Intervista coop. Giotto

 

Cooperativa Giotto: mentalità imprenditoriale e sociale 
per il lavoro a detenuti e disabili

 

La Difesa del Popolo, 27 ottobre 2002

 

I non profit? Non è una torre d’avorio. Chiedetelo a quelli della cooperativa sociale Giotto. Vi diranno piuttosto che è un laboratorio, in cui assieme ai manichini in cartapesta si modella il futuro di alcuni detenuti che sognano il ritorno nel mondo esterno. O che è una serra, in cui assieme a fiori e piante si coltiva la possibilità di lavoro per decine di ragazzi con disabilità.

Ma insomma è una parola, e le parole sono fatte per piegarsi alla realtà. Perché spesso le vanno strette. Come nel caso della Giotto, ad esempio. Una combriccola di laureati in agraria in pochi anni si trasforma in una società multiservizi in continua evoluzione. Non profit? "Certo - risponde il presidente, Nicola Boscoletto - ma un non profit cresciuto alla scuola della Compagnia delle Opere, una realtà in cui si impara una mentalità sociale e insieme imprenditoriale, senza innalzare steccati che non esistono. È il luogo in cui ho capito che una sensibilità sociale come la nostra si doveva misurare con l’esigenza di quadrare i bilanci, di maturare professionalità. Dove ho imparato che un’azienda, anche sociale, deve dare risposte concrete a concrete esigenze, ma allo stesso tempo deve far crescere le persone".

Per Boscoletto e i suoi amici non è stato un progetto fissato in anticipo. Piuttosto, il tentativo di fare i conti con quello che ci si trovava tra le mani. Come nel caso del carcere. "Inizialmente, frequentando il Due Palazzi - dice Boscoletto - ero stupito dall’autoreferenzialità di quel mondo, dal fatto che tante attività per i detenuti erano più che altro un pretesto per impiegare il tempo. Perché non fare qualcosa di utile, invece? Di qui i corsi di giardinaggio, con cui abbiamo cambiato faccia agli spazi esterni del carcere, trasformando in parco didattico ciò che prima era area abbandonata e coinvolgendo centinaia di detenuti".

Di qui anche l’idea del laboratorio. "Un capannone vuoto da anni, a causa della burocrazia che nel mondo del carcere trova il suo vertice, la sua espressione suprema". Cosa farne? L’incrociarsi con un’attività artigiana ormai priva di sbocchi, ma depositaria di una tecnica all’avanguardia nella costruzione di manichini, fa scattare la scintilla. E oggi in via Due Palazzi sedici persone recluse si sono trasformate in esperti modellatori della cartapesta, producendo articoli che poi faranno bella mostra nelle boutique di maggior grido. Un lavoro che produce qualcosa di utile, insomma. "E che motiva le persone. Perché il lavoro deve offrire la possibilità di ricostruzione di un’identità personale, sociale e lavorativa. Deve produrre cambiamenti a livello personale, non solo manufatti o tecnologie. Questo per noi è l’impresa sociale".

Il tutto mirando alla qualità, come testimonia il conseguimento della certificazione ISO 9001 per la progettazione e la produzione nel settore del verde, ma anche per i servizi di pulizia, la gestione dei parcheggi e, ultima ma non ultima, per la produzione di manichini in cartapesta. La prima conseguita all’interno di un carcere: "Una sperimentazione interessante che indica uno dei percorsi da seguire per coniugare etica e profitto e che producendo per soddisfare il cliente persegue nello stesso tempo anche l’obiettivo di raggiungere quel recupero sociale intrinseco nella definizione stessa di reclusione", scrive nel suo rapporto l’ente che ha svolto la certificazione.

Ma perché ciò che si fa sia utile - e utile soprattutto a chi lo fa - non bastano i buoni propositi. "Ogni persona è diversa dall’altra - dice il vicepresidente della Giotto, Andrea Basso - quindi non esistono percorsi standard". Facile da dire. In concreto significa dotarsi di una serie di nuove professionalità e farle dialogare tra loro, creare strumenti di verifica sui percorsi fatti. Significa ad esempio aprire nuovi settori d attività.

"Se fossimo restati nel settore del verde, da cui eravamo partiti, magari potenziandoci - spiega Basso - non sarebbe stato possibile inserire certe categorie di persone con disabilità, che invece possono esprimersi in altri ambiti. Così abbiamo cominciato a occuparci di servizi di pulizia, data entry, call center, gestione di parcheggi, custodie di musei, scuole e palestre, addirittura restauri. Ma soprattutto abbiamo intensificato il dialogo con il mondo esterno. Io rimango perplesso quando sento parlare di non profit come di un qualcosa di separato dal resto della società. Per lavorare in carcere abbiamo dovuto imparare i linguaggi, le logiche e i percorsi del ministero della Giustizia, dell’Amministrazione penitenziaria, del Centro servizio sociale adulti, del Comune di Padova, piuttosto che dell’Amministrazione provinciale di Padova e della Regione Veneto. O conquistare la fiducia di un’istituzione come la Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, che ci riconosce come interlocutori sul mondo del carcere. Altro che non profit "puro". Senza un modello a rete, di cui noi siamo solo uno dei nodi, l’efficacia sociale è un utopia".

Dal carcere alla serra, cambia l’ambito di lavoro ma la filosofia rimane la stessa: anche se i partner in questo caso, oltre alla Regione, si chiamano Comune di Chioggia, Provincia di Venezia, Camera di commercio di Venezia (Boscoletto aggiunge: "E speriamo presto anche la Fondazione Cassa di risparmio di Venezia...").

"Senza questa rete, il nostro intervento sarebbe comunque marginale. Per questo ringraziare tutti questi enti significa riconoscere il contributo e la sensibilità sociale di persone, prima ancora che delle istituzioni che rappresentano".

Lavorare nei servizi alla persona significa avere a che fare con i valori, l’affettività, l’etica delle persone. Un concetto che la Giotto ha imparato a memoria con la serra didattica di Chioggia. O meglio con il progetto che porta un nome che più esplicito non si può: "Coltivare il lavoro". Decine di ragazzi, per i quali un ingresso a freddo nel mercato del lavoro risulterebbe molto probabilmente traumatico, imparano a conoscere materiali, strumenti, a ragionare di trapianti, sfalci, irrigazioni, piantumazioni, potature.

"L’importante però è che, oltre prendere in mano il rasaerba e il decespugliatore, il lavoro sia occasione per capire l’importanza delle regole e degli orari, per imparare a usare i mezzi pubblici, il telefono, l’orologio, il denaro. Sembrano cose banali, invece sono conquiste. Fino a giungere alla gestione del tempo lavorativo, al rispetto dei tempi di lavorazione, alla percezione della paga come incentivo e rinforzo".

La parola d’ordine è autonomia. Ma siccome (e si torna sempre allo stesso punto) le persone non sono standardizzabili, "autonomia" per ogni ragazzo significa un percorso diverso: tirocinio, borsa lavoro, salario d’ingresso. Il problema dell’autonomia sorge anche, cosa meno ovvia, con i detenuti. "Paradossalmente - dice Boscoletto - il traguardo dell’uscita dalle mura rischia di trasformarsi in incubo. Queste persone una volta uscite spesso sono schiacciate da una serie di esigenze spicciole, riguardanti ad esempio i documenti o i servizi sanitari". La Giotto si trasforma così in sportello multifunzionale, che accompagna con discrezione le persone o ne valuta l’inserimento nel nuovo ambiente di lavoro, raggiungendo fino ad oggi notevoli risultati.

"I dati sugli inserimenti lavorativi e sulle azioni di intervento sociale - continua il presidente della Giotto danno ragione della validità di un modello organizzativo e culturale che produce servizi di qualità, perseguendo nello stesso tempo finalità etiche e sociali". Ad esempio offrendo supporto alle campagne ecologiche delle associazioni ambientaliste. Mentre cioè i volontari ripuliscono le strade di campagna e gli argini abbandonati dei canali, gli operatori della Giotto fiancheggiano la raccolta con mezzi e personale specializzato nello smaltimento dei rifiuti. Si assiste così a un Terzo settore che sa offrire servizi di qualità in settori anche emergenti.

Come nel caso della Cappella degli Scrovegni, la cui gestione serale è stata affidata nel giugno 2002 proprio alla cooperativa. "Un incarico che ci ha fatto molto piacere - dice Boscoletto - perché ci è stato da subito chiaro che il Comune di Padova non ci affidava il suo monumento più celebre e importante solo per fini di recupero sociale, ma perché si aspettava un servizio all’altezza della fama internazionale di questa struttura". E la cooperativa ha risposto, ad esempio, con una campagna di marketing che ha mosso i mass media, locali e nazionali, facendo puntare i riflettori su "Giotto... sotto le stelle" come uno degli eventi culturali più significativi dell’estate 2002.

 

 

 

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