Quale carcere?

 

Quale carcere per il nuovo millennio?

di Giancarlo Caselli

 

Popoli, Giugno-Luglio 2000

 

 

Il sogno di un futuro più giusto passa anche attraverso la riabilitazione dei carcerati. Una parte dell'umanità vive tra sofferenze e contraddizioni, a volte nell'ingiustizia, la condizione di privazione della libertà. Con spesso una pena aggiuntiva: la perdita della speranza.

Questa testimonianza del dottor Giancarlo Caselli è tratta dal suo intervento tenuto nella chiesa di San Fedele a Milano, nell'ambito del ciclo "Cammini di liberazione". Ringraziamo l'Autore per la collaborazione.

La pena, soprattutto quella del carcere, è condanna che schiaccia l'altro oppure è percorso di riabilitazione, di possibile riabilitazione, per riprendere il cammino senza ritornare ancora sullo stesso errore? Il carcere deve essere il luogo dell'abbandono in cui dimenticare chi ha sbagliato, oppure può essere l'extrema ratio per contenere chi può fare del male a te e agli altri, preparando però il terreno per un suo cambiamento? Quante condanne sono più funzionali a eliminare, togliere di mezzo, buttar via la chiave, eliminare l'altro, piuttosto che a provare a restituirgli il cammino? Quando la colpa dell'altro, autorizza a infierire sul colpevole, si entra nell'ingiustizia. È un percorso molto esigente, molto difficile, quello che ci chiede di non usare la colpa dell'altro contro la sua persona. Ma questo percorso è premessa di giustizia. La sola giustizia capace di preparare la bontà vera, quella che tutti vorremmo, quella che tutti cerchiamo. Tuttavia, l'assolutezza del diritto può diventare sentenza contro la giustizia. Di qui la necessità di fare in modo che la giustizia resti sempre il senso tanto della legge quanto del diritto. Questo è il percorso da compiere, da provare a realizzare giorno per giorno, perché questa è la giustizia che costruisce i necessari legami perché nessuna colpa venga mai vissuta nell'isolamento, nella condanna senza speranza.

Come può, come dovrebbe cambiare il carcere, alla luce di queste riflessioni? È un lungo elenco di meno: meno luogo di segregazione, meno condanna e più restituzione di nuovo cammino, meno luogo di contenimento di problemi sociali irrisolti, meno disattenzione, meno solitudine. È gioco-forza però chiedersi quanta parte di questo obiettivo di rieducazione sia realizzabile nel contesto reale della istituzione penitenziaria. E senza pessimismi è necessario essere realisti. Non accontentarsi di risposte consolatorie. Le condizioni dell'istituzione penitenziaria sono molto difficili. Oggi il carcere funziona come ultimo livello istituzionale, come una discarica dolorosa, molte volte tragica, dove si fanno precipitare problemi che non sappiamo vedere, che se anche vediamo non sappiamo come risolvere. I problemi della salute, della tossicodipendenza, collegati a fallimenti familiari e scolastici, di disordine amministrativo, di miseria, immigrazione, disoccupazione, abbandono. Pochi sanno che il record di durata di detenzione in Italia, 49 anni, non è detenuto dall'autore di una strage, da un boss mafioso. È una persona che ha commesso, 50 anni fa - di più, perché bisogna calcolare i tempi del processo - i reati per cui è stata condannata. Ma oggi è una persona che vive in una cella di un ospedale psichiatrico giudiziario, dalla quale non vuole uscire, dalla quale nessuno ha il coraggio di farla uscire, di fatto, per non farla morire su una strada. Da noi trattandosi di persona senza nome, il suo caso è privo di interesse. Eppure questo caso chiarisce molto bene cosa sia di fatto il carcere nel nostro Paese.

Tra teoria e prassi c'è uno scarto troppo profondo. Ecco, questo scarto, io credo, è testimoniato, dimostrato, prima di tutto dalle cifre. A febbraio 2000 le presenze nelle carceri italiane contano 52.784 persone, 50.531 uomini, 2.253 donne. Circa 9mila posti in meno - se si considera la capienza regolamentare, effettiva, delle nostre carceri rispetto alle presenze - significano, che oltre la pena della progressione della libertà, il massimo concepibile nel nostro ordinamento costituzionale, viene inflitta una pena accessoria che non è scritta nella legge. Significa che le condizioni di lavoro del personale penitenziario, della polizia penitenziaria e degli altri operatori penitenziari, che sono già difficilissime, diventano ancora più difficili. Significa che gli spazi per quel necessario trattamento, perché la pena diventi speranza, perché la pena diventi mano tesa per una possibilità di recupero, si riducono in una maniera decisamente consistente, per usare un eufemismo. Se poi aggiungiamo che di questi 52.784 detenuti il 30% sono tossicodipendenti, e gli extracomunitari sono anch'essi ormai quasi il 30% (5.258 uomini, 262 donne, per un totale di 5.520 soggetti al 22 marzo 2000), allora il quadro si fa completo. Nelle nostre carceri c'è un'esigua minoranza di soggetti davvero pericolosi, o ritenuti tali in base al diritto contestato e la condanna inflitta.

È necessario occuparsi di questi problemi, porre la drammaticità delle loro dimensioni: il sovraffollamento di 9mila unità, rende, ripeto, tutto più complesso, più difficile, più tormentoso, più doloroso, in alcuni momenti sicuramente addirittura più spietato. Noi siamo la settima potenza industriale del mondo, è un dovere di civiltà l'attenzione verso chi ha maggiormente bisogno, ancorché abbia commesso errori anche gravi. Ma se tutto questo non sembrasse sufficientemente convincente e volessimo fare un ragionamento di costi e benefici, non potremmo non fare la considerazione che un carcere che non combini con l'espiazione della pena almeno il tentativo di recuperare, risocializzare, reinserire è un carcere che finisce per essere scuola di delinquenza, cinghia di trasmissione di scelte di contrapposizione alle regole di convivenza, un fattore di profondo disagio, di insicurezza. Cristo conosceva molto bene la psicologia dei carcerati e sapeva che, se vengono lasciati soli, possono entrare in una spirale di distruzione di sé, non solo psichica ma a volte anche fisica. Ma conosceva anche la nostra psicologia di uomini liberi, che siamo portati troppo facilmente a ragionare in termini di "se lo sono voluto"; "dovevano pensarci prima"; "tanto non c'è niente da fare" o "che cosa ci posso fare io", che è poi il "buttiamo via la chiave" che rappresenta un modo di pensare molto diffuso, troppo diffuso, nella nostra collettività.

 

 

 

Precedente Home Su Successiva