Newsletter n° 18 di Antigone

 

Newsletter numero 18 dell'Associazione "Antigone"

a cura di Nunzia Bossa e Patrizio Gonnella

 

L’Editoriale: un contributo per una nuova giustizia penale

L’Osservatorio Parlamentare, a cura di Francesca D’Elia

I fabbisogni formativi delle persone detenute nella provincia di Roma

"Migranti in Europa": un nuovo spazio del sito di Antigone

Le iniziative di Antigone a cura della Redazione

L’Editoriale: un contributo per una nuova giustizia penale

 

Qui di seguito trovate il nostro contributo per una nuova giustizia penale. Il documento programmatico che abbiamo elaborato, a partire da un incontro collettivo avuto qualche mese fa a Bolsena, vuole essere una base di discussione per ridefinire le priorità sui temi della giustizia penale. Ovviamente è nostra speranza che questo documento abbia massima diffusione e ascolto.

 

Patrizio Gonnella

 

Premessa

 

A dispetto delle infinite polemiche sul rapporto tra politica e giustizia, che interessano o hanno interessato direttamente pochissime persone, l’ultimo movimento del pendolo della giustizia penale in senso chiaramente anti-repressivo risale ormai a quindici anni fa, quando il Parlamento approvava l’ultimo provvedimento di amnistia-indulto, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Di poco precedenti erano il nuovo processo minorile e la stessa approvazione della legge Gozzini. Da allora la popolazione detenuta si è quasi duplicata e si sono decuplicate le persone in esecuzione penale esterna. Non c’è questione che non sia trattata con le armi del sistema penale. Il carcere viene minacciato in oltre 5.000 leggi extra codice, dalla fecondazione assistita ai maltrattamenti agli animali, dall’immigrazione alle droghe. Quest’espansione del sistema penale - frutto di interventi parcellizzati, a coprire una a una singole paure – è andata di pari passo con lo smantellamento delle garanzie sociali. La riduzione delle risorse per il welfare ha escluso intere categorie di persone dal sistema della sicurezza sociale, lasciando loro il solo ruolo di bersaglio privilegiato del sistema penale.

Tutto questo ha origini lontane, negli Stati Uniti della "tolleranza zero" e del nuovo grande internamento. Da questa idea della convivenza sociale e della funzione che in esso può svolgere il sistema penale gran parte dei paesi del vecchio continente sono stati sedotti e travolti. Eppure in questa stessa Europa resiste ancora una cultura dei diritti civili e sociali, cultura e diritti che ne hanno fatto grande la storia. Esiste una contraddizione di fondo che va affrontata, tanto più in un momento delicato quale quello attuale, quando l’approvazione del Trattato di Roma rompe l’esclusività delle competenze statali in materia penale, mentre in Italia si vorrebbe spingere la riforma federale dello Stato verso nuove e non chiare attribuzioni delle Regioni in materia di sicurezza.

Su questo sfondo, e in vista delle prossime, decisive scadenze politiche, la nostra vuole essere una proposta di riflessione che tenti di affrancarsi da un dibattito inquinato dalla nuova emergenza "niente è più come prima" post 11 settembre e dal permanente conflitto di interessi con la giustizia penale del Presidente del Consiglio.

 

Alla ricerca del diritto penale minimo

 

E’ stata già approvata da un ramo del Parlamento la proposta di riforma complessiva dell’impianto costituzionale, che incide in modo particolare e significativo sull’equilibrio tra i poteri dello Stato e sui più rilevanti organi di garanzia. In questo contesto, la riforma dell'ordinamento giudiziario - opportunamente rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica - rappresenta un concreto pericolo per le garanzie di indipendenza, imparzialità e corretto esercizio del potere giurisdizionale.

L’impegno contro lo stravolgimento delle regole fondamentali della giurisdizione non deve però far sottovalutare i limiti del nostro sistema giudiziario e le sue ricadute sulla domanda di giustizia e di tutela dei diritti. L’intervento legislativo sull’ordinamento giudiziario impedisce l’avvio di un serio tentativo riformatore e mette in discussione i meccanismi indispensabili perché si possa giungere a un’accresciuta trasparenza nell’esercizio dei poteri giudiziari e a una piena indipendenza dei giudici da ogni condizionamento da poteri superiori, compresi quelli di natura gerarchica.

Di contro, un’altra riforma della giustizia penale, dovrebbe partire dai principi costituzionali, ultimi tra i quali quelli del giusto processo sanciti nel nuovo articolo 111 della Costituzione (ragionevole durata dei processi; parità delle parti nel contraddittorio; giudice terzo ed imparziale; diritto della persona accusata di essere informata, nel più breve tempo possibile, della natura e dei motivi dell’accusa), e trarne tutte le conseguenze in termini di politica del diritto. Per vedere pienamente realizzati questi principi, è necessario superare l’illusione che la crisi della giustizia penale possa risolversi soltanto attraverso una riforma della cornice normativa o solo con una maggiore efficienza del sistema. Bisogna agire con determinazione in ambedue le direzioni: edilizia, uffici e personale, - sino ad oggi insufficienti ed oberati di lavoro- a cui affiancare la rivisitazione normativa dei codici e delle figure professionali.

La realizzazione di un "contraddittorio delle parti in condizioni di parità" e della "terzietà ed imparzialità del giudice" ci impone innanzitutto un ripensamento delle figure professionali. Dalla crisi irreversibile del modello ottocentesco fondato sulla dialettica Stato-cittadini e sul parallelo dualismo giudice-funzionario pubblico/avvocato-libero professionista, emerge la necessità di ripensarne ruolo e configurazione, a partire da una cultura condivisa della giurisdizione, della legalità e delle garanzie che possa divenire terreno di legittimazione comune delle professioni forensi. A questo fine, si può pensare a un percorso formativo unitario per coloro che intendano percorrere la professione di avvocato o di magistrato, prevedendo un periodo di specializzazione suddiviso in corsi teorici e di pratica, in cui, nella selezione finale, vengano effettivamente valorizzate le attitudini personali dei singoli. Soltanto un ripensamento complessivo così inteso delle figure professionali può garantire che l’attuale dibattito sulla riforma dell’ordinamento giudiziario non assuma un significato punitivo nei confronti della magistratura e consenta una profonda riqualificazione dell’avvocatura a partire dal riconoscimento della funzione pubblica che le è propria. Funzione pubblica dell’avvocatura che può essere rimarcata dall’istituzione di una difesa pubblica, complementare rispetto alla libera professione, in grado di rendere effettivo il diritto alla difesa previsto dall’art. 24 della Costituzione.

D’altro canto, non si può affrontare il nodo della giustizia senza che si assuma l’impegno, non rinviabile, di riformare il codice penale, in un’ottica realmente garantista, in cui il carcere divenga l’extrema ratio del sistema punitivo: vanno ridotte le fattispecie di reato, ridotti i minimi e massimi di pena e rivisto l’intero sistema sanzionatorio. Il diritto penale minimo non potrà che difendere solo beni protetti costituzionalmente, non occuparsi dei reati inesistenti e delle condotte prive di qualunque offensività, come il consumo di droghe, l’immigrazione irregolare o il ricorso a tecniche di riproduzione assistita. Anzi, in questi come in altri casi, sarà necessario muovere nella direzione della mera regolamentazione legale delle condizioni affinché esse possano svolgersi nel modo più garantito possibile.

E’ necessario riancorare il diritto penale indissolubilmente al fatto compiuto interrompendo un percorso pericoloso – di cui la Cirielli-Vitali è la più avanzata espressione – che porta ad una trasformazione in chiave soggettiva del diritto penale che guarda all’autore anziché al reato.

La riforma del sistema sanzionatorio si dovrà articolare in diversi passaggi: una modifica dei massimi e minimi edittali (in Italia, sono previsti i massimi tra i più alti di Europa), l’abolizione dell’ergastolo, l’abolizione delle pene pecuniarie, e una restrizione degli spazi di applicazione della pena detentiva. Per questo ultimo passaggio, è necessaria una differente disciplina delle misure alternative, non più inquadrate in un’ottica meramente suppletiva o integrativa al carcere, quale premio finale di un percorso trattamentale, ma comminabili anche sotto forma di pene edittali, previste direttamente dal codice penale e applicate dal giudice nella sentenza di condanna. Si potrebbe così superare anche l’odierno binomio "misure alternative/pene brevi" determinato da un periodo di osservazione per la concessione delle misure alternative che spesso supera la durata totale della pena inflitta.

La riforma del codice penale così come prospettata può accompagnare una revisione dell’ordinamento penitenziario sotto forma di un vero e proprio "codice dei diritti delle persone private della libertà", così come proposto recentemente da Alessandro Margara. La riscrittura dell’ordinamento penitenziario in termini di diritti esigibili da parte dei detenuti costituisce il miglior antidoto alla prevaricazione della logica istituzionale sui diritti fondamentali dei detenuti e garantisce una migliore funzionalità del diritto al reclamo che va assistito da una effettiva tutela giurisdizionale, come richiesto dalla sentenza 26/99 della Corte costituzionale.

Insieme alla maggiore incisività e effettività del diritto al reclamo va prevista l’introduzione della figura dell’Ombudsman (Difensore civico o Garante che dir si voglia) dei luoghi di detenzione. Anche alla luce di nuovi, prossimi obblighi internazionali (vedasi protocollo Onu alla Convenzione sulla tortura, firmato ma non ancora ratificato dall’Italia) oggi è necessario istituire tale organismo a tutela di tutti coloro che sono in una situazione di privazione della libertà. I fatti di Genova, Napoli e Sassari sono emblematici dei rischi gravi che anche nella nostra realtà sono sempre dietro l’angolo. Ma – come ci insegnano le esperienze di altri Paesi e le prime sperimentazioni avviate in sede locale - è nella quotidianità che l’Ombudsman può efficacemente lavorare per la garanzia dei diritti delle persone private della libertà.. Va dunque approvata la proposta di legge, da troppo tempo pendente alle Camere, che ne definisce compiti e poteri, anche in relazione alle analoghe figure in corso di sperimentazione nelle Regioni e negli enti locali.

Infine, bisogna nettamente contrastare le ipotesi di controriforma della giustizia penale minorile, uno dei sistemi più avanzati ed efficaci del mondo nella decarcerizzazione e nel reinserimento dei minori autori di reato, e, nel contempo, vanno previste regole ad hoc di vita penitenziaria, ispirate a logiche esclusivamente rieducative, così come sollecitato dalla Corte Costituzionale.

 

Verso quale giustizia penale europea? I principi e gli obiettivi di una critica

 

Esiste oggi un apparato di norme composito in tema di giustizia penale, in cui si intrecciano norme nazionali, norme di derivazione comunitaria e norme di diritto internazionale. In primo luogo è opportuno, per quanto possa apparire scontato, riaffermare i principi di garanzia del diritto penale anche quando si discute di diritto penale sopranazionale: la filosofia di fondo non può che essere, naturalmente, quella del diritto penale minimo, della riduzione dello strumento penale a extrema ratio.

In primo luogo esiste una Corte Penale Internazionale, il cui Statuto è stato firmato solennemente proprio a Roma nel 1998. I diritti umani sono oggi teoricamente protetti dal punto di vista giurisdizionale. L’Italia però non solo non ha fatto una vera azione di lobbing per convincere i Paesi refrattari a ratificare lo Statuto, ma non ha ancora adeguato i propri codici penale e di procedura penale alle determinazioni ivi previste, a partire dalla introduzione del reato di tortura nel codice penale. Troppe legislature sono trascorse invano dal lontano 1987, anno in cui, come sempre, il nostro Paese firmava e ratificava prontamente il Trattato contro la tortura, senza adattare però l’ordinamento interno.

Per altro verso, abbiamo piena consapevolezza che il sistema della giustizia penale è ormai fortemente influenzato da scelte e orientamenti che maturano nel contesto istituzionale dell’Unione europea, come ci insegnano la disciplina dell’immigrazione e la nuova normativa anti-terrorismo varata all’indomani dell’11 settembre 2001. La creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, tuttavia, non deve prescindere dal fondamentale riconoscimento del diritto di difesa e dal rispetto dei diritti individuali, come formulati dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Rispetto a tutto questo andrebbe predisposto un vero e proprio piano delle garanzie con alcune priorità definite e irrinunciabili in sede europea. Le garanzie vanno sempre di pari passo con le norme di procedura. Se si parte dall’arresto, vanno individuate tutte le forme di cautela necessarie contro arbitri e eccessi: dai motivi del fermo o dell’arresto alla loro durata, dai luoghi ove eseguirlo ai diritti fondamentali alla difesa e alla integrità personale. In ogni stazione di polizia deve esserci traccia di chi è stato lì custodito, anche se per poche ore. Non ci deve essere mai il rischio di una detenzione non comunicata. In questa carta condivisa vi deve essere un riferimento espresso ai limiti temporali della custodia cautelare, alle regole del giusto processo, ai reati gravi per i quali deve intervenire una cooperazione di polizia e giudiziaria europea.

Sia nella fase del riconoscimento reciproco delle procedure e dei giudicati, che in quella della progressiva omogeneizzazione delle normative, vanno tenute presenti garanzie e tutele irrinunciabili, vanno identificati minimi e massimi edittali, vanno enucleati i comuni ed essenziali interessi da proteggere in Europa con gli strumenti del diritto penale, evitando che i singoli Stati si limitino ad adattarsi al diritto penale di derivazione europea, conservando allo stesso tempo intatto il proprio armamentario repressivo. Le linee guida europee sul sistema penale, se vincolanti, devono vincolare su tutto. E tali linee guida devono avere quale punto di partenza il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione, prendendo il meglio dagli ambiti nazionali.

Il diritto penale europeo deve evitare le tentazioni del panpenalismo. Il Trattato costituzionale europeo invece stabilisce nel capo terzo, sezione 4 (cooperazione giudiziaria in materia penale) all’art.172 una elencazione di reati, per le i quali la legge quadro europea potrà stabilire norme minime per la definizione dei reati e delle sanzioni, che in alcuni casi (come quella del terrorismo, traffico di essere umani, criminalità informatica) presentano una eccessiva genericità che potranno estenderne l’applicazione oltre ogni limite prevedibile.

Altro punto fondamentale da garantire su scala comunitaria, è quello che riguarda il diritto alla difesa. Per esso interviene già la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale - supportata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo - consacra il diritto all’assistenza e alla rappresentanza in giudizio. Tuttavia non è sufficiente affermare tale diritto: ne deve essere stabilito in concreto il modo di esercizio, assicurandolo dal primo atto giudiziario e a tutti, senza distinzione di censo.

L’armonizzazione del sistema sanzionatorio nei Paesi della Ue richiede una riflessione di partenza su quali possano essere le sanzioni ammissibili e quali i limiti insuperabili. Data per scontata la inaccettabilità della pena capitale, c’è da chiedersi prima di tutto se sia legittima la pena carceraria a vita. Come si legge nelle pagine introduttive del Green Paper sull’armonizzazione del sistema sanzionatorio penale, alcuni Paesi – Spagna e Portogallo – hanno abolito definitivamente la pena dell’ergastolo. Si tratta di due paesi europei che più di recente hanno riconquistato la democrazia, venendo fuori da regimi dittatoriali fascisti. È evidente che il passaggio da un regime autoritario a uno stato di diritto si fonda anche sul superamento della durezza e della violenza delle pene. L’Unione Europa, il cui processo di costituzionalizzazione è ancora in fieri, comunque è una entità giovane. Pertanto, farebbe bene a dare suggerimenti precisi e vincolanti agli stati nel senso del superamento della pena dell’ergastolo e della sua sostituzione con pene che abbiano un massimo carcerario edittale predeterminato, tale da consentire un successivo rientro in società. In questo senso, l’Italia può portare in Europa la sostanza del terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, che vincola l’esecuzione penale all’obiettivo del reinserimento sociale della persona condannata.

In un progetto di omogeneizzazione del sistema sanzionatorio dei singoli ordinamenti giuridici penali dei paesi della Ue va inoltre ripresa la raccomandazione del Consiglio di Europa del 1992 riguardante le sanzioni alternative alla detenzione. Dal Consiglio di Europa, infatti, sin dal 1992 arrivava un monito a diversificare il sistema delle sanzioni penali e ad applicare pene non detentive sin dal momento della condanna. L’Unione Europea dovrebbe far proprie le raccomandazioni provenienti da Strasburgo, pensate sia per contenere i tassi ingestibili di sovraffollamento penitenziario, sia per dare risposte più efficaci e non meramente simboliche al crimine diffuso.

La cooperazione di polizia è regolamentata dall’articolo 174 del Trattato che definisce il compito di Eurojust, che ha il compito di sostenere e potenziare il coordinamento e la cooperazione delle autorità nazionali responsabili dell’azione penale. Anche qui compare il termine "criminalità grave" che suscita molte perplessità. Se Eurojust è l’ipotesi di partenza in base alla quale si dovrebbe istituire la futura procura europea e se la procura dovrebbe essere competente "per individuare, perseguire e trarre in giudizio gli autori di gravi reati con ripercussioni in più Stati membri e di reati che ledono gli interessi dell’unione" lascia non poche perplessità il fatto che i suoi componenti possano essere nominati direttamente dagli esecutivi. E’ quindi opportuno che la legge quadro europea che istituirà la Procura, assicuri che i suoi componenti non siano di nomina diretta dei governi, ma frutto di nomine affidate ad organi che ne garantiscano il più possibile l’autonomia e l’indipendenza dell’azione giurisdizionale. Il rischio è che, come accade in molti paesi di nuova adesione alla Ue, l’attività dell’accusa sia legata direttamente agli organi di polizia.

Il Trattato fa quindi un riferimento espresso alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Un passo in avanti sarebbe la ratifica della Ue di questa Convenzione. Il Consiglio di Europa, attraverso la giurisprudenza della Corte, i Rapporti del Comitato per la prevenzione della tortura, le raccomandazioni dell’Assemblea parlamentare, ha più volte toccato le questioni penale e penitenziaria dal punto di vista dei diritti dell’uomo. E’ importante che anche in ambito dell’Unione europea trovino spazio giuridico e politico queste decisioni e queste argomentazioni al fine di garantirne la vincolatività.

 

Un nuovo livello di azione: quello locale

 

La prospettata riforma dell’art. 117 della Costituzione (nell’ambito della c.d. devolution) e la recente proposta di legge finanziaria 2005 rischiano di incidere drammaticamente sullo stato delle politiche sociali nel nostro paese.

La previsione di competenze esclusive delle regioni su temi quali la sanità, la scuola, la polizia locale si accompagna a una riduzione delle risorse a disposizione degli enti locali. Il rischio è che la riduzione delle risorse, soprattutto di quelle destinate ai sistemi locali di welfare, provochi un ulteriore inasprimento delle questioni che ruotano intorno al tema della sicurezza. Consapevoli di questo rischio insito nell’attuale riforma in corso di approvazione, ci appare importante riflettere sui contenuti della devolution stessa e quindi di un federalismo sostenibile sul piano dei diritti.

Nella ricerca del sistema che meglio permetta l’affermazione e la tutela dei diritti, abbiamo individuato due livelli, che a nostro parere debbono essere tenuti separati:

definizione dei diritti, ovvero in cosa si sostanziano i diritti fondamentali (es. cosa significa concretamente il diritto alla salute, all’istruzione, etc.). Ci pare fondamentale che la definizione dei diritti venga mantenuta su un piano decisionale il più alto possibile, per soddisfare il principio di uguaglianza e l’universalità delle prestazioni. Questo significa che a livello statale o sopranazionale debba restare la competenza sugli indirizzi fondamentali a cui le politiche regionali e locali devono rigorosamente attenersi.

definizione e attuazione delle politiche, ovvero come tradurre concretamente e rendere fattuali gli orientamenti stabiliti a livello nazionale o sopranazionale. In questo senso le competenze possono essere assegnate a livello regionale e locale, perché solo questo livello può garantire una buona integrazione delle politiche sul territorio (es. integrazione tra politiche urbanistiche e sociali). Inoltre sono livelli che permettono una maggiore prossimità tra cittadini e rappresentanza e risponde meglio ai legittimi bisogni di sviluppo degli ambiti di partecipazione.

La sostenibilità sociale di una riforma radicale del sistema penale nel senso del diritto penale minimo passa attraverso la capacità di costruire sul territorio efficaci politiche di partecipazione e di inclusione sociale, che riducano la diffusa insicurezza sociale e la conseguente domanda di controllo penale che nel decennio passato ha alimentato e legittimato le ideologie e le politiche di tolleranza zero. L’esperienza degli anni 90 ha dimostrato che concentrare eccessivamente il dibattito politico sui temi della sicurezza, anche se fatto con le migliori intenzioni (vedi l’esperienza del progetto Città sicure in Emilia Romagna), non solo non riesce a sciogliere il nodo del rapporto tra diversi modelli in tema di prevenzione (situazionale, sociale, integrata), con particolare riferimento alla compatibilità fortemente problematica tra pratiche repressive e interventi di sostegno e integrazione sociale, ma, in certe condizioni, rischia di comportare al contrario un aumento della percezione di insicurezza e quindi la richiesta di maggiori interventi repressivi. E’ pertanto necessario spostare l’attenzione sulle problematiche originarie - quali la criminalità, la devianza giovanile, la tossicodipendenza, l’immigrazione - abbandonando il concetto di sicurezza che in questi anni ha dimostrato di essere un contenitore capace di venire riempito con le tematiche politicamente di volta in volta più convenienti. Questo significa anche la rinuncia agli assessorati alla sicurezza che sono proliferati in questi anni anche nelle città governate dal centro-sinistra. Impegno e risorse dovrebbero invece essere indirizzati verso politiche di sostegno alle marginalità estreme, di riduzione del danno nelle tossicodipendenze, di inclusione sociale.

Stante l’unicità delle norme penali, di procedura penale e relative all’esecuzione penale intra ed extra-muraria, nell’ottica di rendere quanto più effettiva possibile la promessa costituzionale della finalità "rieducativa" della pena ci si deve chiedere quali spazi possano avere le Regioni e gli enti locali nell’esecuzione penale. Lo spostamento di gran parte delle competenze "trattamentali" (formazione professionale, orientamento e politiche attive del lavoro, programmazione dell’offerta formativa, politiche sociali, sanità, ecc.) alle regioni e agli enti locali non può non farci pensare agli enti territoriali come soggetti corresponsabili dell’efficacia del sistema di esecuzione penale nel perseguire gli obiettivi che gli sono costituzionalmente prefissati. Questa corresponsabilità meriterebbe di essere definita normativamente, anche al fine di rompere la ancora eccessiva impermeabilità dell’amministrazione penitenziaria nella gestione dell’esecuzione penale. La formalizzazione della corresponsabilizzazione delle Regioni e degli enti locali nel sistema dell’esecuzione penale consentirebbe inoltre di integrare al meglio gli interventi interni al sistema penale con quelli che gli enti locali già attuano sul territorio.

 

Osservatorio Parlamentare, a cura di Francesca D’Elia

 

Mandato d’arresto europeo: approvate modifiche al testo

 

In data 22 febbraio, la Camera dei Deputati ha approvato, con alcune modifiche, il provvedimento che recepisce il mandato d’arresto europeo in attuazione della decisione quadro firmata dai Quindici a Laeken nel 2001.

Dal testo, che torna al Senato per un nuovo esame, è stato espunto l’art. 4 (bocciato dall’Aula contro il parere del Governo) che, in particolare, riguardava alcuni poteri del Ministro della Giustizia nell’ambito del nuovo strumento europeo, e che prevedeva tra l’altro che, nel caso di ricezione di un mandato d’arresto europeo, il Ministro lo dovesse trasmettere "senza indugio" all’autorità territoriale competente.

In base al nuovo testo, inoltre, si prevede (all’art. 17) che la consegna del ricercato al magistrato di un altro paese europeo -a parte il caso di una sentenza di condanna definitiva - sia possibile solo se vi sono "gravi indizi di colpevolezza" a suo carico. Modifica alla quale si è prevenuti dopo l’approvazione, da parte dell’Aula di Montecitorio - con 236 sì, 177 no e 8 astenuti - di un identico emendamento presentato dalla Lega e da Rifondazione Comunista, e sul quale vi è stato il voto favorevole della Casa Delle Libertà, Verdi e Rifondazione Comunista; contrario, invece, il voto degli altri gruppi dell’opposizione.

Non basta, quindi, che gli indizi siano "sufficienti" (come risultava nel testo approvato dal Senato), ma devono essere "gravi", in tal modo tornando alla norma originaria, già approvata in prima lettura alla Camera. Il testo passerà ora all’esame del Senato per la definitiva approvazione.

 

Quattro anni di carcere a chi rifiuta esame dna per fini giudiziari: Pdl di AN all’esame della Commissione Giustizia della Camera

 

Due proposte di legge (primi firmatari: l’on. Franz e l’on. Onnis di Alleanza Nazionale), attualmente all’esame della Commissione Giustizia di Montecitorio, prevedono la condanna fino a quattro anni di galera per chi in un processo penale rifiuterà di sottoporsi al prelievo per l’esame del Dna.

In particolare, si prevede che il giudice, anche d’ufficio, possa imporre il prelievo per il Dna nei confronti di chi non vi acconsente (ammesso solo se l’atto è assolutamente indispensabile, non lesivo della dignità e non mette in pericolo la vita o la salute dell’imputato o degli altri soggetti).

Qualora il soggetto non si presenti (salvo vi sia legittimo impedimento) il giudice potrà disporre che sia accompagnato coattivamente nel "luogo stabilito" (che potrà essere una struttura pubblica "o equiparata") e che vi sia trattenuto, anche contro la sua volontà, per il tempo strettamente necessario.

In caso di rifiuto a "collaborare all’esecuzione dell’atto", scatterebbe quindi la reclusione fino a quattro anni, configurato delitto contro la Pubblica Amministrazione.

Al provvedimento sono stati presentati diversi emendamenti che vanno dalla soppressione di tutti gli articoli, a proposte tese a rendere il testo meno rigoroso, prevedendo ad esempio (proposta avanzata da uno dei firmatari, l’on. Onnis) che il magistrato possa ordinare il prelievo "forzoso" solo in due casi: quando si tratti di un reato punibile con l’ergastolo o con una pena superiore ai tre anni di carcere.

 

I fabbisogni formativi delle persone detenute ed ex detenute nella provincia di Roma, di Romina Raffo e Massimiliano Bagaglini

 

Nei mesi di novembre e dicembre 2004 l’Associazione Antigone ha svolto, per conto di Capitale Lavoro SpA, una ricerca che ha riguardato l’analisi dei fabbisogni formativi delle persone detenute ed ex detenute negli istituti penitenziari della provincia di Roma. A tale scopo sono stati analizzati 335 curriculum vitae raccolti dai COL (Centri di Orientamento al Lavoro) del Comune di Roma attivati nelle carceri romane e dal servizio PID (Pronto Intervento Detenuti). Sono state raccolte inoltre, attraverso questionari ed interviste, diverse testimonianze di persone detenute o ex detenute, attualmente impegnate in attività lavorative ed i pareri di numerosi testimoni privilegiati nel settore della formazione culturale e professionale appartenenti alle istituzioni centrali e locali, alle associazioni di categoria aziendali e professionali, ai sindacati ed al mondo del non profit. Non si è trattato soltanto, quindi, di fotografare il bisogno di formazione di questa particolare categoria sociale, ma si è cercato anche di approfondire le conoscenze sull’inserimento lavorativo attraverso le testimonianze dirette degli attori coinvolti e, allo stesso tempo, di capire quali fossero gli strumenti più utili per orientare e migliorare le azioni formative. La ricerca è inserita nella più ampia cornice della realtà socio-lavorativa della popolazione detenuta ed ex detenuta in Italia e fornisce una panoramica sulla normativa che riguarda questo aspetto della vita delle persone detenute.

I dati salienti emersi dalla ricerca evidenziano lo stato di deprivazione culturale e professionale della popolazione detenuta ed ex detenuta. In particolare, in ordine al grado di istruzione, l’analisi dei curriculum rivela che il 54% del campione possiede il solo titolo di scuola media inferiore, il 18% quello di scuola elementare, il 13% quello di scuola media superiore. Bassissima la percentuale di diplomati professionali e laureati, rispettivamente il 9% e il 4%. Vi è anche un 2% senza alcun titolo di studio. Per quanto riguarda il lavoro e l’istruzione professionale, solo nel 39% dei casi il campione ha frequentato un corso di formazione professionale e, sebbene nella quasi totalità dei casi sia presente almeno un’esperienza lavorativa precedente al periodo di carcerazione, va segnalato che circa il 65% del campione ha svolto un’attività lavorativa in posizione di operaio, subalterno o assimilato nei settori dei servizi, dell’edilizia e della ristorazione. Pochissimi sono quindi le persone detenute o ex detenute in possesso di una reale qualifica professionale. A questi dati possiamo aggiungere che nel 73% dei casi il campione non possiede alcuna conoscenza informatica. Alla pesante situazione di deprivazione culturale, scolastica e professionale si accompagna l’età media dei detenuti e degli ex detenuti che è compresa tra i 35 e i 40 anni. Infatti il 35% del campione ha un’età compresa tra i 41 e i 50 anni, il 21% tra i 36 e i 40, il 20% tra i 31 e i 35 anni e solo il 10% possiede un’età inferiore ai 30 anni. La conseguenza che ne deriva è che l’inserimento nel mercato del lavoro di soggetti con tali caratteristiche presenta condizioni di elevata problematicità che vanno ad aggiungersi ai pregiudizi che già circondano i detenuti. Un tale contesto suggerirebbe l’avvio di massicci interventi volti ad eliminare il gap che rende difficile, se non impossibile, il reinserimento sociale delle persone ex detenute attraverso il lavoro. Tale obiettivo si scontra però con la realtà dell’esecuzione penale degli istituti di pena dove le iniziative di formazione e di avvio al lavoro sono quantitativamente e qualitativamente di basso profilo. I dati, a livello nazionale, evidenziano un calo della popolazione detenuta lavorante da circa il 40% dell’inizio degli anni ‘90 al 25% del 2003. Per cui, oggi, solo un detenuto su quattro lavora. Inoltre, la maggior parte dei lavori che si fanno in carcere sono alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria e riguardano occupazioni di basso profilo come quelle di portavitto o scopino, che risultano non spendibili sul mercato del lavoro. Le interviste fatte con detenuti ed ex detenuti rivelano che spesso i corsi di formazione fatti in carcere sono inutili per l’inserimento nel mercato locale del lavoro. Risulta ancora marginale l’intervento di privati, se si esclude la nicchia del privato sociale, nel campo della formazione e del lavoro in carcere. Infine, non va dimenticato, che circa il 60% della popolazione detenuta ha un residuo pena inferiore ai tre anni e quindi si trova in una condizione in cui, per limiti di tempo, risulta difficile avviare azioni di formazione che possano produrre risultati duraturi.

Dai colloqui avuti con numerosi testimoni privilegiati e, sulla scorta dei dati statistici raccolti nel corso della ricerca, sono emerse alcune indicazioni su come migliorare la formazione ai fini di un reale inserimento lavorativo. Sinteticamente, si tratta di organizzare dei percorsi formativi che vadano a sostituire i corsi di formazione, ovvero prevedere progetti di accrescimento delle competenze culturali e professionali proiettati nel tempo e basati sulla contaminazione tra ore d’aula e ore di tirocinio sul campo. Il progetto formativo, oltre ad una serie di competenze specifiche, deve puntare all’accrescimento delle competenze trasversali; deve essere basato sulla partecipazione del soggetto al quale si rivolge e quindi individualizzato attraverso un bilancio preventivo delle competenze personali. E’ necessario poter disporre di un tutor e poter monitorare l’intero processo al fine di valutarne i risultati. Le azioni formative devono essere spostate il più possibile fuori dal carcere ed avviate sin dall’inizio del periodo di detenzione (in relazione con il residuo pena). I percorsi formativi devono prevedere una attenta osservazione della realtà socio-produttiva locale; preziosa in questo senso potrebbe rivelarsi la collaborazione delle associazioni di categoria delle imprese che potrebbero offrire opportunità di tirocinio e stage. A questo proposito i percorsi formativi devono prevedere il coinvolgimento, nella fase programmatica, di più attori: istituzione carceraria, enti locali, mondo dell’associazionismo, imprese private, sindacati, forze di polizia, affinché il percorso formativo possa conquistarsi una base di solidità nella comunità locale. La gestione deve essere affidata all’ente territoriale, vero collante tra dentro e fuori. Va avviata una estesa azione di sensibilizzazione e informazione sul reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e anche sulle opportunità che la legge offre in tal senso alle imprese private.

 

"Migranti in Europa": un nuovo spazio del sito di Antigone dedicato ai diritti degli immigrati nella U. E., di Gennaro Santoro

 

Lo spazio "Migranti in Europa" (www.associazioneantigone.it/cpta.htm) nasce dall’esigenza di voler contribuire a diffondere informazioni e notizie concernenti i migranti in Europa, troppo spesso vittime di detenzioni sociali e discriminazioni, in aperta collisione con i principi cardine dello Stato di diritto.

In particolare, l’attenzione è rivolta sia ai preesistenti e inumani CPT europei, che alla temeraria volontà di alcuni governi della giovane Unione Europea di costruire nuove gabbie etniche in Nord Africa. Per altro verso saranno proposte e approfondite le buone prassi promosse e sostenute da alcuni soggetti della nuova Europa, al fine di contribuire alla creazione di un nuovo concetto di cittadinanza basato sulla residenza (e non sull’etnia o paese di origine), che contribuisca a porre le basi di una nuova società multiculturale fondata sulla mediazione e sulla reale integrazione delle culture, in aperto contrasto con le politiche emergenziali e di criminalizzazione del migrante che caratterizzano il momento storico attuale.

Oltre ad uno spazio dedicato ai documenti, giuridici e non, inerenti i diritti dei migranti (www.associazioneantigone.it/cpta/documentinazionali.htm), nella sezione rassegna stampa è possibile leggere quotidianamente le principali notizie della stampa italiana ed europea sul tema dell’immigrazione (www.associazioneantigone.it/cpta/rassegnastampa/default.asp).

E’ presente, inoltre, una sezione con alcune schede critiche mensili (www.associazioneantigone.it/cpta/schedemensili.htm) che riassumono le informazioni della stampa proposte nel mese in corso. L’ultima directory è invece dedicata agli eventi (www.associazioneantigone.it/cpta/eventi.htm) che promuovono un nuovo concetto di cittadinanza basato sulla multiculturalità.

 

Le Iniziative di Antigone, a cura della Redazione

 

Martedì 8 marzo ore 17, a Roma, presso la Sala Blu dell’Assessorato al lavoro del Comune di Roma, Lungotevere de’ Cenci 5, seminario a cura di Antigone: Il Carcere al femminile. Introduce Patrizio Gonnella. Intervengono: Silvia Baraldini, Il carcere negli Stati Uniti e in Italia; Laura Astarita e Susanna Marietti, Idee e proposte per nuove politiche per il reinserimento di donne ex detenute. Conclusioni: Marina Graziosi.

Venerdì 11 marzo ore 14.30 - 18.30, a Firenze, presso la sede della Facoltà di Psicologia, in via La Torretta, presentazione del Terzo Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione Antigone in carcere, a cura di B. Mosconi e C. Sarzotti, Carocci 2004. Interviene Patrizio Gonnella.

 

 

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