Reazioni culturali all'Aids

 

La reazione culturale all'aids dell'universo carcerario:

dall'espulsione al controllo interno

di Pietro Buffa e Claudio Sarzotti (Università di Torino)

Premessa

 

Il carcere non si è mai limitato a privare della libertà; la prigione, come ricorda Thomas Mathiesen [1996], è una pluralità di pene e di sofferenze, materiali e spirituali, che non possono mancare di incidere anche sulla salute del recluso. "La carne imprigionata", per utilizzare un'efficace espressione di Daniel Gonin [1994, 76 ss.], urla il suo disperato bisogno di libertà, rifiutandosi alle cure della medicina penitenziaria. Di ciò sembrano essere consapevoli gli stessi operatori penitenziari che hanno difficoltà a concepire il carcere anche come luogo di cura. Tale difficoltà è evidente nel caso che qui si analizza: la detenzione di persone colpite dal virus HIV. Dopo le note sentenze della Corte Costituzionale dell'ottobre 1995 e il conseguente superamento della legge 222/93 che aveva introdotto il principio della scarcerazione automatica dei detenuti più gravemente colpiti dal virus, il problema AIDS è tornato ad interessare direttamente l'universo carcerario italiano. I dati forniti dal Ministero di Grazia e Giustizia (aggiornati al 31.12.1997) indicano una presenza nelle carceri italiane di 1838 detenuti sieropositivi, pari al 3.8% della popolazione reclusa.Alcuni studiosi hanno affermato [S. Gilman, 1993; L. Lombardi Satriani, M. Boggio, F. Mele, 1995] che l'AIDS ha rappresentato "l'invasione del disordine e dell'incontrollabile" nel sistema sociale, in quello sanitario, nei sistemi di difesa delle persone infette e nel settore degli operatori sociali; ciò è avvenuto anche per il carcere e per la gestione giurisdizionale della pena [E. Gallo, V. Ruggiero, 1981]. Altri autori hanno ipotizzato che una invasione di tale portata possa determinare una reazione dell'istituzione penitenziaria, collocata in posizione strategica nella lotta alla diffusione dell'AIDS, tale da indurre la creazione di nuovi modelli d'intervento trattamentale, gestionale, formativo, in grado di influenzare le stesse politiche generali di prevenzione dell'HIV [M. Pavarini, 1991; M. Pastore, 1996].

L'intervento sull'AIDS in carcere deve necessariamente confrontarsi con l'organizzazione e il coinvolgimento delle risorse umane che, attraverso l'attività e la relazione intersoggettiva quotidiana, si rapportano con i detenuti. E' avviso di chi scrive che solamente un approccio realmente multiprofessionale e integrato possa consentire la gestione del problema in modo da poter raggiungere non solo l'obiettivo minimo dell'ordine e della sicurezza, ma anche quello della comprensione delle problematiche individuali e del reinserimento dei detenuti sieropositivi nel tessuto sociale. In un contesto caratterizzato da equilibri individuali e di gruppo molto delicati, quale quello del carcerario in generale e in particolare delle sezioni HIV/AIDS analizzate nella presente ricerca, la sintonia degli atteggiamenti e dei comportamenti di tutti gli operatori penitenziari, pur con compiti e modalità diverse, è alla base del successo operativo.

In tale prospettiva, l'obiettivo che qui ci proponiamo è duplice: da un lato, si propone un modello generale descrittivo della reazione che il fenomeno AIDS ha provocato nell'immaginario degli operatori penitenziari e delle persone detenute, dall'altro, si tenta una prima verifica empirica di alcune delle ipotesi avanzate dal modello stesso. Tale verifica è stata effettuata attraverso una ricerca con questionario precodificato che ha analizzato i profili percettivi, in ordine alla patologia AIDS, all'immagine del detenuto sieropositivo e alla tipologia degli interventi, del personale operante in due reparti (della Casa di Reclusione di Milano Opera e della Casa Circondariale "Le Vallette" di Torino) destinati ad accogliere detenuti sieropositivi.

Emergerà dalla lettura di queste pagine che l'ambizione della verifica empirica è stata più limitata rispetto agli elementi presenti nel modello descrittivo; ciò è dovuto ai limiti logistici e di risorse della ricerca effettuata. Abbiamo ritenuto di esporre questi risultati, per un verso, al fine di arricchire il dibattito sul tema AIDS e carcere con un primo tentativo di affrontare una verifica empirica di ipotesi elaborate teoricamente, per altro verso, allo scopo di dare risposta positiva a quegli stimoli innovativi, indotti e necessitati, che la comparsa dell'HIV ha introdotto nell'ambito penitenziario.

Un modello descrittivo della reazione culturale all'AIDS degli operatori penitenziari


Si è assistito in questi ultimi anni ad una significativa convergenza tra la riflessione di alcuni studiosi di teoria della pena e quella di alcuni sociologi del sistema punitivo. Studiosi provenienti da esperienze disciplinari diverse hanno concentrato la loro attenzione sulle funzioni simboliche della pena, reagendo all'apparente venir meno delle sue funzioni reali (general-preventive, special-preventive, rieducative, etc.).Il modello descrittivo della reazione della cultura carceraria al fenomeno AIDS che qui s'intende proporre in questa sede è debitore in buona misura di tale approccio simbolico. Esso non concerne, in via principale, azioni o comportamenti reali, ma riguarda soprattutto percezioni soggettive, stereotipi, simboli, mentalità collettive e di gruppi particolari. Tale modello ha l'obiettivo non tanto di ricostruire che cosa avviene "realmente" in carcere o di fornire indicazioni dirette dal punto di vista operativo. Si è cercato, invece, di elaborare una tipologia di reazioni culturali che i vari gruppi di operatori penitenziari hanno avuto all'apparire del fenomeno AIDS in una istituzione totale come il carcere.Molti degli elementi con cui è stata costruita tale tipologia sono legati ad un immaginario collettivo che risale ai primi anni della scoperta del virus HIV. La situazione, da un punto di vista organizzativo e gestionale, è senza dubbio mutata in positivo negli ultimi anni sia rispetto alla paura del contagio, che alla garanzia dei diritti dei detenuti sieropositivi. Tuttavia, l'immaginario collettivo ha continuato ad operare segretamente, nutrendosi di pregiudizi e stereotipi duri a morire che hanno condizionato, a nostro parere, anche gli interventi mossi dalle migliori intenzioni. La ricerca empirica che abbiamo effettuato lo ha per molti aspetti confermato.

La costruzione del nostro modello descrittivo si è ispirata ad alcune categorie d'analisi dell'antropologa Mary Douglas [1996]. Tali categorie sono state elaborate nel quadro più ampio di una riflessione sui modi attraverso i quali le società interpretano gli eventi imprevisti (le "disgrazie") e sul tipo di attribuzione di colpa (blaming) da essi innescato. In questo orizzonte di riflessione, la Douglas ha costruito uno schema interpretativo che prevede quattro modalità tipiche di reazione culturale al fenomeno AIDS: quella della comunità centrale, delle enclaves dissenzienti, degli isolati, degli individualisti. Lo schema della Douglas è stato dunque elaborato avendo come riferimento la globalità dei consociati delle società occidentali. Ciò ci deve rendere prudenti sulla possibilità di applicarlo meccanicamente ad un contesto parziale, chiuso ed istituzionale come quello del carcere. Tocchiamo qui il tema del grado di permeabilità dell'istituzione totale rispetto alla società esterna, grado che, seguendo l'insegnamento di Erving Goffman, può variare in modo rilevante a seconda del tipo di istituzione totale. Non è qui possibile approfondire il tema dei rapporti interno/esterno carcerario; al solo fine di legittimare la nostra scelta di valutare in quali termini la classificazione proposta dalla Douglas possa essere trasposta allo studio dell'universo penitenziario, sarà sufficiente concordare con lo stesso Goffman quando afferma che qualunque sia il grado di permeabilità delle istituzioni totali rispetto al mondo esterno, "ci saranno sempre limiti alle loro tendenze al rimaneggiamento dei ruoli, (Ö) dato che solo così l'istituzione può mantenerne i rapporti necessari ed esserne tollerata" [E. Goffman, 1968, 148]. Ciò vale non solo per i ruoli, ma anche per atteggiamenti, rappresentazioni, valori che gli individui interiorizzano e che costituiscono un patrimonio originale, socialmente e culturalmente determinato, di formazione essenzialmente extra-carceraria.

Se, in altri termini, non si sopravvalutano le capacità manipolatorie del carcere, diventa possibile sostenere la tesi che il carcere possa essere considerato una microcomunità che in qualche modo ha ripercorso le reazioni della società extramuraria al fenomeno AIDS, pur attraverso modalità condizionate dalle relazioni sociali e di potere presenti all'interno di una istituzione totale. Se si accetta questa premessa, si può ritenere che anche nel carcere sia esistita una "comunità centrale" (d'ora innanzi c. c.) che ha modellato fedelmente la sua conoscenza di ciò che è sicuro in fatto di igiene e di comportamento sessuale sull'opinione della medicina ufficiale ed ha esercitato sugli altri gruppi una forte spinta a conformarsi, percependo il rifiuto di adeguarsi alla teoria ufficiale del rischio medico come un fatto di ignoranza e di irrazionalità. Si tratta "di un gruppo ordinato e, in una certa misura, centralizzato (...). E' un sistema simbolico, che genera solidarietà, in grado di mobilitarsi per la propria difesa, dotato di solide opinioni sulle norme corrette di comportamento (Ö) e i suoi membri in generale sono soliti aumentare l'efficacia delle norme convenute di comportamento con una lista di pericoli naturali che annienterebbero l'intera comunità se venisse consentita la devianza" [M. Douglas, 1996, 125].

La reazione all'AIDS della c. c. analizzata dalla Douglas immagina un "corpo come protetto da un doppio involucro, la propria pelle e la pelle della comunità". Quest'ultima ha un ruolo preponderante nell'impedire il contagio, anche se è sempre in pericolo di essere violata. Conseguentemente "(a)ll'interno della comunità una persona può essere al sicuro finché gli accessi al corpo e gli accessi alla comunità sono sotto controllo. Le misure più appropriate contro l'epidemia sono il consolidamento della comunità, l'esclusione degli outsiders e la repressione dei devianti. (...) Quindi occorre definire e isolare le categorie a rischio" utilizzando "procedure di attribuzione di colpa: la popolazione a rischio viene divisa in persone che hanno bisogno di cura e protezione e in persone che devono venire isolate forzatamente" [M. Douglas, 1996, 139].

Volendo trasporre il modello della Douglas al carcere, occorre chiedersi innanzitutto quali siano i confini della c. c. carceraria. La sua struttura centralizzata e la sua posizione di potere riconducono immediatamente, nel contesto carcerario, all'area dello staff [E. Goffman, 1968] e quindi ai soggetti che hanno un ruolo all'interno dell'amministrazione penitenziaria. La c. c., così come concepita dalla Douglas, non è una struttura monolitica, "può avere uno o due centri coordinati tra di loro" [M. Douglas, 1996, 125]. Tale struttura dualistica si adatta bene al contesto penitenziario, riuscendo a dar conto della dialettica esistente tra operatori del trattamentale e del custodiale [C. Sarzotti, 1999].

Più problematico appare, invece, stabilire se della c. c. possa far parte anche una quota della popolazione detenuta, in particolare quella parte di detenuti che hanno interiorizzato i "valori" dell'istituzione totale e rispetto ai quali gli effetti della c. d. prigionizzazione si sono fatti maggiormente sentire La nostra ricerca non è in grado di fare affermazioni validate empiricamente su tale aspetto, ma certamente non pare irragionevole pensare che nella reazione della c. c. carceraria all'AIDS abbiano giocato un ruolo rilevante anche atteggiamenti, rappresentazioni, stereotipi di una considerevole quota della popolazione reclusa; detenuti che, rispetto al tema AIDS, si sono spesso ritrovati in singolare sintonia con i membri dell'amministrazione.

La c. c. penitenziaria, inoltre, parrebbe caratterizzarsi per i seguenti elementi.

a) L'accesso alla comunità carceraria è determinato in gran parte da processi esterni che non possono essere influenzati che in misura molto limitata dalla comunità stessa. Ciò ha prodotto una indubbia tensione tra la volontà di espellere il problema AIDS dal circuito carcerario da parte della c. c. e l'esigenza di rispondere al problema della pericolosità sociale delle persone sieropositive, soprattutto dopo le note vicende della c.d. banda dell'AIDS di Torino.b) In prigione, le procedure di attribuzione di colpa debbono essere applicate in modo selettivo a soggetti (i condannati) che per definizione sono "colpevoli". Si può parlare, quindi, di "doppia colpevolezza" dei detenuti sieropositivi. Ciò ha comportato, nell'ambito carcerario, una continua oscillazione della figura del sieropositivo tra quella del reo, responsabile delle proprie azioni, e quella del malato bisognoso di cure, ma prima ancora di controllo coatto. Al detenuto sieropositivo è stata attribuita una identità che conserva al proprio interno la necessità sia della cura e della protezione, che dell'isolamento forzato.

c) Rispetto al tema dei pericoli naturali che minacciano la c. c., il carcere sembra averli individuati in comportamenti tabù che vengono ritenuti non solo pericolosi per la salute, ma devastanti per la sua stessa organizzazione interna: il consumo di droga e i rapporti sessuali e di affettività tra detenuti. Tali comportamenti, rigorosamente vietati dal regolamento carcerario, vengono considerati dalla c. c. inammissibili per il mantenimento dello stesso sistema penitenziario, tanto da rendere molto difficile ogni tentativo di applicare alla prigione strategie di riduzione del danno.Fatte queste premesse, è possibile ipotizzare che in Italia la reazione all'AIDS della c. c. penitenziaria si sia sviluppata attraverso due modelli che si sono tendenzialmente succeduti nel tempo: il modello dell'espulsione e quello del controllo interno.Modello dell'espulsioneSi tratta di un modello che prevede l'impedimento all'accesso o l'espulsione delle persone sieropositive dal carcere. Tale modello si è sviluppato nella fase di maggior panico provocato dal virus ed ha avuto la sua espressione più pura con l'emanazione di una normativa come la legge 222/93 che, pur di raggiungere l'obiettivo di "liberare" il carcere dall'incubo AIDS, ha posto in secondo piano ogni istanza di carattere securitario. Si trova traccia di questo modello nel paradosso di una cultura carceraria autoritaria che, rispetto all'AIDS, diventa liberale. Si tratta di un atteggiamento che fa prevalere, nell'immagine del condannato sieropositivo, l'aspetto del malato rispetto a quello del reo. Il carcere, in tale prospettiva, viene visto come una struttura inadatta a curare le malattie non tanto perché carente nelle sue strutture sanitarie, ma piuttosto perché del problema AIDS dovrebbero farsi carico altre istituzioni; in altri termini, si utilizza la malattia come argomento per espellere detenuti considerati "scomodi".

Non è possibile spiegare l'instaurarsi di questo modello solamente come il risultato del panico prodotto dalla paura del contagio nei primi anni della scoperta del virus; in realtà, il malato di AIDS ha posto (e pone) dei problemi ben maggiori alla c. c. carceraria, in quanto ha richiesto una serie di interventi che hanno messo in discussione la sua stessa organizzazione: assiduità e continuità nelle cure, molteplicità di trasferimenti e visite mediche col conseguente contatto con operatori esterni al carcere, una maggiore distanza fisica e difficoltà ad esercitare azioni intrusive nella sfera della privacy del detenuto anche per timore di essere contagiati, la necessità di un aiuto e di un sostegno psicologico che ha modificato il rapporto umano custode-custodito.

Modello del controllo interno attraverso sezioni speciali

In seguito alla progressiva spinta extra-carceraria per il superamento della legge 222 anche la cultura della c. c. ha dovuto modificarsi. Si è passati, in tal modo, dal modello dell'espulsione a quello del controllo interno, ovvero al tentativo, da un lato, di controllare in modo più rigoroso l'accesso al carcere, auspicando l'obbligatorietà del test sierologico all'entrata e, dall'altro, di separare le persone sieropositive dalla comunità carceraria, attraverso la costituzione di sezioni speciali e una massiccia medicalizzazione del problema. In tale prospettiva, il pendolo dell'immagine del detenuto sieropositivo si è spostato nuovamente dalla figura del malato verso quella del reo socialmente pericoloso.

Tale modello è quello prevalente nel momento attuale e si caratterizza per il tentativo dell'amministrazione penitenziaria di esercitare una pressione discreta nei confronti dei detenuti affinché si sottopongano al test, in quanto il modello presuppone che si abbia piena conoscenza della condizione di sieropositività delle persone recluse per poterle collocare nelle sezioni speciali. Tali sezioni sono in grado di garantire una qualità della vita superiore a quella esistente negli altri bracci del carcere, sia rispetto al livello dei servizi sanitari e alle condizioni igieniche, che all'impiego di risorse trattamentali. Ciò consente anche il coinvolgimento "volontario" di operatori di polizia penitenziaria e di detenuti sieronegativi che altrimenti incontrerebbero molte difficoltà a coabitare con persone sieropositive.

Ad un primo esame, si tratta di soluzioni positive dal punto di vista logistico e organizzativo. Occorre, tuttavia, non sottovalutare i rischi che tali soluzioni comportano sotto i profili culturale e dell'immaginario carcerario. In primo luogo, il modello del controllo interno tende a fare della sieropositività un elemento di identità della persona reclusa anche quando ciò non sarebbe necessario. I pericoli di ghettizzazione e di ulteriore emarginazione delle persone recluse, o che lavorano come operatori in questi reparti, sono molto elevati. In secondo luogo, esiste il forte rischio che le misure igienico-sanitarie e di trattamento attuate in questi reparti sottraggano risorse e facciano calare l'attenzione sui rischi di contagio negli altri settori del carcere (si tratta in pratica dello stesso argomento avanzato contro l'obbligatorietà del test anche nel contesto extra-murario).

Oltre alla reazione della c.c., è possibile utilizzare anche per il contesto carcerario le altre modalità di reazione all'AIDS proposte dalla Douglas? Su questo tema possiamo svolgere solo qualche congettura, in quanto la sua verifica empirica non è stata possibile, riguardando la popolazione detenuta. A tal proposito, al di là delle difficoltà ad applicare al contesto carcerario la categoria empirica degli "individualisti", ci pare che i tipi di reazione delle enclaves dissidenti e degli isolati potrebbero rispettivamente corrispondere, con qualche grado di approssimazione, a quella dei detenuti sieropositivi organizzati in associazioni per la protezione dei loro diritti e a quella dei detenuti sieropositivi non organizzati.

Le enclaves dissidenti, così come definite dalla Douglas, "accettano o fanno in modo di essere socialmente separate dal centro. Al tempo stesso, avendo scelto di rimanere ai margini, o ritrovandosi ai margini, accettano anche l'affinità che questa condizione crea tra loro (una comunità negativa d'interesse)" [M. Douglas, 1996, 130]. Critiche verso la medicina ufficiale, esse rappresentano "una protesta contro le professioni avide di potere, universalmente elitarie, in particolare contro i medici e l'industria farmaceutica e contro un governo che non si prende cura dei governati". Negli ambienti dei dissidenti circola "l'idea della cospirazione" del potere contro i sieropositivi, il che rafforza l'identità del gruppo. Essi reagiscono alla comune sventura con la solidarietà interna e con il doppio involucro protettivo, espellendo i membri a rischio.

Rispetto allo specifico carcerario tale ricostruzione sembra essere calzante almeno per quanto riguarda alcuni aspetti della reazione dei detenuti sieropositivi organizzati e politicamente ideologizzati. In questi reclusi sembra essere presente una forte ostilità nei confronti della c. c. carceraria e se questa ostilità può essere considerata tradizionale verso l'amministrazione penitenziaria in quanto tale, essa è presente in misura massiccia anche nei confronti della popolazione detenuta non sieropositiva. In carcere, come noto, non esiste solamente il conflitto tra agenti di custodia e detenuti, ma anche quello tra diversi gruppi di detenuti [G. M. Sykes, 1958, 76 ss.]. Rispetto al tema AIDS, i conflitti nella popolazione detenuta sembrano aver riproposto le dinamiche di scontro registratesi tra detenuti tossicodipendenti e non, in quanto, come confermano le statistiche citate in precedenza, sieropositività e tossicodipendenza in prigione tendono a sovrapporsi [D. Malfatti, 1995]. La cultura carceraria ha fatto molta fatica ad accettare il detenuto tossicodipendente; quest'ultimo è sempre stato considerato, soprattutto da parte del mondo della criminalità organizzata [A. Cottino, 1998, 100], inaffidabile, a causa della sua facile ricattabilità, e, da parte del personale di custodia e sanitario, scomodo, perché portatore di eccessive richieste di intervento. Da alcuni anni, tuttavia, il numero dei detenuti tossicodipendenti è così elevato (siamo ormai costantemente oltre il 30%) che anche la cultura carceraria si è modificata. L'AIDS, tuttavia, ha contribuito a reinnescare il conflitto, in quanto il detenuto tossicodipendente e sieropositivo è stato percepito anche come una minaccia diretta per la salute. Di qui il rifiuto a coabitare con compagni di cella sieropositivi ed episodi di discriminazione nella vita in carcere, quali uso eccessivo di misure precauzionali da parte degli agenti, preoccupazione irrazionale per "irrealistiche" modalità di trasmissione del virus (ad esempio il sudore o l'uso promiscuo di stoviglie), non assegnazione di alcuni lavori all'interno del carcere (ad esempio quelli che si svolgono in cucina), percezione in termini di odioso privilegio del trattamento riservato ai detenuti sieropositivi.

Un'altra forma di ostilità presente nei detenuti "organizzati" sembra essere quella nei confronti di quei membri dell'enclaves che non si adeguano al gruppo. A tal proposito, ci si può riferire alla feroce stigmatizzazione che la già citata "banda dell'AIDS" di Torino ha dovuto subire nell'ambito della popolazione detenuta sieropositiva: la banda venne percepita come un facile pretesto per l'affossamento della legge 222 e i suoi componenti non ricevettero dalla comunità dei detenuti sieropositivi alcuna forma di solidarietà [A.R. Favretto, 1999].

Un altro elemento che potrebbe rientrare nello schema della Douglas è quello dell'idea della cospirazione che, secondo i detenuti "organizzati", l'amministrazione penitenziaria svolgerebbe ai danni dei detenuti (tutti i detenuti, non solo quelli sieropositivi); così come quello di una solidarietà interna molto intensa e che si estende, tuttavia, a quei membri della c. c. (per lo più operatori del trattamentale) che dimostrano sensibilità verso i problemi delle persone sieropositive. In ultimo, allo schema della Douglas, può essere assimilato anche lo spirito critico dei detenuti "organizzati" verso le norme che regolano la c. c., in particolare non tanto per i principi che le ispirano, ma per le lentezze burocratiche che impediscono la loro attuazione. Si assiste, a tal proposito, ad una contrattazione sull'applicazione del regolamento carcerario e il detenuto modula il proprio grado di conflitto con l'istituzione penitenziaria attraverso la negoziazione dei suoi diritti formalmente garantiti [G. Benguigui, A. Chauvenet, F. Orlic, 1994].

L'ultima modalità di reazione all'AIDS elaborata dalla Douglas è quella degli isolati, ovvero di quei soggetti che si caratterizzano per l'assenza di un sostegno del proprio gruppo e che quindi "sono fatalisti: avvertono il pericolo di una cospirazione, ma non li colpisce né li sorprende come accade agli altri membri dell'enclave. (...) Essere isolati vuol dire che non c'è nessuno con cui discutere, nessuno di fronte a cui rivendicare la continuità e la coerenza delle proprie idee. Nessuno è interessato a ciò che pensano, per cui, nella sfera del pensiero, essi agiscono in autonomia. Laddove la libertà degli altri è limitata dalle esigenze del conflitto culturale, gli isolati sono resi liberi dal loro isolamento" [M. Douglas, 1996, 132]. Aumenta l'eccentricità e l'imprevedibilità dei loro comportamenti.

Nel modello dell'isolato sembrerebbero rientrare una buona parte dei detenuti sieropositivi che non partecipano alle attività interne all'istituto o che vivono passivamente tali attività. Si tratta di soggetti che sembrano rifiutare il contatto con l'amministrazione e con gli altri detenuti; persone emarginate, che non hanno voce e che pongono in essere comportamenti a rischio in quanto spesso rifiutano il test, comunque nascondono la loro sieropositività, non chiedono aiuto agli operatori del trattamentale e vivono fatalisticamente l'esecuzione della pena. L'efficacia degli interventi rispetto ad essi è minima: ad esempio, le informazioni sulle modalità di contagio non vengono recepite ed attuate. Da un lato, si tratta di quei detenuti che sembrano non avere più nulla da perdere e che quindi esprimono il loro isolamento attraverso una sfrenata libertà che non conosce regole di convivenza; persone a cui sembrano adattarsi perfettamente le parole della canzone di Bruce Spreengsten, colonna sonora del film Dead man walking: "non chiederò perdono dei miei peccati, perché sono l'unica cosa che mi resta". La banda dell'AIDS era certamente percorsa da questa follia disperata.

D'altro lato, tuttavia, a questa categoria sembrano rispondere anche quei soggetti reclusi che rivolgono verso se stessi la frustrazione provocata dall'isolamento e dalla malattia, compiendo atti autolesionistici o assumendo un atteggiamento di totale apatia. Questi detenuti sembrano esprimere la loro residua "forza di resistenza" [M. Foucault, 1998] attraverso il rifiuto della logica della rieducazione e della prevenzione del rischio, isolandosi in una disperata difesa della propria autonomia di individui.

  L'impianto metodologico e il campione oggetto della ricerca
Prima di passare all'esame dei principali dati emersi dalla ricerca, è opportuno delineare brevemente la metodologia d'indagine adottata che ha guidato la scelta del campione e la rilevazione dei dati.

Il campione è stato scelto tra le figure professionali che operano a più diretto contatto con i detenuti HIV/AIDS ricoverati presso le strutture in esame, ovvero i medici, i paramedici e la polizia penitenziaria. Complessivamente nel reparto milanese operavano, al momento della rilevazione (febbraio-maggio 1997), 15 medici, 12 paramedici e 40 unità di polizia penitenziaria. Rispetto a questi ultimi, tuttavia, è stato possibile somministrare il questionario solamente a 25 unità, viste le assenze per riposo o congedo ordinario. Pertanto, globalmente, il campione ammonta a 52 unità e costituisce il 77.6% del personale operante al centro clinico dell'istituto. Al blocco "A" dell'istituto torinese operavano 10 medici, 10 paramedici e 86 unità di polizia penitenziaria. Complessivamente, a causa di assenze di varia natura, il campione esaminabile è ammontato a 77 operatori, pari al 72.6% del totale dell'organico.

Il questionario somministrato si differenziava leggermente tra i gruppi, da un lato, dei medici e paramedici, dall'altro, della polizia penitenziaria; esso è stato formulato sulla base delle ipotesi del modello descritto nel paragrafo precedente e al fine di sondare la percezione degli operatori rispetto agli elementi che alcuni autori [B. Magliona, 1994, 1996; M. Pastore, 1996] hanno indicato come costitutivi del modello di gestione fornito dall'O.M.S. e dal Consiglio d'Europa per la prevenzione della diffusione dell'AIDS in carcere. In particolare, sono stati considerati i seguenti punti: modalità d'intervento, efficienza ed efficacia dei servizi sanitari penitenziari, informazione e prevenzione dell'AIDS, strategie di riduzione del danno, test sierologico e riservatezza, gestione dei detenuti HIV e di quelli in AIDS conclamato.

Come detto, essendo il campione intervistato formato da figure di operatori penitenziari che appartengono a quella che abbiamo definito la c. c. del carcere, la verifica empirica del nostro modello descrittivo è stata possibile solamente per questo tipo di reazione al fenomeno AIDS. Vedremo, tuttavia, come tale modello di reazione non debba concepirsi in modo monolitico, ma presenti al suo interno delle articolazioni piuttosto marcate. Articolazioni che sono emerse soprattutto rispetto a due variabili del campione: l'appartenenza a diverse categorie professionali, in particolare tra personale medico e paramedico e operatori della custodia, e l'aver operato o meno in un contesto organizzativo ed istituzionale nel quale sia stata prevista una fase di formazione e di sensibilizzazione al fenomeno AIDS.

Le principali difficoltà dell'operatore penitenziario di fronte ai detenuti sieropositivi
Un primo elemento attraverso cui verificare la reazione all'AIDS della c. c. carceraria è stato quello relativo alla percezione che gli operatori possiedono delle difficoltà del loro rapportarsi al detenuto sieropositivo. Tali difficoltà si possono manifestare con stati d'ansia che talora vengono esternati a coloro che maggiormente possono condividerli: i colleghi di lavoro. Di qui la domanda relativa al confidare ad essi problemi inerenti alla sieropositività dei detenuti, al fine anche di sondare gli effetti dell'impatto emotivo determinato dal lavoro a contatto con detenuti/pazienti affetti da una patologia incurabile (tab. 1).

Tab. 1

Le è mai capitato di confidare a suoi colleghi problemi ed ansie determinate dal servizio a contatto con detenuti HIV/AIDS?

MediciParamedici Polizia penitenziariaTotalesì, spesso 1 (6.7) -2 (8.0)
3 (5.8)sì, a volte 5 (33.3) 6 (50.0) 9 (36.0) 20 (38.5)no, mai 8 (53.3)
5 (41.7) 13 (52.0) 26 (50.0) non risp.1 (6.7) 1 (8.3) 1 (4.0) 3 (5.7)TOTALE15 (100.0) 12 (100.0) 25 (100.0) 52 (100.0) Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano ñ Opera MediciParamedici Polizia penitenziariaTotalesì, spesso
2 (25.0) 2 (28.6) 34 (54.8) 8 (49.3)sì, a volte 2 (25.0) 1 (14.3) 17 (27.4) 20 (26.0)no, mai 4 (50.0)4 (57.1)
10 (16.2) 18 (23.4)non risp.--1 (1.6) 1 (1.3) TOTALE  8 (100.0)  7 (100.0) 62 (100.0) 77 (100.0)
Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"Se globalmente oltre il 44% del campione milanese ha dichiarato di confidare, spesso od occasionalmente, ai propri colleghi i problemi e le ansie connesse a questo delicato incarico, l'insieme degli intervistati a Torino ha dichiarato identico comportamento in oltre il 75% dei casi. La differenza, tuttavia, appare macroscopica all'interno dei campioni di polizia penitenziaria (Mi: 44%; To: 82.2%) e non si manifesta, invece, per il personale medico e paramedico 
(Mi: 44.4%; To: 46.6%).

Al di là delle differenze tra le due realtà carcerarie e tra le categorie di operatori, è rilevante il dato complessivo per cui ben oltre la metà degli intervistati (esattamente il 62.7% dell'intero campione intervistato) afferma di aver confidato a propri colleghi stati d'ansia legati all'AIDS. Ciò sembra avvalorare la nostra ipotesi che la reazione della c. c. sia stata dettata in buona misura dalle paure e dall'ansia che l'AIDS ha gettato nell'ambito del carcerario. Anche le differenziazioni presenti possono essere spiegate con il passaggio dal modello dell'espulsione al modello del controllo interno. In particolare, è possibile sostenere che gli operatori con minori strumenti formativi ad hoc e più deboli risorse culturali (si pensi al personale custodiale della casa circondariale torinese) abbiano presentato maggiori difficoltà a superare il primo modello, nel quale l'ansia rispetto agli effetti pericolosi dell'AIDS giocava un ruolo senza dubbio centrale. Viceversa, l'avvento del secondo modello è stato con ogni probabilità favorito da iniziative di sensibilizzazione e di formazione specifiche sull'AIDS e anche da una maggiore conoscenza degli effetti e della modalità di trasmissione del virus HIV, che presumibilmente si è diffusa con maggior celerità all'interno del personale medico e paramedico.

Per cercare di sondare con un altro elemento di valutazione l'ansia manifestata dagli operatori, soprattutto del custodiale, è interessante esaminare il giudizio che la polizia penitenziaria ha fornito rispetto alle dotazioni di materiale e strumenti di protezione (tab. 2).

Tab. 2

Ritiene che la fornitura di materiale di protezione a disposizione nei vari posti di servizio sia (campione polizia penitenziaria)

C.R. Milano ñ OperaC.C. Torino "Le Vallette"ottima 4 (16.0) 3 (4.8) discreta 2 (8.0) 3 (4.8)sufficiente 9 (36.0)
3 (4.8) insufficiente 8 (32.0) 30 (48.4)assente 2 (8.0) 22 (35.5) non risponde-1 (1.7)TOTALE 25 (100.0)
62 (100.0). Come si evince dalla tabella il 60% del campione milanese ha espresso un giudizio positivo, pur sottolineandone il livello di mera sufficienza. Da parte sua il gruppo torinese ha indicato, invece, un giudizio positivo solo nel 14.4% delle risposte, mentre addirittura il 35.5% (contro l'8% del campione milanese) ritiene che il materiale in questione sia assente. È bene ricordare che, in realtà, entrambi i reparti sono provvisti del materiale in questione. Questo dato di realtà induce a pensare che la percezione negativa sia il prodotto di una distorsione determinata dalla consapevolezza che, in caso di incidente, la probabilità di essere infettati potrebbe essere molto alta con le conseguenze infauste che ciò determinerebbe. La percentuale di risposte negative, infatti, sembra potersi correlare con la percezione del rischio di essere infettato e quella del grado di aggressività dei detenuti HIV/AIDS. Se, infatti, passiamo a sondare la percezione del livello di sicurezza professionale (tab. 3), possiamo vedere come le tendenze appena esaminate si ripropongano con estrema coerenza.

Tab. 3

A suo parere qual'è il rischio di essere infettato nell'ambito del servizio che presta quotidianamente?

Medici Paramedici Polizia penitenziariaTotale nullo----bassissimo 4 (26.7) 1 (8.3) 3 (12.0) 8 (15.4)basso
5 (33.3) 1 (8.3) 5 (20.0) 11 (21.1) discreto 5 (33.3) 3 (25.0) 4 (16.0) 12 (23.1) alto 1 (6.7) 6 (50.0) 7 (28.0)
14 (26.9) altissimo- 1 (8.3) 6 (24.0) 7 (13.5) non risponde----TOTALE 100.0 (15) 100.0 (12) 100.0 (25)
100.0 (52) Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano ñ Opera Medici Paramedici Polizia penitenziariaTotale nullo----bassissimo 2 (25.0)--2 (2.6) basso 2 (25.0)- 2 (3.2)4 (5.2) discreto 3 (37.5)
2 (28.6) 10 (16.1) 15 (19.5) alto1 (12.5) 3 (42.8) 19 (30.7) 23 (31.1) altissimo- 2 (28.6) 29 (46.8) 31 (40.2) non risponde-- 2 (3.2) 2 (1.3) TOTALE 8 (100.0) 7 (100.0) 62 (100.0) 77 (100.0) Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"La tabella mostra che, pur essendo maggioritaria una posizione di preoccupazione verso il rischio d'infettarsi, nel campione milanese tale posizione si assesta al 63.5% (accorpando le risposte discreto, alto e altissimo), mentre a Torino il campione esprime una percezione di rischio ben più diffusa, praticamente unanime, pari al 90.8% delle risposte. Vi è da notare, inoltre, come in entrambi i contesti operativi siano i medici ad evidenziare una maggiore propensione a valutare il rischio di infezione basso o bassissimo (60% a Milano contro il 50% di Torino), mentre è ancora la polizia penitenziaria di Torino la categoria che esprime la percezione più negativa. Tale dato può essere spiegato, con ogni probabilità, con il più elevato livello di conoscenza delle modalità di trasmissione del virus in possesso del personale medico.

Il modello dell'espulsione oltre ad essere caratterizzato dall'ansia e dal timore degli effetti dell'AIDS, è anche segnato dal timore che il detenuto sieropositivo comporti un appensantimento degli oneri gestionali per l'istituzione penitenziaria. Da tale punto di vista, il campione intervistato presenta una sostanziale identità di vedute nella percezione dell'aumento del carico di lavoro che comporta l'operare in reparti destinati ad accogliere detenuti HIV/AIDS (tab. 4).

Tab. 4

A suo parere la presenza in una sezione di detenuti HIV/AIDS determina l'aumento del carico di lavoro?

Medici Paramedici Polizia penitenziariaTotale sì 11 (73.3) 8 (66.7) 16 (64.0) 35 (67.3) no.2 (13.3) 3 (25.0)
7 (28.0) 12 (23.1) non so 1 (6.7) -1 (4.0) 2 (3.8) non risponde 1 (6.7) 1 (8.3) 1 (4.0) 2 (5.8) TOTALE
15 (100.0) 12 (100.0) 25 (100.0) 52 (100.0)  Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano  Opera Medici Paramedici Polizia penitenziariaTotale sì 7 (87.5) 6 (85.7) 50 (80.6) 63 (81.8) no-1 (14.3) 10 (16.2) 
11 (14.3) non so 1 (12.5) -1 (1.6) 2 (2.6) non risponde -1 (1.6) 1 (1.3) TOTALE 8 (100.0) 7 (100.0) 
62 (100.0) 77 (100.0 ) Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"Anche qui, tuttavia, il campione torinese risulta percepire un maggior aggravio di lavoro prodotto dai detenuti sieropositivi di quello milanese (81.8% di risposte affermative contro il 67.3%). Le tre categorie professionali nell'ambito dei rispettivi campioni evidenziano, invece, una certa omogeneità di atteggiamento. Vi è da sottolineare come il dato relativo alla polizia penitenziaria milanese risulti corrispondere a quello rilevato in una precedente ricerca nel Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano di Firenze, ove il 60% degli operatori della sicurezza hanno espresso un'identica convinzione [S. Sirigatti, 1994].

La percezione delle difficoltà degli operatori ad operare con soggetti HIV/AIDS può essere verificata anche attraverso la propensione a chiedere di essere trasferito ad altro incarico (tab. 5). Trattandosi di operatori che comunque operano all'interno di reparti destinati a detenuti HIV/AIDS la domanda ha utilizzato la forma ipotetica.

Tab. 5

Hai mai pensato di chiedere di essere trasferito ad altro incarico?

MediciParamediciPolizia penitenziariaTotale sì 5 (33.3) 2 (16.6) 8 (32.0) 15 (28.8) no 9 (60.0) 8 (66.7) 
13 (52.0) 30 (57.7) non so -3 (12.0) 3 (5.7) non risponde 1 (6.7) 2 (16.6) 1 (4.0) 4 (7.6) TOTALE 15 (100.0)
12 (100.0) 25 (100.0) 52 (100.0) Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano Opera Medici Paramedici Polizia penitenziariaTotale sì 1 (12.5) 2 (28.6) 41 (66.1) 44 (57.1) no 6 (75.0) 2 (28.6) 9 (14.5)
17 (22.1) non so 1 (12.5) 3 (42.8) 12 (19.4) 16 (20.8) non risponde TOTALE 8 (100.0) 7 (100.0) 62 (100.0)
77 (100.0) Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"Nonostante i rischi connessi all'operare in reparti infettivi e l'aumento dei carichi di lavoro, dunque, solo il 28.8% del campione milanese ha ipotizzato una simile richiesta e poco meno del 60% esclude invece ogni ripensamento. A Torino la percentuale degli operatori che ha pensato di chiedere di essere trasferita ad altro incarico sale al 57.1% e la percentuale degli "irriducibili" cala al 22.1%. Se a Milano un terzo circa dei medici e della polizia penitenziaria ha nutrito dubbi sulla scelta di operare in reparti HIV/AIDS, contro il 16.6% dei paramedici, a Torino la proporzione dei "fuggitivi" della polizia penitenziaria sale a due terzi, i medici scendono al 12.5% e i paramedici raddoppiano. Anche in questo caso è possibile effettuare la comparazione con i dati della ricerca effettuata a Solliciano, dalla quale si ricava che il 49% delle unità di polizia penitenziaria ha espresso il desiderio di lavorare in reparti diversi da quelli utilizzati per il trattamento di detenuti HIV/AIDS [S. Sirigatti, 1994].

Un tentativo possibile per spiegare le differenze molto marcate nelle risposte al questionario da parte dei due gruppi d'intervistati di Milano e di Torino è quello di verificare il loro livello formativo e di conoscenza rispetto al tema specifico AIDS. Da tale punto di vista, il campione milanese ha dimostrato di aver goduto di un più cospicuo investimento formativo, anche se la differenza tra i due campioni non risulta estremamente marcata: se poco più del 36% del campione milanese ha frequentato, nell'ultimo biennio, almeno un corso di formazione nell'ambito del quale sono stati trattati argomenti attinenti l'infezione da HIV, quello torinese si è attestato ad una percentuale del 26%. Se andiamo, tuttavia, a disaggregare le percentuali di risposta per categorie professionali, non si può non notare il dato della polizia penitenziaria di Torino, che risulta aver frequentato corsi di formazione in modo percentualmente molto più limitato (17.8%) sia rispetto agli altri due gruppi torinesi (62.5% i medici e 57.1% i paramedici), sia nei confronti dei colleghi milanesi (36%). Non è evidentemente casuale che proprio nell'ambito della polizia penitenziaria torinese si siano registrati i livelli più elevati di aderenza al modello dell'espulsione.

Se, inoltre, andiamo a chiedere l'opinione sull'efficacia dei percorsi formativi intrapresi, possiamo notare che tra i 19 operatori milanesi che hanno partecipato a corsi formativi 10 (pari al 52.5%) ritengono di aver ricevuto un grado per lo meno sufficiente di nozioni per poter affrontare adeguatamente la gestione dei detenuti HIV positivi, mentre nel gruppo torinese solamente 7 operatori su 20 (pari al 35%) possiedono tale convinzione. Tale tendenza "torinese" si riproduce anche riguardo all'opinione sull'opportunità di partecipare in futuro a corsi formativi sull'AIDS: a Milano la percentuale di risposte positive a questa domanda è stata del 86.5%, mentre a Torino del 70.1%. Si può concludere, quindi, che non solo una più ampia fascia degli operatori di Milano ha partecipato a percorsi formativi, ma anche che questi operatori ritengono in maggior misura che tali percorsi abbiano soddisfatto i loro bisogni conoscitivi e sarebbero disponibili ad ulteriori approfondimenti formativi.Alla richiesta di esprimere una valutazione generale non tanto della formazione acquisita, quanto del patrimonio conoscitivo personale in materia di HIV/AIDS, i due gruppi locali si sono espressi in termini di sufficienza nel 42% a Milano e nel 35.1% a Torino. È quindi da sottolineare come dato, per certi aspetti inquietante, che in entrambi i campioni la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di non possedere nozioni adeguate per affrontare il fenomeno AIDS, confermando in tal modo la diffusione dell'opinione della inadeguatezza della struttura carceraria, e in particolare degli operatori che in essa operano, nella gestione del fenomeno; tale opinione è uno degli elementi più significativi di quello che abbiamo chiamato il modello dell'espulsione.

5. Le strategie d'intervento: opinioni e conoscenze
Come è stato messo in risalto da molti autori, il carcere può essere considerato, dal punto di vista epidemiologico, un settore particolarmente importante per la prevenzione dell'AIDS, in relazione all'alta concentrazione di soggetti sieropositivi reclusi. Già alla fine degli anni '80 venne sottolineato il rischio che il carcere, grazie alla promiscuità coatta che induce, potesse costituire l'humus ideale per l'attivazione di un "effetto ponte", nel senso che l'infezione travalicasse le categorie allora indicate "a rischio" per intaccare quella degli eterosessuali non tossicodipendenti [T. Harding, 1989]. In questo modo l'infezione sarebbe dilagata all'esterno, attraverso il canale sessuale, in modo incontrollato. Recenti studi tendono, peraltro, a ridimensionare il ruolo del carcere come fattore di diffusione del contagio [B. Magliona, 1996]. Tuttavia, nella nostra ricerca, si è voluto chiedere ai due campioni di operatori esaminati una valutazione del rischio di contagio tra detenuti, al fine di evidenziare la loro percezione della pericolosità del virus in ambito carcerario, come necessaria premessa ai giudizi sulle possibili ed auspicabili strategie d'intervento.

Tab. 6

Ritiene che all'interno del carcere esista un effettivo rischio di contagio tra detenuti a seguito di comportamenti a rischio?

MediciParamediciPolizia penitenziariaTotalesì, notevolmente5 (33.3)5 (41.7)13 (52.0)23 (44.2)sì, relativamente8 (53.4)5 (41.7)9 (36.0)22 (42.3)no2 (13.3)2 (16.6)3 (12.0)7 (13.5)non so----non risponde----TOTALE15 (100.0)12 (100.0)25 (100.0)52 (100.0)Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano ñ OperaMediciParamediciPolizia penitenziariaTotalesì, notevolmente4 (50.0)5 (71.4)32 (51.6)41 (53.2)sì, relativamente2 (25.0)1 (14.3)25 (40.3)28 (36.4)no1 (12.5)--1 (1.3)non so1 (12.5)1 (14.3)3 (4.8)5 (6.5)non risponde--2 (3.3)2 (2.6)TOTALE8 (100.0)7 (100.0)62 (100.0)77 (100.0)Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"Esaminando la tab. 6, possiamo notare innanzitutto la propensione generale a ritenere il contagio in carcere come possibile: solamente il 13.5% del campione milanese ha escluso tale possibilità, mentre a Torino la percentuale scende drasticamente all'1.3% (un solo operatore sui 77 intervistati). Se guardiamo alla variabile categoria professionale, i medici propendono maggiormente alla relatività di tale evenienza rispetto alla polizia penitenziaria che, viceversa, propende per una probabilità ben maggiore. I paramedici si collocano in posizione intermedia. La netta maggioranza degli operatori ritengono, dunque, che il carcere possa essere un luogo a rischio di contagio da HIV anche per i detenuti.

Ma passiamo ora alle domande relative alle opinioni sulle vere e proprie strategie d'intervento e di prevenzione. Le direttive O.M.S. e del Consiglio d'Europa, da un lato, escludono la possibilità di isolare i detenuti HIV/AIDS e, dall'altro, prevedono la distribuzione di preservativi, materiale disinfettante e, in casi particolari, di siringhe monouso. Partendo da queste indicazioni, si è previsto un quesito relativo alle misure da adottarsi al fine di prevenire il potenziale contagio intramurario (tab. 7).

Tab. 7

Quali di questi interventi riterrebbe più opportuni al fine di prevenire il contagio? (possibili più di una risposta)

(le percentuali dei totali sono relative al totale dei due campioni: Mi 52; To 77)

MediciParamediciPolizia penitenziariaTotaledistribuzione preservativi73-10 (19.2)distribuzione siringhe monouso-1-1 (1.9)distribuzione materiale disinfettante55515 (28.8)organizzazione periodiche conferenze76720 (38.4)distribuzione di materiale informativo1291738 (73.0)isolamento detenuti HIV/AIDS451423 (44.2)Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano - OperaMediciParamediciPolizia penitenziariaTotaledistribuzione preservativi24-6 (7.7)distribuzione siringhe monouso21-3 (3.8)distribuzione materiale disinfettante242329 (37.6)organizzazione periodiche conferenze431219 (24.6)distribuzione di materiale informativo722332 (41.5)isolamento detenuti HIV/AIDS353240 (51.9)Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"Innanzitutto possiamo vedere che la tendenza generale di entrambi i campioni è quella di mettere all'ultimo posto le c.d. strategie di riduzione del danno (distribuzione di preservativi e di siringhe monouso): sia a Milano che a Torino queste sono le risposte che totalizzano il numero più basso di risposte. Le strategie che, invece, godono del maggior successo sono quelle dell'isolamento dei detenuti HIV/AIDS (a Torino questa è la strategia auspicata in maggior misura) e la distribuzione di materiale informativo (a Milano è la strategia più diffusa, mentre l'isolamento si colloca al secondo posto). Ad un livello intermedio, invece, troviamo l'organizzazione di periodici incontri di informazione e la distribuzione di materiale disinfettante.

I tre gruppi di intervistati evidenziano una certa eterogeneità rispetto alle soluzioni adottate. I medici e i paramedici risultano maggiormente orientati della polizia penitenziaria alla distribuzione di materiale informativo e all'organizzazione di incontri periodici e meno propensi (in particolare i medici) all'isolamento.

Rispetto ai metodi di prevenzione menzionati nella domanda, ma non adottati dall'amministrazione penitenziaria italiana, ovvero la distribuzione di preservativi e di materiale disinfettante, occorre rilevare come le categorie dei medici e dei paramedici risultino meno drastiche nel rifiutarli di quanto non si dimostri la polizia penitenziaria. Questo dato non si ripresenta, invece, rispetto alla distribuzione di siringhe monouso, rispetto al quale il personale medico ha un'opinione molto negativa (a Milano nessun medico intervistato ha proposto questa soluzione operativa).

Alcuni autori [R. Catanesi, I. Grattagliano, P. Rossi, 1993] hanno avanzato l'ipotesi interpretativa secondo la quale le remore dei medici a distribuire siringhe monouso potrebbero riferirsi al conflitto tra le finalità terapeutiche del medico e la responsabilità di rendersi partecipi indiretti della vicenda tossicomanica dei detenuti. Probabilmente diverse, più rispondenti a motivi legati all'ordine e alla sicurezza, sono le ragioni dell'atteggiamento negativo della polizia penitenziaria sullo stesso tema.

Al di là di queste osservazioni, tuttavia, il rifiuto da parte della stragrande maggioranza degli operatori del nostro campione di prendere in considerazione le strategie di riduzione del danno deve essere considerato la verifica empirica di uno degli elementi centrali della cultura della c. c. del carcere: l'identificazione in termini di "pericoli naturali" di due fenomeni come la sessualità e il consumo di droga da parte dei detenuti, comportamenti considerati tabù e potenzialmente in grado di compromettere la stessa sussistenza dei principi organizzativi della prigione.

Un altro elemento della cultura carceraria della c. c. relativa all'AIDS confermato dalla nostra ricerca è quello riguardante le misure atte alla gestione della malattia. In tale ambito, lo spostamento nell'immaginario collettivo della figura del detenuto sieropositivo da quello del reo, responsabile delle proprie azioni, a quello del malato pericoloso, bisognoso di cure e di controllo coatto, si è perfettamente rispecchiato nelle risposte alla domanda sulla gestione dei detenuti HIV/AIDS. Il questionario, a tal proposito, prevedeva una domanda specifica sia per quanto riguarda il detenuto sieropositivo asintomatico, che per quello in AIDS conclamata (tabb. 8 e 9).

Tab. 8

A suo parere i detenuti sieropositivi all'HIV dovrebbero essere gestiti attraverso (possibili più di una risposta):

(le percentuali dei totali sono relative al totale dei due campioni: Mi 52; To 77)

MediciParamediciPolizia penitenziariaTotaletrasferimento e trattamento in sezioni separate441018 (34.6)trasferimento e trattamento in istituti riservati-4711 (21.1)trasferimento in ospedali specializzati--88 (15.3)arresti/detenzione domiciliare/misure alternative2-46 (11.5)in modo eguale agli altri detenuti93315 (28.8)non risponde----Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano ñ OperaMediciParamediciPolizia penitenziariaTotaletrasferimento e trattamento in sezioni separate56920 (25.9)trasferimento e trattamento in istituti riservati232025 (32.4)trasferimento in ospedali specializzati-32427 (35.0)arresti/detenzione domiciliare/misure alternative11810 (12.9)in modo eguale agli altri detenuti211316 (20.7)non risponde----Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"Tab. 9A suo parere i detenuti affetti da AIDS conclamata dovrebbero essere gestiti attraverso (possibili più di una risposta):

(le percentuali dei totali sono relative al totale dei due campioni: Mi 52; To 77)

MediciParamediciPolizia penitenziariaTotaletrasferimento e trattamento in sezioni separate95923 (44.2)trasferimento e trattamento in istituti riservati23813 (25.0)trasferimento in ospedali specializzati241117 (32.6)arresti/detenzione domiciliare/misure alternative62715 (28.8)in modo eguale agli altri detenuti1-34 (7.6)non risponde----Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano ñ OperaMediciParamediciPolizia penitenziariaTotaletrasferimento e trattamento in sezioni separate25916 (20.7)trasferimento e trattamento in istituti riservati352533 (42.8)trasferimento in ospedali specializzati142732 (41.5)arresti/detenzione domiciliare/misure alternative111315 (19.4)in modo eguale agli altri detenuti1-1112 (15.5)non risponde----Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"Dall'esame delle suddette tabelle emerge immediatamente un dato molto significativo: le tre soluzioni che vengono auspicate in maggior misura, sia per il detenuto sieropositivo che per quello in AIDS conclamata, sono le modalità di gestione tendenti ad allontanare dall'istituto tali soggetti o immettendoli in reparti separati, o ricoverandoli in ospedali specializzati, o in istituti riservati. Da questi dati sembra di poter ricavare la conclusione che esista una fascia maggioritaria di operatori che ripercorre il profilo della reazione all'AIDS della c. c. carceraria rispetto al processo di allontanamento e di isolamento delle persone colpite dal virus. È interessante notare come si registri una sostanziale omogeneità del livello di gradimento tra misure di isolamento e misure di cura coatta. Gli intervistati non sembrano fare una grande differenza tra ospedale, istituto riservato, sezione speciale: l'essenziale è che il detenuto affetto dal virus venga, da un lato, preso in carico da una struttura diversa dal carcere "normale" e, dall'altro, controllato forzatamente anche attraverso misure sanitarie. In tale prospettiva, la c. c. carceraria pare differenziarsi da quella della società complessiva, in quanto tende a sovrapporre le "persone che hanno bisogno di cura e protezione" e le "persone che devono venire isolate forzatamente" [M. Douglas, 1996]. Tale aspetto della cultura carceraria rispetto all'AIDS, consente anche di sottolineare la stretta contiguità e parziale sovrapponibilità esistente tra i due modelli dell'espulsione e del controllo interno, modelli che, per certi versi, non fanno che coniugare in modo diverso medesime istanze di controllo.

Le istanze di controllo della persona affetta dal virus HIV sembrano, inoltre, essere così pervasive da rendere trascurabile la stessa differenza tra sieropositivo asintomatico e in AIDS conclamata; le misure auspicate per le due situazioni non risultano essere molto diverse, per quanto riguarda la maggioranza di intervistati che hanno scelto le modalità di allontanamento o di isolamento. Non altrettanto si può dire,  invece, per quanto concerne la risposta che intendeva misurare il livello di gradimento della soluzione "non specialista" del problema AIDS, ovvero quella per la quale il detenuto affetto dal virus dovrebbe essere considerato uguale agli altri detenuti. Pur essendo limitata la quota di operatori che si collocano in questa posizione, si evidenzia un dato: tale quota, mentre risulta quasi trascurabile per i malati in AIDS conclamata, diventa non del tutto priva di rilevanza per i soggetti sieropositivi asintomatici (Mi: 28.8%; To: 20.7%). Questo dato indica come il passaggio alla patologia sintomatica rappresenti, come del resto facilmente prevedibile, un elemento non secondario della costruzione della reazione all'AIDS della c. c. carceraria, in particolare del modello dell'espulsione.

Del resto che tale modello non sia costituito al suo interno solamente dalla dimensione dell'allontanamento, ma anche dalla dimensione del controllo, è testimoniato dalle percentuali molto basse di intervistati che indicano la possibilità di concedere le misure degli arresti o della detenzione domiciliare ai soggetti HIV/AIDS. Si tratta di misure che anch'esse raggiungerebbero lo scopo di "allontanare" il problema AIDS dal circuito carcerario, ma che vengono considerate carenti proprio per non essere, per loro natura, capaci di garantire un rigoroso controllo sulle persone condannate o imputate.

Esaurito il tema delle modalità degli interventi, per la gestione di questi quali sono i soggetti che il nostro campione ritiene competenti? Approfondendo le opinioni degli intervistati su tale questione si sono rilevati, in entrambi i contesti analizzati, dati estremamente eterogenei, nel senso che, al di là della netta prevalenza a considerare la categoria dei medici penitenziari quella maggiormente competente in materia, tutte le altre categorie non hanno raggiunto la piena percentuale di scelta (tab. 10).

Tab. 10

A suo parere quali di questi ruoli professionali potrebbero contribuire alla realizzazione di progetti per la gestione e il trattamento di detenuti HIV/AIDS? (possibili più di una risposta)

(le percentuali dei totali sono relative al totale dei due campioni: Mi 52; To 77)

MediciParamediciPolizia penitenziariaTotalemedici penitenz.15101944 (84.6)infermieri1591337 (71.1)medici esterni9101130 (57.6)polizia pen.851427 (51.9)educatori104822 (42.3)psicologi1271029 (55.7)direzione93922 (42.3)volontari73414 (26.9)Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano - OperaMediciParamediciPolizia penitenziariaTotalemedici penitenz.864054 (70.1)infermieri632534 (44.1)medici esterni232126 (33.7)polizia pen.413237 (48.0)educatori42713 (16.8)psicologi622836 (46.7)direzione612431 (40.2)volontari331319 (24.6)Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"I dati della tabella mostrano come i medici si differenzino dalle altre due categorie di intervistati dimostrando una maggiore consapevolezza della necessità di un intervento integrato con la partecipazione di altre categorie professionali dotate di competenze diverse. Comunque è significativo che prevalgano nettamente le indicazioni per categorie professionali che fanno riferimento al sapere medico (o psicologico), il che costituisce, con ogni probabilità, un'ulteriore verifica empirica del fatto che la c. c. carceraria ha modellato conoscenze e rappresentazioni relative all'AIDS sulle acquisizioni della scienza medica ufficiale. In ciò essa non si distinguerebbe in alcun modo dalla c. c. della società extra-muraria.

Volendo approfondire l'analisi della percezione delle figure a cui delegare gli interventi in tema di AIDS si è posto, alle sole categorie dei medici e dei paramedici, un quesito relativo all'esclusività di competenza da parte degli specialisti in infettivologia. A tale riguardo i due campioni esaminati hanno evidenziato difformità di pensiero. Il campione di medici e paramedici milanesi si è praticamente spezzato tra favorevoli e contrari, anche se i primi propendono maggiormente nel negare tale possibilità rispetto ai paramedici (6 medici su 15 sono favorevoli contro 7 paramedici su 12). A Torino si è riscontrata una maggiore compattezza di opinioni negative rispetto ad una gestione completamente specialistica (solo 2 medici su 8 e nessun paramedico ha indicato di essere favorevole ad essa). Sul piano interpretativo, l'adesione favorevole al quesito potrebbe significare un atteggiamento tendente a privilegiare l'approccio "specialistico" al detenuto HIV/AIDS e per questo delegabile ad operatori esterni. Lo stesso atteggiamento, tuttavia, potrebbe corrispondere all'esigenza, più volte e da molti sottolineata, di un approccio globale, integrato e multidisciplinare. D'altra parte una ricerca condotta sui medici penitenziari a livello nazionale ha evidenziato un dato sovrapponibile a quello rilevato in questa sede e potrebbe, secondo gli autori della stessa, essere un indice di possibile burn-out degli operatori sanitari [M. D'Aniello, S. Esposito, F. Tortono, A. Quaremba, 1996].

Un'altra domanda sul tema della sanità in carcere faceva riferimento all'opinione delle categorie dei medici e dei paramedici su di un dato di realtà: la qualità dei servizi sanitari nella struttura in cui opera. E' stato sottolineato come le strutture sanitarie penitenziarie italiane abbiano evidenziato, nell'impatto con la gestione dell'infezione da HIV, alcune deficienze [G. La Greca, 1995]. La struttura di Milano-Opera destinata ai detenuti affetti da HIV/AIDS è sicuramente annoverabile tra le situazioni maggiormente idonee per affrontare adeguatamente i problemi medico-terapeutici che tale infezione comporta, anche perché inserita all'interno del centro clinico dell'istituto. Discorso leggermente diverso per quanto riguarda le due sezioni di Torino "Le Vallette" che, pur essendo attigue al Centro Diagnostico Terapeutico, sono configurate e dotate come due normali sezioni detentive, ad eccezione del fatto che nei loro confronti è previsto un presidio medico infermieristico costante e ben articolato nell'arco dell'intera giornata, in grado di garantire tutti gli interventi terapeutici necessari.

La percezione degli operatori sanitari circa le dotazioni strutturali, in riferimento alla cura dei soggetti AIDS conclamati, non conferma tuttavia queste considerazioni, ribadendo come gli elementi percettivi molto spesso non dipendano strettamente dai dati di realtà. Il gruppo dei medici torinesi, infatti, dà un giudizio migliore delle dotazioni del contesto nel quale opera (7 su 8 danno valutazioni quanto meno sufficienti, mentre a Milano solo 10 su 15). Per quanto riguarda, invece, il campione dei paramedici, i dati invertono la valutazione espressa dai medici, nel senso che il campione torinese esprime in maggioranza un giudizio di insufficienza (4 su 7), contro una minoranza di analoghi giudizi espressi dai colleghi milanesi (4 su 12). Globalmente, i due terzi dei medici e dei paramedici sono convinti di lavorare in una struttura quantomeno sufficiente e idonea a gestire soggetti in AIDS conclamata. Tale proporzione sale ad oltre l'80% (35 intervistati su 42) se riferita alla gestione di soggetti HIV-positivi.

6. L'immagine del detenuto sieropositivo
Che immagine possiedono del detenuto HIV-positivo gli operatori penitenziari? Quali sono gli elementi che la caratterizzano? Nel questionario sono state inserite alcune domande per sondare questo tema. In particolare, è stato verificata la presenza dell'elemento dell'aggressività nell'immagine del detenuto HIV-positivo. Si è ritenuto, infatti, che tale elemento costituisse il nucleo centrale intorno al quale ha ruotato la reazione al fenomeno AIDS della c. c. carceraria. Tale reazione, infatti, ha sovrapposto l'immagine del malato bisognoso di cure a quella del criminale pericoloso e non soggetto a punizione (soprattutto dopo l'emanazione della legge 222 e i noti fatti della banda dell'AIDS di Torino); nel contesto carcerario aggressività e pericolosità assumono evidentemente altre modalità di comportamento (in particolare, atti autolesionistici con perdite ematiche a scopo di intimidazione), senza perdere peraltro la medesima valenza negativa.

Tab. 11

Alla luce delle sue esperienze ritiene che i detenuti HIV/AIDS siano più aggressivi di quelli sani?

MediciParamediciPolizia penitenziariaTotalesì2 (13.3)4 (25.0)14 (56.0)20 (36.5)no13 (86.7)8 (75.0)10 (40.0)31 (61.5)non so--1 (4.0)1 (2.0)non risponde----TOTALE15 (100.0)12 (100.0)25 (100.0)52 (100.0)Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano ñ OperaMediciParamediciPolizia penitenziariaTotalesì8 (100.0)6 (85.7)54 (87.1)68 (88.3)no-1 (14.3)5 (8.1)6 (7.8)non so--1 (1.6)1 (1.3)non risponde--2 (3.2)2 (2.6)TOTALE8 (100.0)7 (100.0)62 (100.0)77 (100.0)Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"Dalla tab. 11 si evince che l'immagine che abbiamo considerata tipica della c. c. risulta nettamente maggioritaria solamente nell'ambito del campione torinese. Gli operatori di Torino, infatti, ritengono che i detenuti HIV/AIDS siano più aggressivi di quelli sani e tale convinzione non si differenzia in modo significativo tra le varie categorie professionali. A Milano, invece, tale posizione risulta minoritaria rispetto al totale degli intervistati (36.5%), mentre risulta maggioritaria (56%) solamente per la categoria della polizia penitenziaria. Questi dati non fanno che riproporre il contesto torinese come quello in cui il modello dell'espulsione si è realizzato allo stato, per così dire, "puro", mentre nell'ambito milanese, attraverso i percorsi formativi di cui si è detto, è avvenuta una maggiore rielaborazione e razionalizzazione dei processi di reazione spontanea ad un fenomeno ansiogeno come quello dell'AIDS.

Considerato l'approccio volutamente integrato delle esperienze esaminate e la loro tendenza a dare risposte globali ai detenuti destinatari, è stata prevista una domanda che andasse a sondare, da un lato, la percezione del detenuto in HIV/AIDS, configurando una scala che dal negativo procedesse al positivo, e dall'altro, le prospettive che dovrebbe avere un intervento nei confronti di questi detenuti. Anche in questo caso era prevista una gradualità di opzioni che passavano dal mero controllo (soluzioni A e B) ad un intervento teso all'inserimento sociale dopo un percorso terapeutico medico e psichico (soluzioni C e D).Tab. 12Definizioni e soluzioni auspicabili per i detenuti affetti da HIV/AIDSMediciParamediciPolizia penitenziariaTotalesoluzione A -1 (8.3)5 (20.0)6 (11.5)soluzione B3 (20.0)1 (8.3)-4 (7.7)soluzione C4 (26.7)2 (16.7)2 (8.0)8 (15.4)soluzione D8 (53.3)8 (66.7)18 (72.0)34 (65.4)non risponde----TOTALE15 (100.0)12 (100.0)25 (100.0)52 (100.0)Fonte: questionari somministrati presso la C.R. Milano - OperaMediciParamediciPolizia penitenziariaTotalesoluzione A1 (12.5)-21 (33.9)22 (28.6)soluzione B1 (12.5)2 (28.6)9 (14.5)12 (15.6)soluzione C1 (12.5)3 (42.8)11 (17.7)15 (19.5)soluzione D5 (62.5)1 (14.3)18 (29.0)24 (32.5)non risponde-1 (14.3)3 (4.9)4 (3.8)TOTALE8 (100.0)7 (100.0)62 (100.0)77 (100.0)Fonte: questionari somministrati presso la C.C. Torino "Le Vallette"Come si può osservare nella tab. 12, quasi i due terzi del campione intervistato a Milano ha indicato la propria preferenza per la soluzione più ampia, dal punto di vista degli obiettivi e nella percezione meno punitiva del detenuto HIV/AIDS. La polizia penitenziaria spicca in tal senso, anche se una parte non trascurabile di questa categoria ha indicato la posizione più rigida. I medici, da parte loro, risultano percentualmente i meno propensi a soluzioni globali e forse sono più ancorati ad una visione di intervento maggiormente connotato in termini curativi. Soluzione intermedia tra i paramedici.

Anche a Torino la soluzione maggiormente indicata è stata quella più ampia e meno punitiva, tuttavia, con una percentuale di scelta dimezzata rispetto a quella milanese (32.5% contro 65.4%) e con la scelta meno ampia e più coercitiva che si colloca quasi allo stesso livello (28.6%). Nel campione torinese i medici sono più propensi alla soluzione più articolata, rispetto alle altre due categorie professionali. Questi dati, quindi, confermano pienamente la tendenza, riscontrata per molti altri aspetti, degli operatori torinesi a rappresentare fedelmente il modello dell'espulsione.

Rispetto all'impatto emozionale derivante dal continuo operare a contatto di soggetti infetti, nel gruppo di operatori milanesi non si rilevano sentimenti di particolare ostilità, al contrario il valore modale con le più alte percentuali di scelta per tutte e tre le categorie intervistate, è rappresentato dalla "comprensione" (38.4%) seguita dalla "serenità" (26.9%) e dal sentimento di "impotenza" (21.1%), particolarmente sentito da parte della polizia penitenziaria. Per quanto siano presenti elementi di "paura" (11.5%), di "disagio" (5.7%) e di "angoscia" (7.6%), non si sono riscontrati percezioni terrifiche.

Alcuni autori di fronte ad analoghi risultati, per così dire "negatori" di un disagio che sarebbe ben comprensibile, ottenuti da interviste ad un campione nazionale di medici penitenziari, hanno ipotizzato un possibile meccanismo difensivo rispetto ad un fenomeno di incipiente burn-out [M. D'Aniello, S. Esposito, F. Tortono, A. Quaremba, 1996]. Per quanto riguarda la polizia penitenziaria, si rileva una certa dissonanza con i dati rilevati presso il Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano, dove un 35% degli intervistati indicava la rabbia come uno dei sentimenti provati nel contatto con detenuti HIV/AIDS, il 64% provava "terrore" alla vista del sangue di un sieropositivo o di un malato e il 49% si chiedeva se valeva la pena di rischiare la salute sul lavoro, avendo a che fare con questa tipologia di detenuti [S. Sirigatti, 1994].

Sintomi di maggiore disagio e difficoltà vengono riscontrati nel campione torinese. In tal senso, i dati riferiti alla polizia penitenziaria si avvicinano a quelli testé citati e riferiti al contesto fiorentino. Gli intervistati hanno, infatti, evidenziato percentuali rilevanti di rabbia (20.7%), terrore (20.7%), paura (31.1%), disagio (18.1%) e il sentimento più diffuso è quello dell'impotenza (38.9%). Globalmente il campione torinese, quindi, ha espresso una maggiore tensione emotiva rispetto a quello milanese. Questo dato si inserisce perfettamente nella tendenza di questo gruppo di intervistati a corrispondere a quello che abbiamo definito come la reazione spontanea ed espulsiva all'AIDS.

7. La gestione del test sierologico e il problema della riservatezza
Abbiamo detto in precedenza che una delle caratteristiche essenziali del modello del controllo interno è quella di controllare rigorosamente gli accessi alla comunità stessa. Solo attraverso questo stretto controllo, infatti, la c. c. riesce a proteggere l'integrità della propria "pelle" e, conseguentemente, garantire simbolicamente la propria sicurezza. Questa esigenza di controllo degli accessi trasferita al contesto carcerario significa obbligatorietà del test sierologico per i detenuti in entrata; obbligatorietà che, come noto, non è prevista dal nostro ordinamento giuridico. Su questo punto si crea, pertanto, un possibile conflitto normativo tra valori del singolo operatore e diritto positivo. Un primo esito di tale conflitto può essere la scarsa conoscenza della normativa giuridica, scarsa conoscenza che viene confermata, per quanto riguarda il campione di polizia penitenziaria, dalle risposte alla domanda sull'obbligatorietà del test (tab. 13).

Tab. 13

Alla luce dell'attuale normativa, l'accertamento dell'infezione da HIV è obbligatorio per tutti i detenuti che fanno ingresso in un istituto penitenziario? (campione polizia penitenziaria)

C. R. Milano - OperaC.C. Torino Le Vallettesì, per tutti19 (76.0)48 (77.4)sì, solo per tdp o omosessuali1 (4.0)1 (1.6)no, per nessuno4 (16.0)11 (17.8)non so1 (4.0)-non risponde-2 (3.2)TOTALE25 (100.0)62 (100.0)È difficile affermare se questa scarsa conoscenza sia dovuta al fatto che gli intervistati confondono la normativa giuridica con la prassi generalizzata del test ai detenuti in entrata, ovvero con la loro opinione favorevole all'obbligatorietà. Quest'ultima ipotesi potrebbe essere avvalorata dal fatto che entrambi i campioni si sono espressi massicciamente in modo favorevole a tale obbligatorietà (tab. 14).

Tab. 14

Sarebbe favorevole a far eseguire obbligatoriamente l'accertamento dell'infezione da HIV all'ingresso in istituto anche senza il consenso del detenuto?

MediciParamediciPolizia penitenziariaTotalesì, per tutti14 (93.3)9 (75.0)23 (92.0)46 (88.5)sì, solo per tdp e omosessuali----no, per nessuno1 (6.7)2 (16.7)1 (4.0)4 (7.7)non so--1 (4.0)1 (1.9)non risponde-1 (8.3)-1 (1.9)TOTALE15 (100.0)12 (100.0)25 (100.0)52 (100)Fonte: questionario somministrato presso la C.R. Milano ñ OperaMediciParamediciPolizia penitenziariaTotalesì, per tutti5 (62.5)4 (57.1)60 (96.8)69 (89.6)sì, solo per tdp e omosessuali----no, per nessuno3 (37.5)3 (42.9)-6 (7.8)non so--1 (1.6)1 (1.3)non risponde--1 (1.6)1 (1.3)TOTALE8 (100.0)7 (100.0)100.0 (62)77 (100.0)Fonte: questionario somministrato presso la C. C. Torino - "Le Vallette"Si tratta, come si può osservare, di un esito quasi plebiscitario a favore dell'obbligatorietà che, nel caso del personale medico, si allinea con i dati di una precedente ricerca condotta su un campione nazionale e che, nel caso della polizia penitenziaria, supera addirittura i dati delle ricerche precedenti. L'esame di questi dati consente, quindi, di confermare l'esistenza di una reazione della c. c. carceraria rispetto al controllo degli accessi piuttosto unanime e non scalfita da processi di formazione e rielaborazione dell'emotività.Tale risultato viene confermato se si vanno ad analizzare le domande del questionario che erano tese a sondare il bilanciamento, che gli operatori penitenziari sono chiamati a fare, tra diritto alla riservatezza del singolo detenuto e diritto a conoscere lo stato sierologico dei detenuti da parte della comunità carceraria, al fine di implementare strategie di difesa per la diffusione del virus. È noto come la riservatezza sia uno degli argomenti maggiormente dibattuti in tema di AIDS e carcere. Da un lato, la normativa medico-legale, l'etica, la deontologia medica e le direttive sovranazionali, impongono una rigida tutela della segretezza delle informazioni, dall'altro, l'opinione (errata?) che rivelare lo stato di sieropositività di un soggetto sia un fattore che può contribuire a limitare la diffusione del contagio, spinge in direzione opposta.Rispetto all'individuazione delle categorie professionali che, secondo gli intervistati, dovrebbero essere informate della sieropositività dei detenuti, spiccano due dati. In primo luogo, l'eterogeneità e la numerosità delle figure che, secondo gli intervistati, dovrebbe essere informate dello stato sierologico: medici (Mi: 57.6%; To: 45.4%), polizia penitenziaria (Mi: 59.6%; To: 55.8%), direzione (Mi: 19.2%; To: 28.5%). Atteggiamento confermato anche dall'elevata percentuale di scelta ottenuta dalla risposta "tutti" (Mi: 26.9%; To: 35%) e dal fatto che non si è praticamente riscontrata la risposta "nessuno" (due operatori sui 129 intervistati). In secondo luogo, vi è da sottolineare come le categorie che sono state in maggior misura indicate come destinatarie dell'informazione (medici e polizia penitenziaria) siano anche quelle che sono maggiormente a contatto con i detenuti, ribadendo in tal modo la natura "difensiva" dell'informazione sullo stato sierologico. Natura difensiva ribadita dal dato che un buon numero di operatori riterrebbero necessario comunicare ai compagni di cella lo stato di sieropositività dei detenuti (Mi: 21.1%; To: 19.4%).

Ma qual è l'opinione degli operatori medici e paramedici sul fatto che la riservatezza sia effettivamente rispettata all'interno dell'istituto nel quale lavorano? A Milano la riservatezza è percepita e valutata dalla stragrande maggioranza dei medici e dei paramedici almeno sufficiente (23 operatori su 27). A Torino tale percezione di sufficienza scende, invece, a meno della metà del campione (7 su 15).

Se i dati vengono incrociati con quelli relativi alla conoscenza di casi HIV/AIDS da parte della polizia penitenziaria, si può osservare come la riservatezza in carcere sia ancora oggi una mera illusione. Tutti i 25 agenti di polizia penitenziaria intervistati a Milano dichiarano di conoscere lo stato di sieropositività di qualche detenuto; a Torino non si raggiunge l'unanimità solo di poco (58 su 62). È interessante notare le fonti attraverso le quali gli agenti di polizia penitenziaria giungono alla conoscenza dello stato sierologico: in entrambi i campioni, nel circa il 60% dei casi (18 su 25 a Milano e 42 su 58 a Torino) tale conoscenza ha una fonte diversa dalla autodichiarazione del detenuto. Ciò conferma come sia proprio la struttura carceraria a consentire la circolazione illegittima delle informazioni, senza il consenso del detenuto sieropositivo. Tra i motivi sottostanti a questi dati sicuramente rilevante risulta il fatto che la collocazione in un reparto riservato determina, di fatto, l'individuazione dei soggetti infetti. Tuttavia, non è da escludere che, a fronte dei timori connessi alla malattia, il personale si organizzi per individuare i potenziali portatori del virus. Si confermano, pertanto, le perplessità espresse da Magliona [1996] circa la possibilità di mantenere in carcere un'adeguata tutela della riservatezza.

8. CONCLUSIONI
Come riflessioni conclusive possiamo proporre la sintesi degli elementi della reazione culturale all'AIDS della c.c. carceraria emersi nelle interviste. Avendo il campione degli operatori penitenziari intervistati mostrato una certa omogeneità nelle risposte, è preferibile esporre, innanzitutto, le tendenze generali emerse e, successivamente, la descrizione degli elementi che si differenziano dalla reazione tipica della c.c.

Gli elementi tipici possono così essere riassunti.

a) Gli operatori penitenziari mostrano molte difficoltà a lavorare con detenuti sieropositivi. Ciò emerge dal fatto che la maggior parte di essi confidano ai colleghi le loro ansie nell'operare a contatto con persone affette dal virus HIV, pensano che il materiale che hanno a disposizione per difendersi dal contagio sia insufficiente, ritengono di svolgere un lavoro con un rischio di contagio piuttosto elevato, sono dell'opinione che la presenza di detenuti sieropositivi aumenti il loro carico di lavoro, sono abbastanza propensi a chiedere il trasferimento ad altro incarico qualora siano chiamati a lavorare in reparti per detenuti HIV/AIDS.

b) Per quanto riguarda le strategie d'intervento, gli operatori, partendo da una percezione di elevato pericolo di diffusione del virus tra la popolazione detenuta, auspicano, in primo luogo, l'isolamento dei detenuti come misura preventiva e, in secondo luogo, tendono a privilegiare soluzioni che allontanino tali detenuti dal contesto carcerario, ma che al tempo stesso garantiscano un rigoroso controllo su di essi (è questa la soluzione di istituti riservati per detenuti sieropositivi o di ospedali specializzati). In tale prospettiva, tipica sia del modello dell'espulsione che di quello del controllo interno, si ritiene che le competenze degli operatori penitenziari non siano adeguate a gestire un problema complesso come quello dell'AIDS (nonostante si ritenga che la qualità dei servizi sanitari carcerari sia comunque sufficiente) e che i soggetti competenti ad intervenire siano i medici e gli psicologi (c.d. medicalizzazione del problema).

c) Rispetto all'immagine del detenuto sieropositivo, la tendenza maggioritaria della c. c. è quella di privilegiarne gli aspetti di aggressività e, conseguentemente, di accentuare la percezione di tale detenuto come fonte di pericolo per la tranquillità della vita penitenziaria, mentre, dal punto di vista emotivo, gli operatori mostrano una tendenza, meno accentuata, a provare paura e impotenza di fronte al detenuto colpito dal virus.

d) Riguardo al test sierologico, gli operatori sono largamente favorevoli alla sua obbligatorietà per tutti i detenuti che fanno ingresso in carcere, anche senza il parere favorevole degli stessi, e conoscono in modo molto limitato l'attuale legislazione che prevede il consenso informato. Tale atteggiamento di scarsa attenzione per il diritto alla riservatezza del detenuto si conferma, inoltre, là dove gli operatori elencano un'ampia gamma di figure professionali che dovrebbero venire a conoscenza dello stato sierologico dei detenuti e là dove confessano di conoscere la sieropositività di qualche detenuto (nonostante dichiarino che la riservatezza nel loro istituto è comunque garantita).

Giungendo all'esame delle tendenze specifiche del campione, non può passare inosservato il fatto che la reazione generale della c.c. appena descritta risulti molto ben delineata solamente in una parte del campione e, in particolare, nell'ambito della polizia penitenziaria del carcere torinese. Se passiamo ad esaminare, invece, sia il campione milanese in generale, sia il campione dei medici e dei paramedici di entrambi gli istituti, l'impressione di monoliticità della c.c. carceraria viene per certi aspetti ad attenuarsi. Ciò vale per molti elementi, quali la tendenza a confidare le proprie ansie ai colleghi (si pensi ai dati relativi alla polizia penitenziaria milanese), l'opinione sulla sufficienza dei mezzi di protezione dal virus, sulla percezione del rischio di contagio, sulla immagine "aggressiva" del detenuto sieropositivo. Su tutti questi aspetti la tendenza del campione milanese e di quello dei medici e paramedici in generale è meno aderente al modello dell'espulsione e si avvicina maggiormente al modello del controllo interno.

Come spiegare tale fenomeno? È possibile, a nostro parere, ipotizzare che incidano su di esso almeno due variabili: da un lato, il livello culturale e il background professionale degli operatori; dall'altro, il livello qualitativo e quantitativo delle proposte formative, specifiche sul trattamento di detenuti in HIV/AIDS e sul fenomeno AIDS in generale, che essi hanno potuto utilizzare. È indubbio che, sotto entrambi questi profili, il campione della polizia penitenziaria torinese è quello che ha potuto accedere a più limitate risorse formative (rispetto ai colleghi milanesi) e, presumibilmente, è in possesso di strumenti culturali e professionali più limitati (rispetto al campione dei medici e dei paramedici in genere). È possibile ipotizzare, quindi, che quella che potremmo chiamare una condizione di maggior naïveté di questi operatori sia stata decisiva nel far permanere nel loro immaginario il modello dell'espulsione e, conseguentemente, nel rendere difficoltoso un loro adeguamento al nuovo modello del controllo interno proposto dall'amministrazione penitenziaria, a partire dalle sentenze della Corte Costituzionale dell'ottobre 1995. Si potrebbe allora ritenere che gli agenti della polizia penitenziaria di Torino rappresentino, per così dire, la memoria storica della reazione della c.c. carceraria all'AIDS, in quanto, possedendo meno strumenti per poter elaborare criticamente e razionalmente l'esperienza dell'impatto dell'HIV in carcere, hanno conservato nei loro atteggiamenti e nelle loro rappresentazioni la reazione più immediata della c. c. e la loro fedeltà al modello dell'espulsione. Al contrario, il campione milanese e, in generale, gli operatori della sanità penitenziaria avrebbero recepito in maggior misura il mutamento di rotta dell'amministrazione penitenziaria in tema di gestione di detenuti sieropositivi, facendo emergere elementi più in linea con il modello del controllo interno.

Se queste ipotesi fossero valide verrebbe confermata non solamente la legittimità della classificazione dicotomica qui proposta (modello dell'espulsione vs modello del controllo interno), ma anche la tendenziale successione cronologica dei due modelli. Ma su questo punto, così come in generale sulle trasformazioni provocate dal fenomeno AIDS nel carcerario, occorrerà tornare con ricerche empiriche più approfondite.

APPENDICE

BREVE CRONISTORIA DELLE DUE ESPERIENZE ANALIZZATE

I due reparti oggetto del presente studio mostrano storie, strutture ed organizzazioni diverse. Tali differenze sono meritevoli di esame vista l'importanza che esse hanno mostrato di avere nell'operatività e nelle percezioni del personale in servizio.

a) L'esperienza della Casa di Reclusione di Milano-Opera.

All'indomani delle sentenze della Corte Costituzionale dell'ottobre 1995, il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria inviò alla Direzione della Casa di Reclusione di Milano-Opera una nota nella quale si ravvisava la necessità di destinare un reparto del centro clinico dell'istituto alla degenza e alla gestione di detenuti affetti da HIV/AIDS per i quali non fosse indispensabile il ricovero in strutture sanitarie esterne. Sulla base di tale nota, la Direzione di Milano-Opera si attivò per la creazione di un reparto idoneo. L'entrata in funzione del reparto avvenne in data 23 settembre 1996 con l'ingresso di due detenuti in AIDS. Dopo quella data il numero delle presenze è lentamente aumentato sino a raggiungere la ventina di presenze giornaliere. Globalmente, al momento dell'effettuazione della ricerca, sono stati 38 i detenuti ricoverati. Per inciso il reparto non è destinato a soddisfare le esigenze interne dell'istituto milanese, bensì ad ospitare anche detenuti provenienti da altre strutture del distretto della Lombardia e dei distretti limitrofi.

Rispetto all'incidenza del fenomeno AIDS all'interno della Casa di Reclusione di Milano-Opera, si rileva che la presenza media dei detenuti oscilla tra le 1.000-1.100 unità e, tra questi, circa il 10% è positivo all'accertamento sierologico dell'HIV. Tale valore è sottostimato rispetto al'incidenza reale in quanto la percentuale di detenuti che accettano di sottoporsi allo screening oscilla tra il 48 e il 50% dei soggetti in ingresso.

I colloqui preliminari con il Dirigente Sanitario e il gruppo di lavoro più direttamente coinvolto nella sezione hanno consentito di delineare le caratteristiche organizzative fondamentali. In primo luogo, è stata accolta, da parte della direzione, la pressante esigenza espressa dal dirigente sanitario, di personale, sanitario e di custodia, da impiegare in modo stabile "dopo una severa selezione diretta a cooptare esclusivamente soggetti motivati e predisposti a relazioni umane positive e non conflittuali" [A. Colaianni, 1996]. La scelta è stata compiuta su una rosa di volontari. Il gruppo impiegato ha fruito di un primo breve corso di formazione tenutosi all'interno dell'istituto a cura della Direzione Sanitaria.

Rispetto ai rapporti tra le diverse professionalità i colloqui preliminari hanno messo in risalto una buona collaborazione tra polizia e paramedici, improntata anche alla familiarità e alla confidenza. Nessun incarico formale è stato conferito. Il dirigente sanitario è riconosciuto dagli altri operatori come l'ispiratore dell'intervento. Per sua volontà, infatti, si sta aggregando un gruppo di lavoro relativamente stabile che quindicinalmente si riunisce per fare il punto della situazione circa gli eventi salienti quali discussione dei casi clinici, inserimenti esterni, problemi generali relativi all'andamento della sezione. In questo gruppo convergono spontaneamente medici, paramedici, ma anche l'educatore, a volte l'ispettore responsabile del centro clinico. Nell'ambito dei confronti intercorsi tra questi operatori, si è cercato di definire l'obiettivo dell'azione ed è emerso che, in prima approssimazione, l'obiettivo generico è quello di offrire una prestazione trattamentale, non solo medico-clinica, ma anche di carattere più generale, ricomprendente interventi psico-sociali tesi al miglioramento della qualità della vita dei soggetti trattati.

La volontà-esigenza di offrire un intervento non solo terapeutico, ma anche umano, si scontra con le caratteristiche del reparto, gli spazi a disposizione e la ratio che sottende l'istituzione di questo reparto. La struttura è stata pensata e realizzata in funzione di un intervento esclusivamente medico nei confronti di pazienti affetti da patologie infettive correlate all'HIV in fase acuta o post-acuta, pertanto non esistono spazi da adibire ad attività ricreative di gruppo. Infatti, già dopo pochi mesi dalla sua apertura si rilevava che per "il sommarsi delle regole della detenzione a quelle dettate da disposizioni igieniche tendenti ad impedire la diffusione opportunistiche, il reparto rischia di diventare una sezione ad elevato regime di sicurezza con pochi momenti di socializzazione" [A. Colaianni, 1996]. Tale considerazione faceva avanzare la proposta di istituire "nei reparti per soggetti HIV positivi una condizione di 'custodia attenuata', simile a quella prevista per alcuni reparti per tossicodipendenti, con previsione di spazi e di ore da dedicare alla socializzazione e ad attività creative" [ibidem].

b) L'esperienza della Casa Circondariale "Le Vallette" di Torino.

Ben diversa è la vicenda degli interventi in materia di HIV/AIDS posti in essere presso la Casa Circondariale di Torino. Innanzitutto essa ha avuto inizio con la comparsa in carcere dei primi soggetti sieropositivi avvenuta nel mese di giugno del 1985 [G. Suraci et al., 1986]. Di fronte all'emergenza derivante dal dover affrontare una problematica del tutto nuova, e per molti aspetti ancora non perfettamente conosciuta, in un contesto caratterizzato da una grande preoccupazione se non addirittura dal panico, la direzione dell'istituto decise, in accordo con la direzione sanitaria, in una prima fase di isolare i malati al centro clinico e, in seguito, a fronte dell'incremento costante dei casi, di collocarli in un braccio dell'istituto. Tale decisione venne adottata a fronte delle reazioni dei detenuti non colpiti dal virus che tendevano a marchiare e ghettizzare quelli sieropositivi.

Nel passaggio dal vecchio istituto delle "Nuove" al nuovo complesso delle "Vallette" i malati vennero allocati presso una sezione del padiglione A. Il gruppo di detenuti reagì costantemente e duramente ai decessi dei loro compagni di detenzione più gravemente colpiti dalla patologia e a quella che veniva vissuta come una ghettizzazione. Il loro disagio e la tensione che ne scaturiva generava malcontento tra il personale. Si susseguirono una serie preoccupante di proteste e di episodi di autolesionismo.

Per questo motivo si decise un intervento trattamentale teso alla limitazione del disagio con l'obiettivo di abbassare il livello di tensione (progetto "Prometeo"). Nella sezione vennero allocati anche soggetti sieronegativi che volontariamente chiesero di poter sostenere i compagni malati. Per un certo periodo la situazione, dal punto di vista dell'ordine interno, migliorò. I detenuti parteciparono a diverse iniziative interne ed esterne all'istituto e si costituirono in associazione ("Prometeo") avente tra i suoi fini la protezione dei diritti dei detenuti sieropositivi. Tuttavia, nel giro di qualche tempo, iniziarono nuovamente episodi di intolleranza ed autolesionismo che culminarono, nei primi mesi del 1995, in una protesta dai toni aspri, causata dall'ennesima morte di un soggetto ristretto.

Il Provveditorato Regionale, per far fronte alla situazione, decise di nominare un gruppo di lavoro ad hoc composto da esperti, da funzionari dell'amministrazione e da personale di polizia penitenziaria. I risultati dei primi diciotto mesi di questa nuova esperienza sono riportati in un contributo pubblicato da chi scrive [P. Buffa, 1996]. Tale gruppo, valutata la situazione pregressa, decise di offrire a tutti i soggetti HIV positivi in ingresso, la possibilità di entrare nella sezione, i cui membri, viceversa, chiedevano vivacemente di continuare ad esercitare una sorta di cooptazione. Inoltre, venne contrastata fortemente la pratica dell'autolesionismo quale metodo di ricatto e rivendicazione. I protagonisti di tali episodi vennero allontanati. Infine si cercò di instaurare un'attività di ascolto dei bisogni del gruppo, sia a livello individuale che collettivo.

Al primo livello, dopo un periodo di manifesta sfiducia, si iniziarono le prime prese in carico che determinarono, in una serie di casi, l'inserimento di soggetti sieropositivi in strutture terapeutiche e di accoglienza esterne, attraverso la concessione dei benefici previsti dall'ordinamento penitenziario. Dal punto di vista interno, vennero incrementate le attività e, collateralmente, particolare impegno venne dedicato all'attività di ascolto e di soluzione, ove possibile, delle varie problematiche connesse alla vita quotidiana all'interno del carcere (istanze, richieste, soluzione di problemi burocratici).

Riguardo al coinvolgimento della polizia penitenziaria si ritenne opportuno indire due interpelli per poter individuare gli elementi più motivati. Entrambi andarono praticamente deserti, denunciando, in tal modo, il permanere di sentimenti di frustrazione e timore. Tuttavia la direzione, consapevole della delicatezza del compito, individuò tra il personale operante al blocco A, struttura nevralgica dell'istituto accogliendo il Centro Diagnostico Terapeutico e altri reparti delicati di osservazione psichiatrica e di terapia metadonica, un nucleo di soggetti di provata capacità e affidabilità. Dal punto di vista degli operatori sanitari, la collaborazione con il gruppo di lavoro non è andata oltre un generico passaggio di informazioni.

In conclusione, a titolo comparativo con la realtà milanese, ricordiamo che nel periodo compreso tra il 21/4/1995 e il 26/3/1996 gli ingressi a "Vallette" di soggetti sieropositivi sono ammontati a 142 unità e, tra questi, 35 sono risultati AIDS conclamati. Al momento dell'effettuazione della ricerca nelle due sezioni interessate erano ristretti 50 detenuti. Occorre precisare che la popolazione detenuta in istituto giornalmente oscilla tra le 1400 e le 1500 unità. A differenza di Milano-Opera, la percentuale di accettazione del test dell'HIV a Torino è pari al 95%-98% del totale degli ingressi.

BIBLIOGRAFIA

AGNOLETTO Vittorio (1995), Vittime da punire, in "Il Manifesto", 10 agosto.

BENGUIGUI Georges, CHAUVENET Antoinette, ORLIC Françoise (1994), Les surveillants de prison et la règle, in "Deviance et Société", XVIII, 3, pp. 275-295.

Buffa Pietro (1996), Risposte al problema HIV in ambito penitenziario: il caso delle "Vallette" di Torino, in "Animazione Sociale", XXVI, 12, pp. 46-56.

Catanesi Roberto, Grattagliano Ignazio, Rossi Pietro (1993), Medicina penitenziaria e AIDS: una indagine sperimentale, in "Rassegna Italiana di Criminologia", IV, 4, pp. 513-532.

Ceraudo Francesco (1992), AIDS e carcere: i diritti dell'uomo e la medicina penitenziaria, in "Atti del Congresso Internazionale di Medicina Penitenziaria, AIDS e carcere: i diritti dell'uomo e la medicina penitenziaria", Pisa, 29-31 maggio 1992, A.M.A.P.I., pp. 17-26.

CLEMMER Donald (1941), The Prison Community, The Christopher Publishing House, Boston.

CHAUVENET Antoinette, ORLIC Françoise, BENGUIGUI Georges (1994), Le monde des surveillants de prison, PUF, Paris.

Colaianni Antonio (1996), AIDS quali attenzioni per la popolazione carceraria, paper presentato nel convegno "AIDS: quali attenzioni per la popolazione carceraria", Genova, 14 dicembre 1996, Coordinamento ligure sieropositivi.

COMBESSIE Philippe (1996), Prisons des villes et des campagnes: etudes d'ecologie sociale, L'Edition de l'Atelier, Parigi.

Cottino Amedeo (1998), Vita da clan, Edizioni Gruppo Abele, Torino.

D'Aniello Marinella, Esposito Salvatore (1994), Il medico penitenziario e le nuove problematiche delle infezioni da HIV: un'indagine conoscitiva su dinamismi psichici e rischio di "burn out", in "Rassegna Italiana di Criminologia", V, 2, pp. 225-232.

DARBÉDA Pierre (1990), Les prisons face au SIDA: vers des normes européennes, in "Revue de Science Criminelle et de Droit Pénal Comparé, IV, 4, pp. 821-828.

D'Aniello Marinella, Esposito Salvatore, Tortono Francesco, Quaremba Armando (1996), Operatori carcerari e burn-out, i medici e l'AIDS, una ricerca nazionale per l'emergenza, in "Rassegna Italiana di Criminologia", VII, 2, pp. 289-316.

Douglas Mary (1996), Assumersi i rischi: una teoria culturale del contagio in relazione all'AIDS, in Id., Rischio e colpa, Il Mulino, Bologna, pp. 123-146.

FAVRETTO Anna Rosa (1999), L'AIDS in carcere: fenomenologia di una malattia "particolare", in FAVRETTO Anna Rosa, SARZOTTI Claudio (a cura di), La prigione malata, L'Harmattan Italia, Torino.

FOUCAULT Michel (1998), Archivio Foucault. Vol. 3. 1978-1985. Estetica dell'esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano.

Gallo Ermanno, Ruggiero Vincenzo (1989), Il carcere immateriale, Sonda, Torino.

Garland David (1999), Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale, Il Saggiatore, Milano.

Gilman Sander (1993), Immagini della malattia. Dalla follia all'AIDS, Il Mulino, Bologna.

Goffman Erving (1968), Asylums. Le istituzioni totali, Einaudi, Torino.

Gonin Daniel (1994), Il corpo incarcerato, Edizioni Gruppo Abele, Torino.

Harding Timothy W. (1989), Toxicomanie et SIDA: aspects epidemiologiques, psychosociaux et étiques en milieu pénitentiaire, in "Cahiers Psychiatriques Genevois", 6, pp.29-43.

JACOB Jutta, STÖVER Heino (1997), Échange de seringues dans des prisons de la Basse-Saxe: examen préliminaire, in "Bullettin Canadien VIH-SIDA et droit", III, 2-3, pp. 10-14.

JÜRGENS Ralf (1994), La prévention prise au sérieux: remise de seringues dans une prison suisse, in "Bullettin Canadien VIH-SIDA ed droit", I, 1, pp. 1-3.

La Greca Giuseppe (1995), La salute del detenuto, in "Diritto Penale e Processo", I, 3, pp. 384-386.

Lombardi Satriani Luigi M., Boggio Maricle, Mele Francisco (1995), Il volto dell'altro: AIDS e immaginario, Meltemi, Roma.

MAGLIONA Bruno, SARZOTTI Claudio (1993), Carcere e AIDS: le ragioni di un rapporto difficile, in "Dei Delitti e delle Pene", 2^ serie, III, 3, pp. 101-132.

Magliona Bruno (1994), Accertamento sierologico dell'infezione da HIV, carcere e tutela dei diritti umani: dal concetto di popolazione speciale al principio di equivalenza, in "Rassegna Italiana di Criminologia", V, 4, pp. 503-519.

Magliona Bruno (1996), Carcere, HIV/AIDS e tutela dei diritti umani, in Magliona Bruno, Sarzotti Claudio (a cura di), La prigione malata. Letture in tema di AIDS, carcere e salute, L'Harmattan Italia, Torino, pp. 69-113.

MALFATTI Daniela (1995), La percezione del rapporto tra tossicodipendenza e criminalità in un gruppo di agenti di polizia penitenziaria, in "Rassegna Italiana di Criminologia", VI, 1, pp. 89-115.

Mathiesen Thomas (1996), Perché il carcere?, Edizioni Gruppo Abele, Torino.

Melossi Dario (1996), Lezioni di sociologia del controllo sociale, Clueb, Bologna.

Pastore Massimo (1996), AIDS, carcere e intervento normativo, in Magliona Bruno, Sarzotti Claudio (a cura di), op. cit., pp. 19-67.

Pavarini Massimo (1991), L'umana convenienza, in "La Grande Promessa", XL, 487, pp.28-29.

Quaglino Gian Piero, Casagrande Sandra, Castellano Anna maria (1992), Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo, Cortina, Milano.

SANTORO Emilio (1997), Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino.

Sarzotti Claudio (1996), Pena e malattia. La sanzione al malato infettivo a prognosi infausta alla luce delle dottrine assiologiche della pena, in Magliona Bruno, Sarzotti Claudio (a cura di), op. cit., p. 114-154.

SARZOTTI Claudio (1999), Codice paterno e codice materno nella cultura giuridica degli operatori penitenziari, in FAVRETTO Anna Rosa, SARZOTTI Claudio (a cura di), op. cit.

Siciliano Vito, Rovito Gennaro (1988), Esperienza di Poggioreale, in AA.VV., AIDS e carcere, "Atti della Conferenza nazionale penitenziaria", Rimini, pp. 88-93.

Sirigatti Saulo (1994), Agenti di polizia penitenziaria e detenuti di fronte all'AIDS, in Casati M. Luisa, Fanghi Franco, Tortorella Roberto, Prevenzione AIDS in carcere: progetto sperimentale di educazione sanitaria all'interno del Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano-Firenze, U.S.L. 10/c, Firenze, pp. 45-52.

Suraci Giuseppe, URANI Fulvio, Alaimo Nicola, Griffa Gianpietro, Pernechele Antonella, Veglio Franco (1986), Aspetti socio sanitari e osservazioni epidemiologiche sulla positività agli anticorpi HTL/VIII, in "Rassegna Penitenziaria e Criminologica", VIII, 1-3, pp. 33-42.

SYKES Gresham M. (1958), The Society of Captives. A Study of a Maximum Security Prison, Princeton University Press, Princeton.

THOMAS Philip A., MOERINGS Martin (1994), AIDS in prison, Aldershot, Dartmouth.

Zaccagnino Angelo, Tiso Domenico (1988), Infezione da HIV, in AA.VV., AIDS e carcere, op. cit., pp. 67-72.

NOTIZIE SUGLI AUTORI

Pietro Buffa è criminologo e direttore del carcere di Alessandria.

Claudio Sarzotti è ricercatore di Filosofia del Diritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Torino.

ABSTRACT

Il saggio presenta i risultati di una ricerca su di un campione di 129 operatori penitenziari (medici penitenziari, personale paramedico, agenti di polizia penitenziaria) che lavorano all'interno di due sezioni destinate ad accogliere detenuti sieropositivi nella Casa di Reclusione di Milano-Opera e nella Casa Circondariale "Le Vallette" di Torino. A tale campione è stato somministrato un questionario a risposte precodificate sui temi della percezione da parte dell'operatore del detenuto sieropositivo, sulle difficoltà ad operare con essi, sulle strategie d'intervento auspicabili, sulla gestione del test sierologico e sulla tutela della riservatezza. Gli autori hanno inteso verificare empiricamente alcune ipotesi teoriche desunte da un modello descrittivo della reazione culturale al fenomeno AIDS del contesto penitenziario italiano. In particolare, essi hanno descritto la reazione della comunità carceraria all'AIDS attraverso un modello dicotomico: modello dell'espulsione e modello del controllo interno per mezzo di sezioni speciali. Questi due modelli si sono succeduti nel tempo, in quanto il modello dell'espulsione è quello tipico della prima fase della vicenda del virus HIV in prigione (fase di panico, in cui il principale obiettivo è quello di liberarsi dei detenuti sieropositivi e che culmina con l'emanazione della legge 222/93), mentre il modello del controllo interno è successivo al superamento della legge 222 ed è caratterizzato dalla necessità di gestire all'interno dell'istituzione carceraria la presenza di detenuti sieropositivi, attraverso la costituzione di sezioni speciali e una massiccia medicalizzazione del problema.

* La stesura della Premessa, dei paragrafi 2 e 3 e delle Conclusioni è da attribuirsi a Claudio Sarzotti, i paragrafi dal 4 al 7 e l'appendice a Pietro Buffa.

Per la ricostruzione della complessa vicenda normativa dei condannati affetti dal virus HIV nel nostro sistema dell'esecuzione penale, cfr. M. Pastore [1996]. Va sottolineato che l'89% (pari a 1636 soggetti) dei detenuti sieropositivi è anche tossicodipendente e di essi, 106 sono giunti ad una situazione di AIDS conclamato. In particolare, la verifica empirica è stata possibile solamente per alcuni aspetti della reazione della comunità centrale carceraria e non per quella della popolazione reclusa (cfr. infra, par. 2).

Tale ricerca è stata effettuata nell'ambito della partecipazione, da parte di uno degli autori del presente saggio, al IV corso di formazione interprofessionale per funzionari direttivi organizzato dal Ministero di Grazia e Giustizia. Faccio riferimento in particolare, per quanto riguarda la teoria della pena, alla corrente neo-retributivista del c.d. expressionism anglosassone (per una bibliografia essenziale, cfr. C. Sarzotti, 1996, n. 35) e per le teorie sociologiche ad autori come D. Garland [1999] e D. Melossi [1996].

E' importante sottolineare che l'espressione reazione culturale non è qui utilizzata in senso debole, ma nel senso forte del far riferimento ad un approccio epistemologico che ritiene centrale la dimensione culturale per la comprensione dei fenomeni legati alla pena nella società moderna [D. Garland, 1999, 235 ss.]. Vedremo in seguito come quest'ultima modalità di reazione all'AIDS sia quella più difficilmente applicabile all'universo carcerario.

Sul tema dei rapporti che si instaurano tra carcere e territorio di insediamento è assai interessante la ricerca di P. Combessie [1996]. Il concetto di prigionizzazione è stato introdotto nella sociologia della vita carceraria da Donald Clemmer [1941] e rappresenta quel "processo graduale, lento e progressivo nel tempo (...) che culmina nell'identificazione più o meno completa con l'ambiente, con l'adozione cioè da parte del detenuto dei costumi, della cultura e del codice d'onore del carcere. Il grado di 'prigionizzazione' è dato dalla misura in cui il detenuto imita i modelli forniti dalla cultura della prigione" [E. Santoro, 1997, 40].

Come noto, si tratta delle vicende di un ristretto numero di detenuti sieropositivi che, per alcuni mesi, compirono una serie di rapine sfidando apertamente la legge, facendo leva sulla loro impunità garantita dalla legge 222. Occorre sottolineare, tuttavia, come tale pericolosità sociale si sia manifestata più a livello simbolico che reale, come dimostrano i tassi molto bassi di recidività delle persone scarcerate ex lege 222 [V. Agnoletto, 1995].

Queste difficoltà di attuazione delle strategie di harm reduction non si sono verificate solamente in paesi di cultura carceraria "tradizionale" (come quelli del bacino mediterraneo), ma anche in nazioni che, per altri aspetti del penitenziario, si caratterizzano per atteggiamenti particolarmente "liberali" [P. Thomas, M. Moerings, 1994]. Le esperienze effettivamente realizzate in Svizzera e Germania sembrano aver prodotto, peraltro, risultati soddisfacenti anche rispetto al consenso della cultura carceraria [R. Jürgens, 1994; J. Jacob, H. Stöver, 1997].

La classificazione che viene qui proposta si pone in una posizione di concorrenza e di complementarità con la nota distinzione di Pierre Darbéda [1990] tra modello liberale e modello autoritario di gestione dell'AIDS in carcere. Il modello liberale sarebbe caratterizzato dal test sierologico volontario, dalla non-discriminazione e dall'adozione di misure di sostegno psico-sociale ai detenuti sieropositivi, da politiche di prevenzione e di riduzione del danno (quali distribuzione di preservativi e di siringhe monouso); il modello autoritario, invece, da obbligatorietà del test, isolamento dei detenuti sieropositivi, restrizioni nell'accesso al lavoro e alle altre attività comuni, nonché rifiuto di adottare strategie di harm reduction [B. Magliona, C. Sarzotti, 1993].

E' questa la reazione tipica delle professioni imprenditoriali e di alcune figure di omosessuali che ostentatamente non vogliono far parte della comunità omosessuale. Si potrebbe citare, a titolo di esempio, il caso dei detenuti al carcere di Torino dell'associazione Prometeo, cfr. Appendice. Pare qui riconfermata la scomposizione della c. c. in custodiale e trattamentale e il codice paterno-materno nel rapporto tra reclusi e operatori penitenziari [C. Sarzotti, 1999]. È il caso della Casa di Reclusione di Milano-Opera che, probabilmente per tale ragione, ha manifestato, come vedremo, una reazione al fenomeno AIDS marcatamente diversa da quella della casa circondariale torinese. Per una descrizione più puntuale di queste due esperienze, cfr. Appendice.

Allineandosi, in tal modo, ad uno studio analogo effettuato presso il Nuovo Complesso Penitenziario di Firenze-Sollicciano [S. Sirigatti, 1994]. Occorre non vedere in questo dato una contraddizione del gruppo milanese. Come noto un più elevato bagaglio formativo e conoscitivo spesso non produce "sazietà" di conoscenza, ma ulteriore desiderio di approfondimento.

Per quanto riguarda i medici, i dati della nostra ricerca sono comparabili ed assimilabili ad una precedente ricerca nazionale [R. Catanesi, I. Grattagliano, P. Rossi, 1993]. Si conferma la tendenza a privilegiare la diffusione delle informazioni, soprattutto di tipo individuale. Il campione nazionale, su precisa richiesta, ha aderito alla possibilità di distribuire preservativi nel 50% dei casi, contro un 15% di adesioni rispetto alla possibilità di distribuire siringhe sterili.

Il dato della polizia penitenziaria riscontrato a Milano è praticamente sovrapponibile a quello rilevato nel citato studio condotto al Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano [S. Sirigatti, 1994], ove il 52% degli intervistati si è espresso in modo analogo. Riportiamo di seguito gli items proposti nel questionario. Soluzione A : I detenuti affetti da HIV/AIDS sono, in genere, tossicodipendenti particolarmente fastidiosi per le loro continue richieste e rivendicazioni e costituiscono un potenziale rischio per l'incolumità degli operatori e dei loro stessi compagni di detenzione. Tutto quello che l'amministrazione penitenziaria può fare nei loro confronti è contenerli in modo da limitare i rischi e i problemi che possono dare. Soluzione B: I detenuti affetti da HIV/AIDS sono, in genere, tossicodipendenti che per le loro continue richieste e rivendicazioni creano un certo fastidio. La loro condizione di soggetti infetti costituisce anche un potenziale rischio per gli operatori e i loro compagni. Tutto quello che può fare l'amministrazione penitenziaria è limitare il loro disagio curando i sintomi della malattia. Soluzione C: La maggior parte dei detenuti affetti da HIV/AIDS risulta essere tossicodipendente anche se altri non lo sono e hanno contratto l'infezione in altri modi. La loro condizione detentiva e personale è particolarmente pesante e, per questo motivo, a volte, possono esprimere il loro disagio con richieste e rivendicazioni. Quello che può fare l'amministrazione penitenziaria è offrire loro tutte le cure mediche del caso, ma anche adoperarsi per il loro supporto psicologico in modo da limitare il disagio psichico. Soluzione D: La maggior parte dei detenuti affetti da HIV/AIDS risulta essere tossicodipendente anche se altri non lo sono e hanno contratto l'infezione in altri modi. La loro condizione detentiva e personale è particolarmente pesante e, per questo motivo, a volte, possono esprimere il loro disagio con richieste e rivendicazioni. Quello che l'amministrazione penitenziaria può fare è offrire loro tutte le cure mediche disponibili, ma anche adoperarsi per attivare un supporto psicologico e umano in grado di limitare il loro disagio psichico. Oltre a questo sarebbe opportuno che l'amministrazione penitenziaria collaborasse con altri Enti al fine di progettare inserimenti al momento della scarcerazione, in modo da limitare il rischio che questi soggetti tornino a delinquere.

In quel caso l'83.3% degli intervistati si era dichiarato favorevole allo screening obbligatorio [R. Catanesi, I. Grattagliano, P. Rossi, 1993]. L'A.M.A.P.I., del resto, ha più volte ribadito la sua posizione favorevole all'accertamento obbligatorio [F. Ceraudo, 1992], pur in contrasto con le direttive O.M.S. e del Consiglio d'Europa.

Nello studio già citato condotto presso il Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano-Firenze la percentuale di favorevoli all'obbligatorietà del test nella polizia penitenziaria fu del 64% [S. Sirigatti, 1994].

Su questo tema la ricerca già citata condotta sui medici penitenziari a livello nazionale ha fatto emergere dati in qualche modo sorprendenti. Oltre il 90% degli intervistati riterrebbero giusto violare l'obbligo del segreto professionale e/o d'ufficio [R. Catanesi, I. Grattagliano, P. Rossi, 1993]. Con questo termine intendiamo designare non una condizione di ingenuità in senso stretto, ma di minori capacità di "difesa" nei confronti dei valori e degli atteggiamenti proposti dalla cultura carceraria informale, capacità di difesa che riteniamo possa essere incrementata sia da un maggior livello culturale di base (a tal proposito, vi è da notare che in molti paesi occidentali gli agenti di polizia penitenziaria di nomina più recente hanno titoli di studio e bagaglio culturale certamente più elevato della tradizionale "guardia" [A. Chauvenet, F. Orlic, G. Benguigui, 1994, 60, n.4]), sia da iniziative formative ad hoc su specifici temi professionali.


Precedente Home Su Successiva