Assistenza sanitaria

 

L’assistenza sanitaria: cronaca di una riforma mai nata

di Claudio Sarzotti

 

6.1 - Il quadro normativo

 

Come è avvenuto spesso, nel Belpaese sono state emanate riforme legislative contenenti principi giuridici molto avanzati che hanno posto l'Italia all'avanguardia tra i paesi europei nel rispetto delle garanzie proprie ad uno Stato democratico di diritto. Tali principi, tuttavia, sono rimasti altrettanto spesso vuote formule retoriche non essendo stato possibile incarnarli in forme di "diritto vivente". In una situazione di questo genere pare trovarsi la recente riforma della sanità penitenziaria prevista dal decreto legislativo n. 230 del 22 giugno 1999.

Tale decreto prevede che siano «trasferite al Servizio Sanitario Nazionale le funzioni sanitarie svolte dall’amministrazione penitenziaria con riferimento ai soli settori della prevenzione e dell'assistenza ai detenuti e agli internati tossicodipendenti» (art. 8) a partire dal 1° gennaio 2000. Inoltre, il passaggio alla gestione della sanità penitenziaria del SSN doveva avvenire in via sperimentale anche per le altre funzioni in tre regioni che un decreto del 20 aprile 2000 aveva individuato nella Toscana, nel Lazio e nella Puglia. Tale sperimentazione avrebbe dovuto estendersi anche ad altre tre regioni che ne hanno fatto espressa richiesta: Emilia - Romagna, Molise e Campania.

I principi giuridici evocati nel decreto 230 sono in linea con le principali direttive internazionali che regolano la sanità penitenziaria, primo tra di essi il cosiddetto principio dell'equivalenza. Tale principio è solennemente annunciato nell’art. 1 del decreto 230, là dove si stabilisce che «i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali». In tale prospettiva, per la quale il servizio sanitario dovrebbe garantire servizi che siano indifferenti al luogo istituzionale e agli utenti sui quali operano, vengono quindi previsti una serie di diritti in capo ai soggetti detenuti. In particolare, il diritto a:

«livelli di prestazione analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi»;

«azioni di protezione, di informazione e di educazione ai fini dello sviluppo della responsabilità individuale e collettiva in materia di salute»;

informazioni complete sul proprio stato di salute al momento dell'ingresso in carcere e per tutto il corso del periodo detentivo;

«interventi di prevenzione, cura e sostegno del disagio psichico e sociale»;

esclusione dal sistema di compartecipazione alla spesa delle prestazioni sanitarie erogate dal SSN;

per i detenuti stranieri, l'iscrizione al SSN per il periodo di detenzione «a prescindere dal regolare titolo di permesso di soggiorno in Italia».

Al fine di garantire il rispetto di tali diritti, il decreto 230 prevede una serie di strumenti organizzativi, i più importanti dei quali sono la Carta dei servizi sanitari per i detenuti che ogni ASL dovrebbe predisporre, dopo aver consultato organismi di rappresentanza dei detenuti e associazioni di volontariato per la tutela dei loro diritti, e il Progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario di durata triennale, attraverso il quale il ministero della Sanità definisce gli indirizzi e gli obiettivi-salute di politica sanitaria penitenziaria delle regioni, indica i modelli organizzativi per tipologia d'istituto, rileva le esigenze specifiche della formazione del personale in ambito penitenziario e stabilisce le linee guida per garantire la verifica di qualità dei servizi erogati.

Sull'insieme della situazione sanitaria penitenziaria dovrebbe inoltre riferire il ministro della Sanità nella relazione annuale sullo stato sanitario del paese, relazione nella quale dovrebbero essere «illustrate le condizioni di salute della popolazione detenuta e internata» e indicati i risultati ottenuti dalle singole regioni in termini di risorse impiegate, attività svolte e conseguimento degli obiettivi-salute previsti.

Non limitandosi a queste enunciazioni di principio, il nostro legislatore ha fatto seguire alla normativa generale un autentico "libro dei sogni", elaborando un Progetto obiettivo triennale relativo alla tutela della salute in ambito penitenziario approvato con decreto del 21 aprile 2000. Tale progetto, tra l'altro, considera la fase di sperimentazione nelle tre regioni, che terminerà nel giugno 2002, come cruciale, in quanto dai suoi risultati dipenderà «l'opportunità di intervenire sulle misure previste» nel progetto stesso. Il decreto, dopo aver brevemente delineato gli elementi problematici principali dell'attuale situazione sanitaria degli istituti penitenziari (vengono considerati punti "sensibili" sui quali operare in via prioritaria il regime alimentare, gli ambienti malsani, la mancanza di movimento e di attività sociali, gli atti di violenza e di autolesionismo, lo stato delle strutture edilizie definite «inadatte e nocive»), pone come obiettivo prioritario quello di realizzare programmi di prevenzione primaria nell'ambito dell'igiene degli alimenti e della nutrizione, dell'igiene degli ambienti di vita e di lavoro, delle strutture sanitarie. A tal fine, le singole ASL dovrebbero predisporre programmi mirati di educazione alla salute, con particolare riguardo alle malattie infettive (e qui il riferimento unico non dovrebbe essere solamente l'AIDS), alla prevenzione della tossicodipendenza, della sofferenza mentale, dell'abuso di psicofarmaci, del fumo e dell'alcoldipendenza.

A questa attività di prevenzione primaria e secondaria dovrebbe inoltre sovrapporsi l'attività della cura vera e propria delle patologie presenti nell'universo carcerario. Il settore delle attività di cura viene suddiviso dal progetto in sette grandi sottosettori: la medicina generale, la medicina specialistica, la medicina d'urgenza, l'assistenza ai detenuti tossicodipendenti, l'assistenza alle persone immigrate, le patologie infettive, la tutela della salute mentale. Per ognuno di questi settori, il progetto prevede degli obiettivi specifici che rappresentano un vero e proprio vademecum dell'assistenza sanitaria in carcere. Per la medicina generale, ad esempio, è enfatizzato il principio della continuità terapeutica delle cure interne ed esterne all'istituzione penitenziaria, con la previsione di un colloquio per tutti i nuovi giunti in carcere con l'operatore di salute mentale e «visite programmate alle persone detenute che ne facciano richiesta». Per la medicina specialistica si sottolinea la necessità di garantire l'immediatezza degli interventi e l'integrazione tra le singole specialità rispetto ad una visione globale della persona reclusa, integrazione che dovrebbe essere ottenuta anche attraverso un raccordo e un confronto continuo tra le varie figure mediche specialistiche. Per la medicina d'urgenza viene rimarcata l'esigenza di garantire un'integrazione tra strutture intramurarie e quelle esterne che consenta interventi tempestivi ed efficaci rispetto a patologie urgenti o eventi critici imprevedibili (si pensi agli atti di autolesionismo), ma al tempo stesso si consiglia di «disporre di adeguate attrezzature che consentano di fronteggiare le urgenze senza dover ricorrere con frequenza all'avvio in luoghi esterni di cura» (con i noti problemi di aggravio del carico di lavoro per il personale di custodia). Per l'assistenza alle persone tossicodipendenti, il progetto fa esplicito riferimento ad «un'ottica che concili le strategie più tipicamente terapeutiche con quelle preventive e di riduzione del danno». Per raggiungere tale finalità, il progetto prevede, in primo luogo, un'indagine conoscitiva che raccolga «dati attendibili» (e questo rilievo del legislatore sulla attendibilità sembra far intendere come quelli raccolti sino ad ora non lo siano affatto) «sulle reali dimensioni della popolazione tossicodipendente», sul livello di turnover di tale popolazione, sull'incidenza dei problemi alcolcorrelati, sulle condizioni dei presidi che attualmente si occupano del problema all'interno degli istituti penitenziari. In secondo luogo, l'assistenza alle persone tossicodipendenti dovrebbe essere improntata ai seguenti principi: immediata presa in carico dei neoreclusi da parte del Ser.T. competente rispetto all'istituto penitenziario, in modo da evitare pericolose sindromi astinenziali; il principio della continuità terapeutica, soprattutto rispetto a quelle persone recluse già in trattamento presso i servizi extramurari; il principio della personalizzazione degli interventi che implica un coinvolgimento della persona reclusa nell'attività di trattamento e il rispetto anche di quei trattamenti farmacologici di mantenimento (in primis metadone) che fanno i conti con la specifica storia del recluso tossicodipendente. Cercare di raggiungere tali obiettivi, tuttavia, implica mutamenti organizzativi anche all'interno dell'amministrazione penitenziaria; da questo punto di vista, il progetto prevede <<la sistematica segnalazione al Ser.T. dei possibili nuovi utenti da parte dei medici addetti alle visite dei nuovi giunti, la costituzione di aree di osservazione per individuare tempestivamente eventuali problematiche "da dipendenza" da sostanze stupefacenti, l'individuazione di appositi locali entro i quali attuare le strategie terapeutiche intramurarie, la predisposizione di istituti a custodia attenuata entro i quali poter più agevolmente attuare tali strategie, un più efficace coordinamento con i programmi svolti all'esterno e in particolare un'integrazione con quelle strutture private (leggi comunità terapeutiche) che si fanno carico della persona condannata in regime di misura alternativa>>.

Anche per l'assistenza sanitaria alle persone immigrate detenute, il progetto parte dal presupposto di una scarsissima conoscenza dei reali bisogni di carattere sanitario di tali persone, dalla difficile fruizione da parte di esse dei servizi sanitari attualmente disponibili, dalla necessità di adottare programmi di prevenzione per le patologie trasmissibili, dalla carenza di protocolli organizzativi mirati all'assistenza di questa popolazione, «dall'assenza di formazione specifica del personale sanitario, di custodia, di supporto (educatori, assistenti sociali, psicologi) negli istituti penitenziari». La situazione attuale sembra essere aggravata, a parere dello stesso legislatore, dalle difficoltà di comprensione linguistica tra utenti e operatori sanitari, dalla scarsa conoscenza da parte dei reclusi stranieri delle opportunità normative (e qui si fa esplicito riferimento alle misure alternative alla detenzione) e di assistenza che il nostro sistema offre, dalla frammentarietà e dalla disomogeneità degli interventi localmente sviluppati su questo tema e, last but not least, dall'assenza di mediatori culturali (figura, tra l'altro, prevista nell'ultimo regolamento di esecuzione penitenziario, ma che nella realtà non ha ancora trovato una sua collocazione stabile nell'ambito della vita degli istituti).

Per quanto concerne le patologie infettive, il Progetto obiettivo concentra la propria attenzione su tre tipi di malattie che sono quelle più frequentemente segnalate nel settore penitenziario: le infezioni prevalenti determinate dalle epatiti non A e dal virus HIV, le malattie meno gravi ma non meno presenti come scabbia, dermatiti e tubercolosi, le sintomatologie associate a patologie infettive come febbre e diarrea. Per intervenire su queste patologie infettive, che rappresentano «un problema in tutte le comunità chiuse», il progetto prevede, in primo luogo, strumenti di informazione per il detenuto e il personale, con particolare riferimento alla preparazione e alla distribuzione dei cibi. Le informazioni, tuttavia, non sono sufficienti se non si costruiscono parallelamente delle mappe di rischio che analizzino in dettaglio gli aspetti di salubrità e della ventilazione degli ambienti carcerari, il livello di densità abitativa delle celle, l'idoneità dei servizi igienici nel non rappresentare veicolo di contagio per le infezioni cutanee e a trasmissione oro-fecale, le modalità di preparazione, di distribuzione e di conservazione degli alimenti. Si tratta, come si può vedere, di aspetti che mettono in discussione l'intera struttura organizzativa dell'istituzione carceraria e che pongono all'ordine del giorno la stessa idoneità delle attuali strutture edilizie penitenziarie a garantire condizioni di vivibilità che tutelino la salute dei detenuti e degli operatori.

L’ultimo paragrafo relativo all'assistenza sanitaria è dedicato alla tutela della salute mentale, tema di estrema rilevanza considerato l'incremento registratosi, a detta di molti operatori, negli ultimi anni delle patologie di tipo psichiatrico o cosiddette border line. In questo ambito, il progetto ritiene indispensabile garantire uno stretto contatto tra gli istituti penitenziari e i dipartimenti di salute mentale che operano sul territorio, in particolare facendo in modo che «i malati detenuti possano usufruire di tutte le possibilità di cura e di riabilitazione» che vengono offerte da tali dipartimenti. In tale prospettiva, si auspicano una obiettiva valutazione dell'entità e della distribuzione dei disturbi mentali nella popolazione reclusa, l'adozione di progetti formativi per gli operatori penitenziari, la collaborazione tra operatori psichiatrici esterni e gli psicologi che lavorano all'interno dei Servizi Nuovi Giunti e modalità di assegnazione agli istituti tali da garantire che i malati detenuti restino in ambiti territoriali prossimi a quelli della loro residenza precedente alla detenzione.

Il progetto non manca, infine, di fornire alle singole regioni delle indicazioni su quali modelli organizzativi adottare nella gestione della sanità penitenziaria. In particolare, è presa in considerazione la dimensione degli istituti penitenziari, differenziando le modalità organizzative a seconda che si tratti di istituti piccoli (fino a 200 detenuti è consigliata l'istituzione di un servizio sanitario multiprofessionale diretto da un dirigente medico), medi (da 200 a 700 detenuti è prevista la costituzione di una unità operativa multiprofessionale diretta da un medico che coordina la medicina generale con quella specialistica) e grandi (oltre i 700 reclusi è indicata la presenza di un apposito dipartimento strutturale, articolato in più unità operative, dotato di uno specifico budget, con un direttore responsabile che predispone un programma annuale del dipartimento).

 

6.2

Lo stato d'attuazione della riforma

 

A fronte di una produzione normativa così articolata e largamente condivisibile dal punto di vista dei principi ispiratori qual è, a più di un anno dalla sua (parziale) entrata in vigore, il grado di attuazione percepibile nella realtà della sanità penitenziaria italiana? Quali sono state le ricadute di tale normativa sulla moltitudine dei corpi incarcerati?

La risposta a tali domande può essere definita, senza troppe esitazioni, disarmante. Alle resistenze di politica sanitaria penitenziaria che si erano manifestate sin dal momento dell'approvazione della normativa si sono aggiunte le note inefficienze e i ritardi burocratici del nostro SSN, nonché un evidente cambio di indirizzo politico dell'ultimo governo Berlusconi. Rispetto alle prime, occorre ricordare come la riforma del 1999 passò grazie a un blitz dell’allora ministro della Sanità Rosy Bindi che superò le numerose resistenze sorte solo attraverso lo strumento normativo, di dubbia costituzionalità, della delega governativa. In altri termini, in seguito e in base ai risultati conseguiti dalla sperimentazione del passaggio al SSN della sanità penitenziaria nelle tre regioni ricordate (Lazio, Toscana e Puglia), dovrebbe toccare al governo stesso emanare i decreti attuativi della riforma, senza un ulteriore passaggio parlamentare. Tale blitz, mirato ad aggirare le resistenze in primo luogo dei medici penitenziari pubblicamente avanzate dalla loro associazione più rappresentativa, l'AMAPI, pur comprensibile da un punto di vista politico, si è rivelato una vittoria di Pirro in presenza di un diffuso disinteresse delle varie ASL presenti sul territorio di farsi carico di un ulteriore servizio non certo remunerativo, né di facile gestione organizzativa. Il non essere riusciti a far crescere il livello di consenso alla riforma da parte degli operatori (penitenziari e non) e la scarsa valorizzazione delle competenze e dell'esperienza professionale che in questi anni la medicina penitenziaria aveva saputo, pur con molte carenze ed ambiguità, costruirsi, hanno creato una situazione di pressoché totale disapplicazione della riforma che si è ulteriormente aggravata col dispiegarsi dell'attività del nuovo governo che sembra molto preoccupato a contrapporsi, anche ideologicamente, alle precedenti impostazioni dei governanti di centrosinistra. Ciò che più sorprende di tale disapplicazione è come essa sia avvenuta, per così dire, alla luce del sole, senza nemmeno preoccuparsi di salvare la forma del rispetto burocratico della legge (come è spesso accaduto nella storia delle "riforme all'italiana").

Si è accennato, ad esempio, all'obbligo previsto dalla legge che il ministro della Sanità dia conto di una serie di elementi informativi sulla sanità penitenziaria nella relazione annuale sullo stato sanitario del paese. In tale relazione per l'anno 2000, tuttavia, non v'è traccia del tema carcere, mentre per l'anno 2001 dal ministero fanno sapere che il ministro sta ancora valutando se inserirlo tra le priorità informative e, in ogni caso, non sono state ancora approntate le modalità attraverso le quali acquisire le dovute informazioni. Occorre precisare che inserire la sanità penitenziaria nella relazione annuale sullo stato sanitario del paese non rappresenta un aspetto meramente burocratico della riforma, in quanto, come sottolinea a più riprese il Progetto obiettivo appena citato, una delle carenze più significative di molti aspetti della sanità penitenziaria è proprio quello dell'assenza di dati obiettivi e scientifici a cui fare riferimento nell'attività di progettazione e programmazione. Primi tra tutti, i dati relativi ai costi effettivi della sanità penitenziaria; costi sui quali si è spesso assistito ad un balletto delle cifre tra gli addetti ai lavori, condizionato spesso da indubbi interessi corporativi, talora di segno opposto rispetto all'impostazione riformatrice.

Al di là di queste inadempienze a livello centrale, vediamo brevemente qual è la situazione che emerge nelle tre regioni a regime sperimentale che, come detto, ultimeranno il loro periodo di sperimentazione a giugno 2002 e pertanto dovrebbero aver predisposto le misure per garantire già da tempo il passaggio al SSN.

 

6.2.1. Regione Lazio

 

Dal punto di vista formale è stata costituita una Commissione tecnica presso l'Assessorato Politiche per la Sanità, operativa dall’ottobre del 2000, che ha tra i suoi compiti quello «di supporto per la predisposizione e l'individuazione di strumenti tecnici e di modalità organizzative» che consentano «comportamenti omogenei da parte di tutte le istituzioni coinvolte». Tale commissione, composta da dirigenti dell'assessorato alla sanità, medici delle principali ASL laziali, medici penitenziari, direttori di carceri e psicologi dovrebbe «rappresentare il punto di riferimento per tutti gli aspetti connessi alla sperimentazione, valorizzando le naturali differenziazioni tra i diversi istituti penitenziari e costituendo la sede di confronto per l'elaborazione dei contenuti del progetto obiettivo». A distanza di più di un anno dall'insediamento della Commissione e dopo alcune riunioni, tuttavia, il Progetto obiettivo non è stato ancora elaborato e l'unica attività effettivamente posta in essere sembra essere stata quella di tentare un monitoraggio delle singole ASL rispetto al tema della sanità penitenziaria (monitoraggio che peraltro non ha ancora prodotto risultati ufficiali). Anche nella realtà laziale si è verificata un’impasse dell’attuazione della riforma con il progressivo diffondersi della percezione che essa non è più appoggiata in toto dall'attuale linea governativa.

I monitori di Antigone hanno, inoltre, potuto registrare "sul campo" resistenze diffuse al passaggio al SSN da parte di singoli operatori sanitari che non ritengono un effettivo obbligo di legge quello del passaggio al SSN (questo atteggiamento sembra prevalente soprattutto nelle realtà periferiche delle piccole carceri di provincia) e, soprattutto, che si comportano come se tale passaggio fosse ormai diventato una prospettiva molto poco concreta. Prevalgono tra gli operatori opinioni negative sulla gestione esterna sia del servizio sanitario penitenziario, sia dell'intervento rispetto alla tossicodipendenza. Emergono nella loro percezione casi di malasanità che dimostrerebbero come le ASL spesso non siano in grado di impiegare adeguatamente le risorse che pure dispongono per il trattamento sanitario penitenziario (si tratta, ad esempio, dell'ospedale di Viterbo, nel quale esisterebbe un reparto per detenuti con 18 posti letto del tutto inutilizzato per problemi di carattere organizzativo). Presente in alcuni operatori è anche il pensiero "inconfessabile" che il passaggio al SSN possa compromettere i facili guadagni che giungono dall'attuale caos dell'attribuzione degli incarichi professionali da parte delle ASL.

In generale, i rapporti tra direzioni dei singoli istituti e le ASL di riferimento sono ritenuti molto problematici, a causa, per un verso, del disinteresse e dell'inefficienza di queste ultime e, per l' altro, delle ingerenze da parte delle direzioni nella gestione dei problemi sanitari intramurari. Si sono registrate situazioni paradossali in cui medici, pur formalmente dipendenti da una ASL, sono stati diffidati dalla direzione dell'istituto ad ottemperare alle sue direttive perché ritenute incompatibili con le esigenze dell'istituzione carceraria. Alcuni medici penitenziari lamentano l'atteggiamento di direzioni d'istituto che fanno di tutto per disattendere la convenzione stipulata con la regione, emanando continui ordini di servizio che entrano pesantemente nel merito della gestione della materia sanitaria, aggirando quindi di fatto la normativa che prevede l'autonomia gestionale della ASL La qual cosa dimostra come per garantire tale autonomia non siano sufficienti misure di carattere meramente organizzativo, ma un mutamento di tipo culturale e delle relazioni di potere all'interno del carcere.

La situazione sembra essere leggermente migliore per quanto riguarda i rapporti tra amministrazione penitenziaria e Ser.T., anche perché la collaborazione era più intensa precedentemente all'entrata in vigore del decreto 230. Tuttavia, si registrano ancora difficoltà. Il metadone in alcuni istituti, soprattutto nelle case penali con detenuti "lungodegenti", non è utilizzato per la resistenza ad ammettere la presenza in carcere delle sostanze stupefacenti, avanzando talora delle risibili esigenze di sicurezza della sostanza (ad esempio, mancanza di una cassaforte in grado di custodire il metadone da somministrare). In altri istituti il metadone viene utilizzato faticosamente e con resistenze culturali da parte degli operatori (in primis quelli del custodiale) che ne possono pregiudicare l'efficacia terapeutica. Anche in questo contesto la titolarità formale dell'intervento terapeutico che dovrebbe far capo al Ser.T. viene spesso aggirata attraverso l'elaborazione di programmi d'intervento e l'affidamento di incarichi professionali ad associazioni del privato sociale a totale insaputa del Ser.T. stesso.

Tale aggiramento di competenze produce spesso una pluralità di interventi terapeuti ci sullo stesso utente senza alcuna coordinazione e provoca conseguentemente un uso non razionale delle risorse operative (come noto, già non abbondanti), Gli stessi locali per gli interventi terapeutici sulla tossicodipendenza, previsti espressamente dal Progetto obiettivo del ministero della Sanità, in molti istituti non esistono, oppure sono del tutto non funzionali rispetto all’uso per i quali dovrebbero essere costituiti. La stessa istituzione di carceri a custodia attenuata sembra far emergere la sorda resistenza di corporazioni penitenziarie che si oppongono in alcuni casi facendo leva sulle paure della comunità locale: è il caso, ad esempio, della struttura ICATT di Frosinone la cui apertura ha subito attacchi sulla stampa locale ispirati da alcuni settori della polizia penitenziaria della stessa casa circondariale.

Rispetto all’assistenza sanitaria in generale, la situazione non sembra essere migliorata significativamente rispetto al periodo precedente all’entrata in vigore della riforma del 1999. Si registrano ancora le carenze che il nostro osservatorio aveva sottolineato per l’anno 1999: difficoltà a garantire negli istituti di piccole-medie dimensioni la guardia medica per tutto il corso della giornata, difficoltà a reperire medici specialisti" a parcella "sufficientemente motivati e competenti considerata l’esiguità del compenso ministeriale previsto per legge, turnover molto intenso del personale sanitario che spesso non trova sufficienti gratificazioni nel difficile lavoro da svolgere in carcere, sottoutilizzo di strumentazioni di laboratorio talvolta piuttosto sofisticate per mancanza di personale qualificatO, ricorso ancora troppo ampio alle strutture sanitarie extramurarie col conseguente aggravio di lavoro per il personale impegnato nei piantonamenti e nelle traduzioni.

 

6.2.2. Regione Toscana

 

La Regione Toscana è, fra le tre oggetto della sperimentazione, quella che ha probabilmente operato con maggior convinzione nella realizzazione della riforma. Questo dato è anche il frutto della storia del servizio sanitario toscano che già in epoca precedente al decreto 230 aveva sperimentato forme di cooperazione tra SSN e sanità penitenziaria. Anche quando il clima politico sulla riforma è cominciato a cambiare, la linea di politica sanitaria della regione Toscana è stata quella di proseguire nel percorso di integrazione tra le due amministrazioni, cercando di instaurare dei meccanismi di collaborazione che potessero svilupparsi in futuro anche qualora la riforma stessa fosse affossata politicamente. Le stesse resistenze esplicite all’impostazione della riforma avanzate da un ‘importante associazione come l’ &\1":.’PI, che possiede nella regione toscana le sue radici storiche, sono state affrontate con proposte di mediazione che hanno cercato di superare anche le resistenze occulte di singole ASL poco propense ad accollarsi il fardello della gestione sanitaria degli istituti penitenziari presenti sul proprio territorio.

A livello centrale, la regione ha costituito, sin dal dicembre 1999, un gruppo di lavoro misto tra Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e funzionari del servizio sanitario regionale con l’obiettivo di coordinare gli interventi delle due amministrazioni. Tale commissione si è riunita più volte nel corso di questi mesi e la sua attività si è concentrata soprattutto nell’area della tossicodipendenza, producendo, tra l’altro, delle linee guida rispetto alle terapie farmacologiche di contrasto alla tossicodipendenza che sembrano essere state utili per consentire una maggiore uniformità nelle linee d’intervento degli operatori sociali. Rispetto all’attuazione del passaggio della sanità penitenziaria al SSN, a livello locale, la commissione ha invece a sua volta costituito dei singoli gruppi tecnici di lavoro per ciascuno degli istituti penitenziari presenti nella regione, composti da rappresentanti dei medici penitenziari degli istituti stessi e delle ASL di riferimento. Il lavoro che questi gruppi hanno svolto negli ultimi mesi del 2001 è stato quello di monitorare la situazione del servizio sanitario dei singoli istituti al fine di fornire all’amministrazione regionale quelle informazioni necessarie, anche a livello epidemiologico, per elaborare un Progetto obiettivo sulla sanità penitenziaria che la Regione Toscana ha approvato nel mese di febbraio 2002. Per l’ennesima volta l’esperienza toscana mostra come il nodo organizzativo della conoscenza reale dell’esistente risulti prioritario rispetto a qualsiasi ipotesi d’intervento. I risultati della ricerca dei gruppi tecnici non sono stati ancora resi pubblici, ma le linee ispiratrici del Progetto obiettivo, secondo le anticipazioni che ci sono state fornite dai funzionari regionali, sono le seguenti: verifica effettiva e conseguente piano di riorganizzazione del personale finalizzato a colmare le carenze di personale sanitario penitenziario che sembrano emergere dall’indagine conoscitiva; attivazione di procedure organizzative che consentano la completa informatizzazione della cartella clinica del detenuto, in modo da consentire anche un impiego più razionale delle risorse finanziarie in materia di approvvigionamento dei medicinali per gli istituti; sempre in merito alla razionalizzazione della spesa sanitaria penitenziaria, costituzione di un prontuario farmaceutico regionale comune e uso delle modalità privilegiate di acquisto dei farmaci già attuate dalle ASL anche per gli istituti penitenziari; particolare attenzione per gli aspetti relativi alla formazione professionale degli operatori sanitari delle ASL chiamati ad adeguare i propri standard professionali ad una realtà molto particolare come quella del carcere; il tema della salute mentale che sembra uno di quelli maggiormente ignorati nella presente situazione, ma che appare come uno dei nodi problematici che potranno incidere maggiormente sulla gestione della sanità penitenziaria in futuro.

 

6.2.3. Regione Puglia

 

Tra le tre regioni a sperimentazione appare quella che ha avuto maggiori difficoltà ad approntare anche una parvenza di attuazione della riforma. All'Assessorato della Sanità pugliese sostengono che il processo applicativo della legge è stato bloccato dall'attesa delle disposizioni degli organismi centrali. Il fatto che la prevista commissione nazionale, composta dai rappresentanti delle regioni a sperimentazione e da funzionari del ministero della Sanità e della Giustizia, non sia stata ancora resa operativa sembra aver legittimato un atteggiamento di sostanziale immobilismo per l'attuazione del decreto 230, in una regione che, come noto, non brilla per la qualità del suo servizio sanitario (ricordiamo che, ad esempio, è stata l'ultima ad attivare, e solo parzialmente, il servizio del 118). Anche alcuni progetti locali che si era pensato di attivare giacciono in attesa di trovare un riferimento normativo. Nel frattempo la Regione Puglia ha approvato nel dicembre 2001 il primo Piano sanitario regionale che regolamenta le linee di sviluppo della sanità regionale per i prossimi tre anni e oltre; in questo fondamentale strumento di programmazione sanitaria il tema del carcere e degli operatori sanitari penitenziari è drammaticamente assente.

I monitori di Antigone hanno potuto verificare carenze del servizio sanitario penitenziario che sembrano essersi incancrenite nel corso del tempo. I problemi più gravi paiono emergere nella casa circondariale di Lecce, dove molti detenuti lamentano un pressoché totale stato di abbandono e si sono riscontrati ritardi nell'effettuare analisi di laboratorio e nella somministrazione dei farmaci, in particolare quelli inerenti all'HIV. Sono state segnalate anche carenze dal punto di vista degli strumenti d'intervento per la medicina d'urgenza, ritenuti indispensabili considerata la distanza piuttosto considerevole che intercorre tra l'istituto penitenziario e il più vicino ospedale, nonché carenze strutturali come camere d'attesa per gli utenti in condizioni igieniche e di arredo assolutamente inadeguate.

Disagi non minori si sono verificati anche a Bari, dove la forte presenza di detenuti stranieri e la conseguente incidenza di patologie relativamente rare nel nostro continente hanno ulteriormente aggravato la situazione sanitaria. Si sono riscontrati ritardi nella somministrazione del metadone con conseguente venir meno della continuità terapeutica, tempi eccessivamente lunghi per effettuare esami di laboratorio e visite specialistiche, casi di detenuti affetti da tubercolosi reclusi con compagni di cella sieropositivi con altissimi rischi di contagio, episodi di reclusi sieropositivi che si sono rifiutati di assumere cibo per poter abbassare il livello di linfociti e poter essere scarcerati (nonostante la legge 231 abbia ormai largamente superato tale criterio di scarcerazione), difficoltà per i detenuti stranieri tossicodipendenti ad ottenere la certificazione da parte del Ser.T. per accedere ai servizi previsti per tale tipologia di condannato, reclusi portatori di handicap fisici "parcheggiati" nel centro clinico per l'impossibilità di attuare lavori di abbattimento delle barriere architettoniche nell'istituto, casi di malasanità o, per meglio dire, di malassistenza come quello di una persona rimessa in libertà in dialisi e con problemi psichiatrici senza che gli venissero forniti i mezzi necessari per ritornare al suo paese d'origine in Sardegna, nonostante non fosse totalmente capace di intendere e di volere (situazione rispetto alla quale ha dovuto sopperire ancora una volta l'iniziativa di un'associazione di volontariato).

A Brindisi i problemi maggiori giungono da strutture edilizie che, essendo prive di un sistema di ascensori, rendono impossibile l'accesso ai locali dell'infermeria a quei detenuti impossibilitati a camminare con le proprie gambe, nonché da laboratori radiologici privi delle necessarie protezioni sia per gli utenti che per gli operatori sanitari. Anche a Brindisi, così come in generale nella regione pugliese, sussistono ancora molte difficoltà da parte dei Ser.T. nell’operare negli istituti e non sono state superate le difficoltà di carattere culturale ed organizzativo per la somministrazione del metadone.

 

6.2.4. Qualche spunto per un'effettiva attuazione della riforma:

l'esempio dell'Emilia-Romagna

 

Se la prospettiva di ricerca si estende alle altre regioni italiane, non può passare inosservata l'esperienza di una regione che probabilmente meglio di molte altre è riuscita ad entrare nella logica della riforma e ad attuare alcune delle sue parti più rilevanti, anche se formalmente non è rientrata nella prima fase di sperimentazione: l'Emilia-Romagna. Essa, non a caso, ha avanzato nel febbraio 2001 esplicita richiesta al ministero della Sanità di essere inserita tra le nuove regioni che avrebbero dovuto attuare il passaggio al SSN, anche se, come detto, tale passaggio sembra essere stato rinviato sine die. Dal punto di vista delle attività poste in essere dalla Regione Emilia-Romagna, è di particolare interesse il protocollo che una commissione tecnica composta congiuntamente, da un lato, da dirigenti del Provveditorato regionale per l'Amministrazione penitenziaria, direttori e operatori sanitari carcerari e, dall' altro, da dirigenti degli assessorati regionali alla Sanità e alle Politiche sociali ha elaborato nell'agosto scorso. Tale protocollo prende le mosse dal Piano sanitario regionale 1999-2001 che ha individuato, tra gli obiettivi principali nell'ambito della promozione della salute nelle popolazioni che subiscono fenomeni di esclusione sociale, anche quello della tutela della salute dei detenuti. Si tratta di un documento di lavoro molto importante, frutto della collaborazione a livello locale delle due amministrazioni, ma che attende ancora di essere approvato a livello ministeriale centrale per poter diventare operativo.

Il documento prende le mosse da un'analisi dei dati statistici attualmente disponibili per ricostruire a grandi linee la situazione della sanità penitenziaria regionale rispetto: a) alla presenza di detenuti tossicodipendenti, stranieri, affetti da HIV nei vari istituti regionali; b) al verificarsi di eventi critici quali gesti autolesionistici, atti di aggressione, suicidi (tentati e riusciti), manifestazioni di protesta, atti di aggressione con ferimenti; c) alle risorse di personale sanitario penitenziario (medici, infermieri, operatori dei presidi per le tossicodipendenze e sieropositivi) in termini anche di monte ore lavorativo e all'impiego delle risorse finanziarie per il servizio farmaceutico e infermieristico di ogni singolo istituto. Si tenga presente che una ricostruzione statistica di questo genere apparentemente banale per amministrazioni efficienti diventa per la situazione italiana un'impresa pionieristica, se non altro per la necessità di dover integrare dati provenienti da settori della pubblica amministrazione, come quelli della giustizia e della sanità, notoriamente poco dialoganti. Impresa pionieristica peraltro indispensabile per individuare i punti critici, almeno dal punto di vista organizzativo, del servizio sanitario penitenziario; punti critici che in Emilia-Romagna sembrano essere rappresentati da: una grave carenza di personale infermieristico cosiddetto "a parcella", ovvero non dipendente dall'Amministrazione penitenziaria; la completa assenza di personale addetto a mansioni amministrative nel disbrigo delle pratiche sanitarie; l'assenza di preparazione del personale addetto alle pulizie nell'area sanitaria reclutato tra la popolazione detenuta; l'incidenza dei regolamenti interni ai singoli istituti sull'organizzazione interna (l'eterno dilemma tra sicurezza e tutela dei diritti dei detenuti); la non completa informatizzazione della cartella clinica del detenuto e dell'armadio farmaceutico dei singoli istituti che nei progetti regionali dovrebbero consentire in futuro una raccolta sistematica dei dati sanitari per garantire una maggiore continuità terapeutica al singolo recluso e una più efficiente programmazione della spesa sanitaria penitenziaria regionale. Particolare attenzione viene posta nel documento ad alcuni aspetti specifici della sanità penitenziaria: l'accoglienza sanitaria del neorecluso che dovrebbe incentrarsi su di una fase di osservazione della durata massima di sette giorni, nella quale uno staff di operatori sanitari e sociali dovrebbe ottenere da parte del detenuto l'adesione al piano assistenziale proposto; la gestione dei problemi sanitari dei detenuti stranieri, rispetto ai quali è ritenuta fondamentale l'attività dei mediatori culturali anche per integrare differenti concezioni della salute presenti nelle varie culture e il potenziamento della rete di sportelli informativi per stranieri già attivati all'interno degli istituti penitenziari emiliani; gli interventi di medicina d'urgenza, per i quali si prevede una formazione specifica del personale sanitario penitenziario, l'utilizzo di tecnologie specifiche in ogni istituto (ad esempio defibrillatori), la garanzia di una copertura della guardia medica nell'arco delle 24 ore, predisponendo anche servizi di consulenza telefonica e l'istituzione in ogni ASL di un referente specifico con il servizio 118.

Nel protocollo non mancano rilievi specifici anche per i modelli organizzativi da adottare. In particolare, vengono suggeriti due modelli di riferimento da scegliersi a seconda della complessità e della dimensione dell'ASL e delle peculiarità dell'istituto carcerario: una prima modalità rappresentata da programmi di attività che assicurino l'unitarietà dei processi organizzativi e dei percorsi assistenziali delle due amministrazioni e la vera e propria costituzione di unità operative e/o moduli organizzativi che abbiano autonomia tecnico-professionale e gestionale rispetto agli obiettivi e alle risorse attribuite.

L’esempio della Regione Emilia-Romagna fa emergere uno degli aspetti potenzialmente positivi forse meno sottolineati della riforma: il passaggio al SSN della sanità penitenziaria in quelle regioni in cui tale servizio funziona ed è sensibile alle tematiche legate alla salute delle fasce marginali dell’utenza, potrebbe permettere un salto di qualità anche ad un servizio sanitario penitenziario che è rimasto tradizionalmente legato a logiche centralistiche e burocratizzate. Mettere a contatto i servizi sanitari regionali con la struttura notoriamente chiusa e poco dialogante della sanità penitenziaria, quindi, potrebbe consentire a quest'ultima di modificare quelle connotazioni di "medicina di serie B" che le derivano dall'ambiguo rapporto con le istanze securitarie dell'istituzione totale e che ancora oggi ne appesantiscono le pratiche assistenziali e l'immagine nella nostra cultura sanitaria. Ciò non deve far dimenticare, peraltro, i possibili gravi inconvenienti che si potranno verificare in quelle regioni nelle quali il servizio sanitario appare in generale di qualità scadente, scarsamente interessato a farsi carico di un'ulteriore "patata bollente" come quella della medicina penitenziaria e poco attento a valorizzare le specificità e le professionalità che quest'ultima ha saputo acquisire in questi anni. Il rischio è, in tale prospettiva, che il carcere in queste regioni sia ulteriormente gravato dalle inefficienze del SSN e venga considerato l'ultimo tra gli ultimi, perdendo anche quel residuo di "privilegi" (ad esempio, per quanto riguarda le risorse finanziarie impiegate) che la sanità penitenziaria ha saputo conquistarsi agganciandosi all'uniformità centralistica della gestione del ministero della Giustizia. Come in molti altri settori della nostra pubblica amministrazione, la linea di tendenza sembra essere quella di un'Italia a macchia di leopardo, nella quale gli standard di rispetto dei diritti dei detenuti saranno di livello molto diverso sul territorio nazionale. Prospettiva per certi aspetti inquietante, ma con cui occorrerà fare i conti nei prossimi anni, senza transigere sui principi giuridici, ma anche senza troppi timori per l'eclisse di un passato non certo da rimpiangere.

 

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