme di carattere amministrativo e regolamentare, emanate per lo più da organismi ministeriali; norme il cui carattere di piena giuridicità è certamente molto attenuato [P. Thomas, 1992].
In questa prospettiva va guardata anche la distinzione, spesso citata, tra modelli di gestione autoritaria e modelli di gestione liberale del fenomeno Aids in carcere. I primi sarebbero caratterizzati dall'obbligatorietà del test sierologico, dall'isolamento dei detenuti sieropositivi, dalle restrizioni nell'accesso al lavoro interno e ad altre attività comuni, dal rifiuto di consentire in carcere la distribuzione di preservativi e di materiale disinfettante per le siringhe; i secondi invece si distinguono per il fatto di richiedere il consenso informato al test, per l'adozione di misure di prevenzione, di sostegno psico-sociale ai detenuti malati e di strategie di riduzione del danno [P. Darbeda, 1990].
Tale distinzione, tuttavia, non riguarda precise opzioni di politica del diritto penitenziario, esplicitate in testi legislativi aperti al pubblico dibattito, nella serrata dialettica coi principi generali dell'ordinamento giuridico. Si tratta per lo più della ricostruzione, da parte dei ricercatori, delle prassi penitenziarie instaurate dagli apparati governativi competenti nella gestione degli istituti carcerari, sulla base di regolamenti amministrativi interni.
Ricostruzione che, tra l'altro, ha spesso dovuto subire le difficoltà di realizzazione delle ricerche sociologiche nell'ambito della struttura chiusa del carcere e, nell'ambito dei modelli indicati, ha sottolineato la presenza di non poche incertezze ed oscillazioni, quasi sempre espressione di necessità immediate della gestione disciplinare dell'istituzione carceraria, più che di maturate decisioni sui principi giuridici che devono guidare il potere punitivo dello stato.
In ciò ha trovato espressione, per l'ennesima volta, quell'autonomia e quella costitutiva eterogeneità del carcerario rispetto al discorso giuridico dello stato di diritto, che già Foucault denunciava e che rappresenta certamente uno degli aspetti più inquietanti e persistenti del modello punitivo delle nostre società.
Per questa ragione il confronto tra principi etico-giuridici e norme di diritto positivo sul tema dell'esecuzione della pena a soggetti colpiti dal virus HIV risulta molto più agevole per quelle normative, di maggiore spessore giuridico, emanate da alcuni organismi internazionali, segnatamente l'O.M.S. e il Consiglio d'Europa, che non per le normative elaborate dagli ordinamenti giuridici statuali. Tali organismi, infatti, hanno emanato raccomandazioni e direttive sovranazionali tendenti a ribadire i principi generali che debbono ispirare l'esecuzione della pena in uno stato democratico di diritto, cercando di non farsi travolgere dalla logica emergenziale e disciplinare che ha spesso caratterizzato la reazione dei sistemi penitenziari al pericolo della diffusione dell'Aids.
Il carattere non cogente di queste direttive e i larghi spazi di discrezionalità che esse lasciano necessariamente ai legislatori nazionali, indicano come a tutt'oggi resti assai problematica la possibilità di applicare le generali categorie giuridiche di tutela dei diritti individuali al rapporto punitivo di tipo carcerario.
Obiettivo del presente articolo sarà, quindi, quello di enucleare i principali nodi concettuali relativi alla regolamentazione giuridica della pena carceraria che il fenomeno dell'Aids in carcere ha sollevato; la situazione del condannato affetto dal virus dell'Aids ha, infatti, fatto esplodere contraddizioni profonde tra come la nostra cultura può legittimare teoreticamente l'esecuzione della pena e il funzionamento di quell'apparato di sapere-potere che è l'istituzione carceraria. Tali contraddizioni sono state affrontate dai sistemi penitenziari nazionali cercando di rimuovere tali nodi, senza peraltro riuscire a conciliare l'aspetto etico-retributivo della pena con l'approccio correzionalista del carcere.
Non sarà possibile affrontare nel breve spazio di queste pagine l'intera tematica qui sollevata. In questa sede si è scelto di limitare l'analisi ad alcuni punti. A questo scopo l'analisi si articolerà in due parti. Nella prima verranno esposti i nodi concettuali delle teorie giustificazioniste della pena che vengono messi in discussione da una situazione nella quale il soggetto passivo della pena sia affetto da una malattia a prognosi infausta e trasmissibile come l'Aids. Tali nodi ruotano intorno a due domande essenziali, a cui è possibile rispondere in modo diverso a seconda di come si legittimi il potere punitivo dello stato: il condannato affetto da malattia a prognosi infausta deve essere punito ugualmente per i suoi reati? E se sì, deve essere punito con modalità diverse dagli altri consociati?
Nella seconda parte, invece, si tratterà più specificatamente del tema dell'isolamento carcerario del detenuto affetto dalla sindrome HIV o sieropositivo, mettendo a confronto i dati esistenti sulle principali prassi penitenziarie esistenti nel mondo occidentale con le raccomandazioni internazionali in tema di tutela dei diritti umani.

 

Premessa epistemologico-giuridica: definizione della patologia Aids


Una delle categorie fondamentali dell'epistemologia giuridica moderna è quella di pensare il diritto come un sistema di norme che consistono in proposizioni prescrittive aventi un elevato grado di astrattezza e di generalità. Per tale ragione porsi in una prospettiva di riflessione giuridica sul tema Aids-carcere significa, in primo luogo, effettuare un'operazione concettuale di depurazione degli aspetti emotivi che accompagnano solitamente le rappresentazioni sociali legate ad una malattia come l'Aids. Le regole dell'argomentazione giuridica per poter essere praticate richiedono un atteggiamento freddo, nel quale i fenomeni di realtà vengano percepiti esclusivamente negli elementi per essa rilevanti.
Nel nostro caso ciò significa che gli innumerevoli aspetti etici, sociali e culturali che compongono un fenomeno complesso come quello dell'Aids vengono ridotti dal filtro giuridico, rispetto al tema dell'esecuzione della pena, a due soli elementi essenziali: l'Aids come malattia a prognosi infausta e l'Aids come grave malattia trasmissibile, conseguentemente in grado di ledere interessi essenziali di natura pubblica.
Questa opera di riduzione effettuata dall'epistemologia giuridica, consente di rispondere all'esigenza di astrattezza e di generalità dell'argomentazione del diritto moderno, in quanto fa emergere, nell'ambito del fenomeno Aids, quegli elementi che si prestano ad un giudizio di comparabilità con altri fenomeni qualificabili analogicamente e quindi meritevoli dello stesso trattamento giuridico. Volendo esemplificare: l'Aids in quanto malattia a prognosi infausta potrà essere assimilata ad altre malattie dello stesso genere, quali le più gravi forme tumorali, mentre sotto l'aspetto della trasmissibilità potrà essere equiparata ad altre gravi malattie infettive, quali l'epatite o la tubercolosi.
Fatta questa premessa di carattere definitorio risponderemo nei prossimi paragrafi alle due questioni accennate in precedenza: in primo luogo, ci porremo la domanda se la condizione di malato a prognosi infausta faccia venir meno il dovere di punire da parte dello stato; in secondo luogo, ipotizzando una risposta negativa a questa domanda, ci chiederemo quali sono le differenze nelle modalità di esecuzione della pena che possono essere legittimate da una simile condizione di malattia.

 

Legittimità della pena e malattia a prognosi infausta


Se le premesse dell'argomentazione giuridica dalle quali occorre partire sono quelle viste nel paragrafo precedente, occorre chiedersi quali conseguenze comporta, al fine della legittimità giuridica dell'esecuzione della pena, il fatto che il soggetto condannato sia affetto da una grave malattia infettiva a prognosi infausta. E' legittima la potestà punitiva dello stato nei confronti di tale soggetto, quando essa si eserciti attraverso l'imposizione della sanzione carceraria?
Le risposte che gli ordinamenti giuridici positivi hanno dato a questi quesiti sono state per lo più contraddittorie , in quanto per lo più non hanno saputo conciliare la concezione della pena come retribuzione giuridica del reato, con la concezione della pena come mezzo di difesa sociale e di correzione del condannato.
Prima di entrare nel merito dell'analisi di questa contraddizione concettuale occorre premettere che non verranno presi in considerazione quegli istituti giuridici, presenti in molti ordinamenti positivi, che, per ragioni umanitarie, consentono la liberazione anticipata del condannato nell'imminenza della sua scomparsa, "in modo da poter morire in condizioni di dignità e libertà" (punto 3 della "Dichiarazione sulla prevenzione e il controllo dell'Aids nelle carceri" adottata nel novembre 1987 dalla Consulta dell'Organizzazione Mondiale della Sanità).
Al cospetto della morte l'argomentazione giuridica arretra e abbandona il suo accanimento sistematico; l'imminenza della scomparsa materiale del soggetto lo pone al di fuori delle regole del gioco giuridico. Ogni considerazione retributiva o di difesa sociale viene meno in questo caso, per non intaccare quello spazio sacro della persona al cospetto della morte entro il quale il diritto profano non ha più nulla da dire. Sappiamo come di fatto questo spazio sia stato talora negato ai malati di Aids , ma ciò costituisce materia di scandalo morale e sociale più che di dibattito filosofico-giuridico.
Quando si parlerà di legittimità dell'esecuzione della pena nei confronti di soggetti affetti da malattie a prognosi infausta si farà, quindi, riferimento a situazioni nelle quali il detenuto non si trova nell'imminenza della morte, situazione il cui carattere di eccezionalità pregiudica ogni considerazione di tipo giuridico-sistematico.

 

Aids e carcere: gli aspetti di retribuzione giuridica della pena


Passiamo ora ad esaminare le argomentazioni che la moderna scienza giuridica penalistica è in grado di elaborare, rispetto alla questione della legittimità della pena nei confronti di un individuo che sia affetto da malattia a prognosi infausta.
Per una prospettiva di questo genere è necessario fare riferimento alla doppia valenza che il concetto di pena ha assunto nelle tradizionali analisi delle teorie giustificazioniste. Diremo subito che il caso del condannato-malato a prognosi infausta costituisce certamente un severo banco di prova, sia per la valenza giuridico-retributiva della pena, sia per i suoi elementi di prevenzione speciale e di correzione del condannato, nonchè di difesa sociale.
Scusandoci col lettore per la brevità con cui dovremo trattare questioni di teoria della pena assai complesse, occorre spiegare in primo luogo a che cosa si fa riferimento con l'espressione valenza retributivo-giuridica della pena. Le teorie retributiviste sono tradizionalmente suddivise in teorie della retribuzione morale, che privilegiano il carattere afflittivo e moralmente restaurativo della pena fine a se stessa, e le teorie della retribuzione giuridica, che invece tendono a sottolineare nella pena regolata giuridicamente gli elementi di garanzia dei diritti individuali e di uguaglianza dei cittadini al cospetto del potere punitivo dello stato [M. Cattaneo, 1990, 93 e ss.].
In altri termini le teorie della retribuzione morale concentrano la loro attenzione sull'esigenza di punizione del reo, di restaurazione dell'ordine violato dal delitto attraverso la sanzione, spesso ponendo in secondo piano la distinzione, fondamentale per il pensiero moderno, tra ordine morale e ordine giuridico.
Al contrario le teorie della retribuzione giuridica vedono nella concezione retributiva della pena l'unico modo per proteggere i diritti individuali della persona e i principi dello stato di diritto, sottolineando i limiti entro i quali è legittimo da parte dell'autorità statuale esercitare il diritto/dovere di punire le violazioni del suo ordine costituito, nell'ambito di una prospettiva che sebbene non separi radicalmente la sfera giuridica e la sfera morale, ne coglie le insopprimibili peculiarità [J. Murphy, 1979, 77 e ss.].
Seguendo una nota classificazione della scienza giuridica penalistica, le teorie della retribuzione morale sono definite "positive", in quanto si preoccupano maggiormente delle ragioni per le quali si deve punire, mentre le teorie della retribuzione giuridica vengono dette "negative", in quanto si pongono l'obiettivo di analizzare i limiti che l'autorità statuale non deve oltrepassare nella sua potestà punitiva [K. Baier, 1977, 38 e ss.].
Per tutte queste ragioni gli aspetti di retribuzione giuridica sono ancora oggi presenti nella concezione della pena dello stato democratico di diritto, a differenza di quelli di mera retribuzione morale.
Che la pena sia la retribuzione, regolata giuridicamente, della violazione di una norma penale è un principio che, a molti autori, è parso idoneo non solamente a determinare, da un punto di vista teorico, i limiti entro i quali l'autorità punitiva dello stato moderno può legittimamente e doverosamente esercitarsi , ma anche a fornire i criteri concettuali coi quali verificare la legittimità delle modalità di esecuzione della pena.
Rispetto al tema che ci riguarda gli aspetti retributivi della pena portano senza dubbio a delegittimare ipotesi di non punibilità dell'individuo affetto da malattia a prognosi infausta, non solamente perchè simili ipotesi sarebbero in contraddizione col principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge penale, ma soprattutto perchè lederebbero la stessa dignità della persona malata.
Sotto il profilo della dignità della persona un approccio retributivista non può infatti esimersi dal partire dai presupposti, classicamente attribuiti a Kant, secondo i quali ogni uomo deve essere trattato come un fine in sè e ogni uomo, per essere tale, deve poter rispondere, moralmente e giuridicamente, delle azioni delle quali sia considerato responsabile [M. Cattaneo, 1981, 270 e ss.].
Se questi sono i principi non eludibili della pena come retribuzione del male commesso, risulta evidente che considerare l'individuo affetto da patologia a prognosi infausta come un soggetto esente dalla sanzione penale, rappresenti un modo per attenuare la sua piena dignità di soggetto giuridico. Per chi guardi alla pena da un punto di vista giuridico-retributivo non vi sono ragioni per escludere che anche il malato a prognosi infausta possa essere soggetto passivo del dovere dello stato di punire le violazioni del proprio ordinamento, qualora ovviamente la condizione di infermità non abbia intaccato la possibilità di rendere imputabili alla volontà del reo le azioni commesse .
Se questo è vero al momento della commissione del reato, non vi sono ragioni perchè la situazione debba mutare qualora l'infermità sopraggiunga nel corso dell'esecuzione della condanna.
L'evento della morte, che con la malattia sembra incombere più minaccioso sull'esistenza del malato, non esime la gelida razionalità del ragionamento giuridico dal proseguire il suo cammino . Il discorso giuridico, che sembra talvolta sconfinare nella crudeltà, peraltro conserva il suo valore di modello legittimante, nella misura in cui è in grado di proporre una pena che non sia strumento di degradazione della dignità della persona.
Per quanto riguarda il principio dell'uguaglianza è nota la rigorosità della celebre affermazione kantiana, secondo la quale anche se la società civile si sciogliesse con il consenso dei suoi membri, l'ultimo assassino detenuto in carcere dovrebbe prima essere giustiziato, di modo che ciascuno riceva ciò che i suoi atti hanno meritato [J. Murphy, 1979, 82 e ss.]. Questa affermazione, che all'orecchio di oggi può suonare come assurdamente crudele, non è che il frutto del lavorio instancabile del ragionamento giuridico che deduce logicamente dal principio di uguaglianza dei consociati davanti al potere punitivo dello stato, la conclusione che si deve escludere, in linea di principio, che un individuo per il solo fatto che ciò non appaia di qualche utilità sociale, si possa sottrarre alla sanzione penale. Al giurista retributivista non può e non deve interessare se la punizione del malato a prognosi infausta possa apparire inutile da un punto di vista sociale; la funzione della pena è quella di ricostruire il patto sinallagmatico tra stato e cittadino leso dalla commissione del reato, patto verso il quale tutti i soggetti giuridici sono uguali.
In modo apparentemente paradossale Hegel ha parlato a questo proposito di un diritto del reo alla condanna, fondato sul suo diritto "in quanto uomo a che la sua volontà non sia considerata per sempre cristallizzata nel male, ma sempre e comunque recuperabile, appunto attraverso la pena; il diritto di ogni uomo, anche se reo, a essere ritenuto capace come individualità spirituale e non meramente naturalistica, di poter volere diversamente da come effettivamente ha voluto: in breve, di poter riacquistare l'innocenza" [F. D'Agostino, 1989, 104].
In una concezione retributiva rigorosamente giuridica della pena, meno segnata dalla concezione hegeliana dello stato come luogo della moralità, tuttavia non è possibile parlare di un vero e proprio diritto alla condanna da parte del reo, in quanto nessuno può essere tenuto a volere liberamente la propria punizione .
Soccorre al proposito ancora una volta la lucida esposizione kantiana, secondo la quale "la pena è subita da qualcuno non perchè egli l'ha voluta, ma perchè egli ha voluto l'azione meritevole di punizione; non è pena quando a qualcuno accade ciò che vuole, e non è possibile voler essere punito. [...] Quando io creo contro di me come delinquente una legge penale, è la mia ragione pura giuridicamente legislatrice che sottopone a una legge penale me in quanto capace di delitto, e cioè come un'altra persona" [M. Cattaneo, 1981, 223].
Si dovrebbe quindi parlare più correttamente di un dovere di punire da parte dello stato come strumento della "ragione pura giuridicamente legislatrice", piuttosto che di un diritto del reo ad essere punito.
Anche se l'approccio retributivista alla pena non sembra subire colpi rispetto al principio secondo il quale anche il malato a prognosi infausta è tenuto a subire le conseguenze giuridiche delle proprie azioni, ciò non significa che non esistano altri punti sui quali gli aspetti retributivo-giuridici della pena vengono duramente messi in discussione.
In particolare vorremmo soffermarci sul principio, centrale per una concezione della pena di tipo retributivo-giuridico, secondo il quale la gravità della pena non deve essere maggiore della gravità del delitto, principio garantistico che implica la preventiva quantificazione della sanzione penale. La pena, in questa prospettiva, deve essere esattamente definita nel suo grado di afflittività e precisamente quantificata, ciò anche per poter rispondere al criterio di eguaglianza, essendo la gravità del reato l'unico criterio col quale è legittimo commisurare la pena.
Per rispondere a tali imperativi le teorie giustificazioniste moderne hanno concepito la pena come una sanzione formalizzata e tipizzabile, nel senso per il quale essa deve essere "astratta ed uguale, come tale quantificabile e misurabile e perciò pre-determinabile legalmente e determinabile giudizialmente sia nella natura che nella misura" [L. Ferrajoli, 1989, 386].
La tipizzazione e la formalizzazione sono state evidentemente favorite dalle modalità di esecuzione della pena moderna che sono state teorizzate per lo più come sanzioni "privative", essendosi abbandonate le pratiche penali meramente afflittive delle epoche precedenti. Privazione della libertà nel caso delle pene detentive, privazione della proprietà sui beni nel caso delle pene patrimoniali, privazione della vita nel caso della pena di morte .
Per quanto riguarda la pena carceraria, privativa della libertà, il criterio della misurabilità è costituito dal tempo che la sanzione sottrae all'esistenza libera del condannato, sul presupposto che tale tempo sia omogeneo e quantificabile oggettivamente per tutti i consociati. Tale presupposto viene tuttavia fortemente messo in forse dal caso del condannato affetto da malattia a prognosi infausta: come è possibile sostenere che cinque anni di reclusione sottratti alla libera esistenza di un individuo sieropositivo abbiano lo stesso valore nel caso di un soggetto le cui aspettative di vita non siano state intaccate da alcuna malattia? Come preservare in questo caso il principio di proporzionalità tra gravità del reato e gravità della pena?
L'unica risposta possibile a questi quesiti deve introdurre, anche negli aspetti di retribuzione giuridica della pena, forti elementi di valutatività facendo riferimento al c.d. potere connotativo del giudice [L. Ferrajoli, 1989, 400 e ss.]. Tale potere, di natura essenzialmente equitativa, consiste nella comprensione da parte del giudice degli elementi del caso concreto che gli consentano di commisurare la pena, in base a determinati criteri ritenuti rilevanti per tale quantificazione. Tra questi criteri, che per loro natura non possono essere del tutto predeterminati dal diritto positivo, potrebbero allora rientrare le condizioni di salute dell'imputato, qualora egli sia affetto da una patologia che ne riduca le aspettative di vita. Discorso non diverso si dovrebbe fare quando tale patologia si instauri nel corso dell'esecuzione della condanna.
Ciò che invece non sarebbe ammesso dagli elementi di retribuzione della pena sarebbe introdurre, nei criteri equitativi di quantificazione della pena, considerazioni o giudizi segnati dalla prospettiva di prevenzione o di difesa sociale. Da un punto di vista retributivo non sarebbe legittimo, in altri termini, quantificare la pena da infliggere al malato a prognosi infausta in base alle previsioni esperibili sulla sua capacità di delinquere in futuro, o sulla sua pericolosità sociale.

 

Aids-carcere: la pena come strumento di prevenzione e di contenimento


Le ultime considerazioni ci offrono l'opportunità di passare all'analisi degli aspetti di prevenzione e di difesa sociale che certamente sono presenti, con minore o maggiore rilevanza a seconda dei vari contesti nazionali, nella odierna cultura giuridica della pena.
Occorre immediatamente precisare come non sia agevole considerare in un unico blocco un insieme di assunti teorici per certi aspetti eterogenei.
Riducendo al massimo il discorso è possibile affermare che gli elementi di prevenzione e di difesa sociale della pena moderna ruotano intorno a due assunti fondamentali che, pur risultando apparentemente antitetici per i presupposti antropologici da cui partono, in realtà convergono sul principio per il quale la pena è giusta solo in quanto comporti un mutamento del comportamento futuro del condannato.
A seconda della concezione dell'uomo più o meno deterministica adottata, la pena come strumento di prevenzione e di difesa sociale viene vista da due angolature diverse.
a) Sotto un primo profilo la pena è quel male che il soggetto deve rappresentarsi come conseguenza ineludibile del bene che pensa di trarre dal delitto. L'uomo libero e calcolatore valuta costi e benefici delle sue azioni e la pena può dirsi efficacemente preventiva quando l'individuo si rappresenti il male-sanzione come maggiore del bene-delitto [A. Cottino, 1991, 56]. La pena in questa prospettiva è il contrappeso che distoglie l'uomo razionale dal commettere azioni socialmente indesiderate.
b) Prendendo le mosse da una concezione rigidamente deterministica dell'uomo, è invece possibile concepire la pena come trattamento terapeutico e correzionale, oppure come mero strumento di controllo contenitivo del condannato (le due ipotesi evidentemente non si escludono). La pena diventa in tal modo strumento di manipolazione dell'individuo, in quanto si ritiene suo scopo quello di correggere il condannato, in misura tale che egli non compia più in futuro azioni anti-sociali. Tutto ciò avendo come prospettiva quella per la quale ogni violazione dell'ordine sociale abbia alla sua base cause patologiche, che devono essere ricondotte alla normalità.
Sia la concezione della pena contrappeso, sia quella della pena correzione-terapia vengono poste seriamente in discussione dal fenomeno della condanna del malato a prognosi infausta.
Nell'ambito degli aspetti che privilegiano la pena come un contrappeso l'anomalia posta dal malato a prognosi infausta è particolarmente evidente. Quale sanzione può essere sufficientemente minacciosa da poter rappresentare un mezzo di deterrenza nei confronti di un individuo colpito da una malattia che ne riduce drasticamente le aspettative di vita? Quale male giuridico può apparire maggiore del male fisico che incombe su questo malato? Se pensiamo alla situazione dell'individuo in Aids conclamato, molte volte tossicodipendente, che finisce in carcere, come sostenere che la pena possa rappresentare per lui un male più grave della sua già drammatica situazione esistenziale?
La risposta più logica, nella prospettiva della pena come contrappeso, sarebbe dunque la rinuncia a punire; rinuncia che tuttavia non risolve il problema della difesa che la società deve apprestare nei confronti di quei soggetti che pongono in essere comportamenti antisociali. Come ci si dovrà comportare nel caso dell'individuo che, non avendo più nulla da perdere, viola senza alcuna remora le norme penali?
In questo frangente, la tentazione di vedere la pena come puro strumento di incapacitazione del condannato può rappresentare la scorciatoia con la quale superare gli inconvenienti pratici, a cui la teoria sembra non poter far fronte in termini concettuali. Si dovrà forse punire il reo in quanto socialmente pericoloso, anche qualora la pena non possa svolgere la sua funzione deterrente, se non per gli aspetti meramente coercitivi?
A difficoltà non meno gravi, tuttavia, vanno incontro gli elementi correzionalistici della pena, incentrati sulla capacità del trattamento terapeutico-penitenziario di correggere la personalità del condannato. La pena, in questa accezione, rappresenta un investimento sull'esistenza futura del reo, sul presupposto che l'intervento istituzionale riconsegni l'individuo alla sua "normalità" sociale.
Che accade a questa volontà di intervenire sulla personalità del reo quando il futuro di quest'ultimo, lo spazio della sua esistenza prevedibile, appare tragicamente segnato? Il teorico della pena come trattamento correzionale guarda a come sarà, a come dovrà essere, l'uomo liberato dal carcere così come trasformato dall'intervento rieducativo. Ma che rimane di questa strategia manipolatoria quando il condannato è un individuo malato che, con ogni probabilità, se la pena verrà eseguita, avrà uno spazio pressochè inesistente di esistenza sociale davanti a sè?
La sola risposta logicamente conseguente, dal punto di vista correzionalistico, è la non punibilità del reo, la rinuncia al dovere di punire da parte dello stato? Oppure anche l'approccio correzionalista deve piegarsi ad una concezione della pena come puro strumento di contenimento del condannato, mezzo col quale impedire materialmente all'individuo socialmente pericoloso di compiere altri reati?
Le aporie che il caso del condannato malato a prognosi infausta fa sorgere nell'ambito delle teorie giustificazioniste della pena sono, dunque, di grossa portata. Non a caso gli ordinamenti giuridici positivi, rispetto al tema della compatibilità tra detenzione carceraria e questa situazione di malattia (in particolare l'Aids), si sono comportati in modo pragmatico, il più delle volte regolando la situazione attraverso istituti, come la grazia o il perdono giudiziale, pensati per fattispecie che per la loro eccezionalità sfuggono in gran parte ad una piena legittimazione giuridica .
Il segno probabilmente di come il caso qui studiato possa rappresentare una sorta di anomalia nel paradigma giuridico della pena moderna.

3. Modalità di esecuzione della pena e tutela dei diritti del detenuto malato
Esaminate le ragioni che l'argomentazione giuridica è in grado di mettere in campo per legittimare la somministrazione della pena al condannato anche se affetto da una malattia a prognosi infausta come l'Aids, è possibile affrontare la questione se, in questi casi, la pena debba applicarsi con modalità esecutive diverse da quelle previste per la generalità dei consociati.
A tal proposito il fenomeno Aids ha posto al sistema carcerario una serie di problemi che hanno rimesso all'ordine del giorno la questione della definizione dei limiti giuridici entro i quali il carcere possa ancora essere considerato uno strumento di pena compatibile con uno stato democratico di diritto.
La concezione moderna della pena carceraria come tecnica privativa della sola libertà di movimento dell'individuo, è evidentemente uno degli assunti più controversi del pensiero penalistico del nostro secolo . Questo principio di carattere giuridico-formale è stato il terreno di scontro di quel conflitto inesauribile tra paradigma giuridico della pena e pratiche di potere e di controllo sociale elaborate dal sistema penitenziario, di cui si è fatto cenno nel primo paragrafo. E' un tema molto vasto e molto complesso che verrà qui affrontato solo limitatamente agli aspetti che il fenomeno Aids ha rimesso al centro della riflessione sulla pena.
Gli organismi internazionali che si sono pronunciati sulle varie tematiche riguardanti il problema Aids-carcere , hanno teso a sottolineare il principio di eguaglianza dei diritti riconosciuti ai soggetti malati detenuti, rispetto a quelli riconosciuti ai cittadini non sottoposti a restrizione detentiva. Questo principio è stato ribadito per le politiche generali d'intervento sull'Aids [K. Tomasevski, 1991, 245], per la qualità dei servizi sanitari penitenziari [K. Tomasevski, 1992], per le attività di prevenzione della diffusione del virus attraverso azioni di educazione e informazione [T.W. Harding-G. Schaller, 1992, 11-12], o attraverso le strategie di riduzione del danno [ibidem, 15 e ss.], per le garanzie di riservatezza e di consenso informato al test sierologico [P. Cattorini, 1989].
Da un punto di vista empirico, il fatto che le normative internazionali abbiano sentito la necessità di confermare questi assunti, legati al principio del detenuto come soggetto giuridico a pieno titolo, non fa che sottolineare come le pratiche detentive presenti nei sistemi carcerari siano a tutt'oggi alquanto distanti da un modello giuridico di esercizio della pena.
Nella prospettiva, invece, di una teoria della pena le direttive degli organismi internazionali sembrano propendere per una concezione che faccia prevalere gli aspetti di retribuzione giuridica del potere punitivo dello stato; retribuzione regolata e rigidamente quantificata nelle modalità afflittive.
Al proposito sembra di poter affermare, infatti, che gli stessi principi della proporzionalità e della determinazione certa della pena, tipici della pena come retribuzione giuridica, mentre, da un lato, impongono una punizione del malato proporzionale alle sue aspettative di vita, dall'altro, comportano che le modalità di esecuzione della pena non siano tali da colpire il condannato più gravemente solo a causa del suo stato d'infermità.
Se la pena del carcere deve consistere solo ed esclusivamente nella privazione temporanea della libertà di movimento, essa non deve sconfinare nella lesione di altri diritti dell'individuo. Di qui la necessità, che le normative internazionali hanno sottolineato, di garantire una serie di diritti che la struttura carceraria è potenzialmente in grado di ledere: il diritto a godere di un'assistenza sanitaria di livello paritario a quella degli altri consociati [M. Blumberg, 1990, 214-217], il diritto a non correre pericoli maggiori di contrarre malattie contagiose per il fatto di vivere in un "ambiente ad alto rischio" [H. Kiessl, 1992], il diritto a ricevere informazioni e strumenti di prevenzione contro la diffusione del contagio, il diritto alla riservatezza e ad un rapporto fiduciario col personale sanitario [T.Harding, 1990a], il diritto a non essere discriminati nell'ambito delle attività organizzate all'interno del carcere [C. Scorretti, 1985, 1180], il diritto ad avere una sessualità non coatta nei limiti consentiti dalle esigenze della sicurezza carceraria, il diritto ad un sostegno psicologico nei casi di sieropositività [C. Sueur, 1993, 44-47].
Gli elementi di retribuzione giuridica della pena tendono a privilegiare una prospettiva che vede nella rivendicazione dei diritti del malato-detenuto non una richiesta che lo stato rinunci alla punizione, bensì un modo per riconfermare il modello giuridico della pena. Tale modello prevede, infatti, che la pena resti rigorosamente nei limiti assegnatigli dal diritto, senza che acquisti un carattere maggiormente afflittivo solo per il fatto che il condannato abbia contratto una grave malattia. Proprio in quanto il condannato resta soggetto giuridico a tutti gli effetti, egli mantiene tutti i diritti compatibili col suo stato di detenzione, e ciò deriva non già da una paternalistica concessione umanitaria da parte dell'istituzione punitiva o da una malintesa compassione nei confronti del detenuto che soffre, ma dallo stesso principio retributivo, secondo il quale la pena deve essere esattamente quantificata e predeterminata nei suoi aspetti afflittivi.
Questione più complessa è quella relativa alla idoneità del carcere, da un punto di vista fattuale, a poter essere considerato un tipo di pena che incida esclusivamente sul diritto di libertà del condannato; questione a cui non si può che accennare in questa sede, in quanto mette in gioco l'intera prospettiva della funzione politica e sociale del sistema penitenziario moderno .
Sul problema delle modalità punitive del soggetto affetto dal virus HIV o sieropositivo l'approccio correzionalistico e di difesa sociale ha, invece, maggiori difficoltà a conciliarsi con le direttive emanate a carattere internazionale, anche se probabilmente si trova in una posizione molto più vicina alla effettiva reazione istituzionale che l'Aids ha provocato nei vari sistemi penitenziari [M. Blumberg, 1990 e saggio successivo di S.Ronconi-S. Ferazzi].
E' noto come uno degli assunti teorico-operativi di questo approccio sia quello della differenziazione e della individualizzazione della pena. Ad ogni condannato spetta una pena diversa, a seconda delle sue caratteristiche personali, ed essa va determinata e modulata per ogni singolo caso nella fase esecutiva [L. Ferrajoli, 1989, 258 e ss.].
E' evidente come il caso del detenuto malato di Aids consenta in questa prospettiva di introdurre una serie di modalità di esecuzione della pena e di gestione della vita carceraria che rispondono, in primo luogo, ad una logica di contenimento del rischio della diffusione del contagio e/o della pericolosità sociale del detenuto.
Differenziare la pena ha spesso significato nel caso dell'Aids, o utilizzare strumenti sanitari a fini puramente contenitivi, o predisporre la segregazione in reparti speciali dei soggetti contagiosi , facendo prevalere, nell'immagine che l'istituzione ha del condannato-malato, gli aspetti che lo distinguono dagli altri detenuti, rispetto a quelli di parità di trattamento e di garanzia dei diritti individuali.
E' questa una prospettiva apparentemente dotata di una maggiore pragmaticità, nella quale si scorge il conflitto tra le ragioni della gestione emergenziale delle strutture carcerarie e le ragioni dello stato di diritto.
Resta da chiedersi, tuttavia, se l'apparente maggior capacità della pena così concepita di affrontare il problema immediato della diffusione dell'Aids, sia effettiva o se rappresenti semplicemente la facciata umanitaria dietro la quale si nascondono nuove pratiche di controllo della popolazione carceraria.
Come si vedrà meglio nella seconda parte di questo articolo, infatti, molti studiosi e autorevoli organismi internazionali hanno sostenuto l'inefficacia di politiche d'intervento che tendino alla segregazione e alla differenziazione degli individui malati di Aids o sieropositivi [T. Harding, 1990a]. E' indubbio che la detenzione di soggetti potenzialmente infettivi possa porre problemi pratici, soprattutto in situazioni di sovraffollamento e di eccessiva promiscuità, che talora sembrano richiedere misure di assoluta emergenza.
Nella risposta a queste difficoltà è parsa, tuttavia, prevalere una logica autoreferenziale dell'istituzione carceraria, che ha utilizzato il fenomeno Aids per riconfermare la propria stabilità interna, o attraverso la gestione autoritaria dei detenuti affetti dal virus HIV, o attraverso, è il caso probabilmente dell'Italia, la loro espulsione dal circuito penitenziario. Il detenuto è stato visto, in questa prospettiva, più come un'entità scomoda da gestire, piuttosto che come un soggetto giuridico responsabile delle proprie azioni e dotato di una autonoma capacità di scelta. Questa assenza del soggetto detenuto e la rigida chiusura verso il mondo esterno dell'ambiente carcerario rappresentano, tra l'altro, i maggiori ostacoli che le strategie di prevenzione dell'Aids hanno dovuto affrontare.
In modo forse un poco paradossale si potrebbe, quindi, affermare che ribadire, da un lato, la tutela dei diritti individuali del detenuto e, dall'altro, il dovere sociale di punire equamente tutti i consociati, come soggetti giuridici responsabili delle proprie azioni, sia il modo più idoneo non solo di sostenere le ragioni dello stato di diritto, ma anche di predisporre politiche di contenimento della diffusione dell'Aids efficaci, in quanto fondate sulla responsabilizzazione morale e sociale degli individui colpiti dal virus HIV.
Verrebbe ribadita, in tal modo, anche la funzione pratica della riflessione filosofica sulla pena, il cui ruolo primario rimane quello dell'analisi concettuale della strategie argomentative che possono giustificare le diverse modalità punitive, in una prospettiva di critica razionale alle pratiche di potere dominanti all'interno dei sistemi penitenziari.

 

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* La prima parte dell'articolo è stata scritta da Claudio Sarzotti, mentre l'elaborazione della seconda parte va attribuita a Bruno Magliona.-
L'intera prima parte di questo articolo presuppone che si assuma la prospettiva epistemologica della ragione giuridica occidentale, sul quale si fonda la sfida del moderno stato democratico di diritto di regolare artificialmente (artificial reason) l'esercizio del potere statuale [L. Ferrajoli, 1993, 146]. Per un quadro più ampio della disciplina che è stata denominata epistemologia giuridica cfr.[C. Atias 1985; J. Lenoble-F. Ost, 1980].
Si veda a questo proposito il bel saggio, recentemente tradotto in italiano, di Sander Gilman [1993, 337-360], e le riflessioni, ormai classiche, di Susan Sontag [1989], nonchè i volumi pubblicati dalla Falmer Press sugli aspetti socio-culturali e politici del fenomeno Aids [P. Aggleton- H. Homans, 1988; P. Aggleton- P. Davies- G. Hart, 1990].
Questa affermazione non intende in alcun modo negare che in una prospettiva più rigidamente empirica le rappresentazioni sociali ed altri fattori socio-politici debbano essere analizzati per comprendere i nessi causali che hanno portato, rispetto alla tematica Aids, a specifiche normative e a specifici processi di implementazione.
Le normative degli ordinamenti giuridici positivi a questo proposito non sono di facile reperibilità. Per quanto riguarda le normative sull'Aids si può fare riferimento ad una raccolta di riferimenti legislativi dell'O.M.S. pubblicata nel giugno 1992 e ad una serie di tabelle riassuntive pubblicate dalla rivista "Aids-Forschung" (1990, pp. 615-630, 676-686; 1991, pp. 45-54, 100-106, 157-159, 226-227, 338-340, 396, 452, 508, 563-564, 620, 676; 1992, pp. 50-51, 107, 158-159, 219, 276, 331-332, 387-388, 441-442, 498-499). 
Occorre peraltro ricordare che tali raccolte molto raramente citano normative specifiche sul tema Aids-carcere.
Il riferimento è ai noti episodi verificatesi nelle carceri italiane prima dell'emanazione della legge n. 222/93, in cui ad alcune persone affette dal virus HIV è stato negato il diritto di morire nella propria abitazione.
Non adopero questa espressione nel suo senso più comune di scienza che studia il diritto penale positivo, bensì come disciplina meta-giuridica che ha come suo oggetto la produzione di argomenti giuridici nel campo del diritto penale, così come esperibili nel contesto spazio-temporale della modernità dell'Occidente ebraico-cristiano. In questa prospettiva la scienza giuridica appartiene, a pieno titolo, al novero delle scienze umane, in contrapposizione alla dogmatica giuridica che rappresenta l'aspetto meramente tecnologico dell'esperienza giuridica [P. Amselek, 1964, 361 e ss.]. Per la ripresa della scienza giuridica come pratica dell'argomentare si veda anche la nuova retorica elaborata da Chaim Perelman [1966].
Tralasciamo di occuparci in questa sede di quelle teorie della retribuzione giuridica che concepiscono la pena come mero ripristino dell'autorità statale e dell'ordinamento giuridico positivo, messi in pericolo dal delitto. Tali teorie pongono il diritto positivo al di sopra di qualunque considerazione morale e presentano significative affinità con le teorie utilitaristiche che separano radicalmente il diritto dalla morale [Von Beling, 1978].
Gli elementi di retribuzione giuridica consentono ad esempio di escludere la legittimità della pena esemplare inflitta all'individuo innocente o della punizione preventiva del soggetto socialmente pericoloso; figure di reato che invece non possono essere del tutto rifiutate da una prospettiva rigorosamente utilitaristica [A. Duff, 1993, 56-64].
E' questo il caso delle "malattie" che incidono direttamente sulla volontà dell'individuo, quali ad esempio la condizione di tossicodipendenza. Tale problema è stato, in Italia, spesso posto in secondo piano nel dibattito sulla tossicodipendenza come fattore di criminalità , ma potrebbe assumere rilevanza anche rispetto al tema Aids-carcere (data l'alta correlazione statistica tra Aids e tossicodipendenza), qualora si ritenesse di superare l'attuale regime del codice penale incentrato sulla fictio iuris della capacità di intendere e di volere del soggetto tossicodipendente [V. Militello, 1991; S. Vassalli, 1986; A. Manna, 1986]
Per avere un esempio di un'argomentazione giuridica di questo tenore si pensi a quella parte della dottrina giuridica italiana che non ha ritenuto applicabile ai malati a prognosi infausta quoad vitam l'art. 147 del codice penale, relativo al rinvio dell'esecuzione della pena, in quanto sarebbe venuto meno, in tal caso, l'imperativo categorico di punire le violazioni dell'ordine costituito [Manzini, 1981, III, 53]. Sul tema si veda anche [C. Crestani- D. Bordignon, 1986].
Ciò ovviamente quando per punizione s'intenda una sanzione materiale comminata da un'istituzione temporale, quale può essere un tribunale dello stato. Diversa può essere la prospettiva quando si considerino manifestazioni di autopunizione afferenti alla sfera interiore e/o religiosa dell'individuo (es. varie forme di penitenza religiosa che presuppongono il pentimento del peccatore). Sul tema cfr. P. Ricoeur [1970].
Occorre precisare come tale ricostruzione della struttura della pena moderna sia la descrizione, da un punto di vista interno, del discorso filosofico-giuridico che si è occupato dei limiti entro i quali si può considerare legittimo l'esercizio del potere punitivo da parte dello stato moderno. Si è parlato in questa prospettiva di "umanizzazione delle pene"; non va dimenticato, tuttavia, come, in una prospettiva esterna di ricostruzione genealogica di questo discorso giuridico, tale espressione debba essere colta in tutta la sua ambiguità. Su tale tema rimangono insuperate, per acutezza e ampiezza di prospettiva, le pagine di Michel Foucault [C. Sarzotti, 1991].
Nel nostro ordinamento, ad esempio, l'art. 133 del codice penale ne indica una lunga serie che tuttavia non può dirsi del tutto esaustiva, in quanto il giudice ha una larga discrezionalità nell'interpretare l'ampiezza di tali criteri (si pensi alla nozione di "condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo").
Non è certo agevole, nè risolvibile in questa sede, individuare la tendenza prevalente nella cultura penalistica italiana, sulla quale è sufficiente rimandare alle pagine riassuntive del dibattito di questi anni di Luigi Ferrajoli e alla bibliografia ivi citata [1989, 719-888]. Per quanto riguarda la situazione europea è noto come l'approccio neo-retributivista sia, ormai da alcuni anni, preponderante nelle culture scandinave [N. Christie, 1985, 55 e ss.], e abbia avuto una notevole ripresa nell'ambito della cultura giuridica anglosassone (si veda la recente raccolta di saggi curata da Antony Duff [1993, 3-129]).
Siamo debitori, per questa riflessione, alle considerazioni sull'efficacia deterrente della sanzione penale nel caso del consumatore tossicodipendente, svolte da Livio Pepino nel corso di un seminario tenutosi alla Camera Penale di Torino nella primavera del 1993.
Non si creda che questo sia un mero caso di scuola. E' nota la vicenda (la stampa periodica non ha perso occasione per sottolinearlo con toni spesso allarmistici) di un malato di Aids torinese che, in seguito alla legislazione italiana di incompatibilità tra Aids e detenzione, ha compiuto una cospicua serie di reati, dichiarando alle forze dell'ordine di polizia nell'immediatezza dell'arresto: "Che mi arrestate a fare? Tanto non mi potete mettere dentro". Questo caso ha inoltre avuto un esito drammatico con la morte del suo principale protagonista che, secondo notizie apparse sui quotidiani, sarebbe stata provocata dalle percosse ricevute, da parte di alcuni agenti di polizia, in occasione dell'ennesimo arresto (le circostanze del fatto sono attualmente al vaglio della magistratura).
Per l'Aids sono prevalse per lo più soluzioni giurisprudenziali che hanno utilizzato istituti previsti dagli ordinamenti penali e penitenziari dei vari paesi [T. Harding, 1990b, tav. 6]. Il legislatore italiano risulta essere l'unico che abbia sancito espressamente l'incompatibilità tra detenzione e malattia Aids modificando, con la legge n. 222/93, appositi articoli del codice penale (art. 146) e di quello di procedura (art. 286-bis). Tale legge, tuttavia, non ha mancato di sollevare perplessità di legittimità costituzionale, risolte dalla Corte Costituzionale con una recentissima sentenza che, secondo indiscrezioni giornalistiche, avrebbe sancito la legittimità della normativa precisando peraltro alcuni principi d'interpretazione sistematica di rilevante entità (estendibilità della legge ad altre patologie a prognosi infausta e predisposizione di interventi di contenimento per i soggetti malati).
La letteratura su questo tema è assai vasta; ai nostri fini è sufficiente richiamarsi, ancora una volta, ad una delle opere di sintesi di maggior valore pubblicate in questi anni, ricchissima di riferimenti bibliografici, e dovuta a Luigi Ferrajoli [1989, 386 e ss.].
Per quanto riguarda la situazione europea è possibile, a tal proposito, fare riferimento soprattutto al Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa (Raccomandazione n. R(87) 25 del 12 febbraio 1987 e n. R (89) 14 del 24 ottobre 1989) e all'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa (Raccomandazione n. 1080/88 del 30 giugno 1988 e n. 1116/89 del 29 settembre 1989).
Mi limito a richiamare le analisi foucaultiane già ricordate in precedenza e, rispetto alla situazione italiana, le recenti analisi di Giuseppe Mosconi [1992] e di Tamar Pitch [1989].
E' questo il caso di quei sistemi penitenziari che hanno adottato il modello autoritario di risposta all'Aids di cui si faceva cenno all'inizio [P. Darbeda, 1990].
Si vedano a questo proposito le considerazioni svolte da Susanna Ronconi e Silvia Ferazzi nel saggio successivo.

 

 

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