Diritto penale minimo

 

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Il diritto penale minimo. Liberarsi dalla necessità del carcere?

di Mauro Palma (Presidente Associazione Antigone)

 

All’Università degli studi di Parma, dal 30 novembre al 2 dicembre del 1984, discutemmo di questo tema. Eravamo in molti e lo sguardo comune era rivolto all’esame dei primi esiti della riforma penitenziaria approvata nove anni prima. “Liberarsi dalla necessità del carcere – si scriveva allora – vuol dire, in estrema sintesi, attuarne la riforma: il carcere, infatti – allora come ora – non assolve a compiti di rieducazione e recupero sociale, anzi produce insicurezza per la vita di chi sta dentro e, come luogo di formazione, arruolamento e organizzazione delittuosa, anche per chi sta fuori. [….] L’attuazione di quanto previsto dalla legge penitenziaria – leggo sempre dal documento di quel convegno – deve avere come prospettiva un orizzonte di riduzione progressiva della sua estensione; da qui l’auspicato avvio di iniziative di decarcerizzazione, specie per i minori” . Si sottolineava nel documento preparatorio lo scandalo del carcere preventivo – era ancora questa la denominazione non attenuata dai successivi eufemismi – non solo per il tempo di carcerazione non supportato da condanna definitiva (in quell’anno il rapporto tra non definitivi e definitivi era di due a uno), ma anche per la sua connotazione di risposta di malintesa soddisfazione a un certo tipo di pubblica opinione. Inoltre, “la pena detentiva anche con l’affacciarsi di affinamenti tecnologici – ancora agli albori, osserviamo oggi – colpisce sia detenuti sia operatori, accomunando itinerari di espiazione e itinerari di degradazione dell’ambiente di lavoro”.

Molti erano gli operatori presenti e proprio da lì iniziò un lungo percorso di lavoro comune con diversi di loro . Soprattutto un lavoro di confronto a partire da angolazioni, diverse ma accomunate dall’esigenza di dare effettività a quanto espresso dal dettato costituzionale sulla pena, creando in primo luogo condizioni di rispetto della dignità della persona umana. In questa direzione, il controllo sociale sull’istituzione carceraria, l’instaurazione di un rapporto con il territorio e le sue autonomie, l’articolazione della sanzione, fuori dal campo strettamente penale diventavano imperativi d’azione per alimentare la speranza di abbattere l’apparato di regole e di simboli, di ghetti e di impotenza che caratterizzano il carcere. “Liberarsi dalla necessità del carcere – si scriveva, infine – diviene la premessa per una profonda modificazione culturale che si riallaccia al senso di libertà connesso alla nozione di persona umana e si perde nell’utopia”.

 

Una formula ancora valida?

 

Ritrovo, dopo molti anni, la stessa espressione – quasi una formula – come titolo del mio intervento; ritrovo tra noi alcuni dei partecipanti di allora. Ma l’espressione non è più affermativa, bensì interrogativa: il tempo ha fatto sorgere la necessità di un punto di domanda.

E’ questa ancora un’utopia possibile? Può indicare una direzione lungo cui procedere, pur sapendo che non rappresenta una meta raggiungibile, quanto piuttosto una linea asintotica verso cui tendere?

Non è possibile rispondere a questi interrogativi senza chiedersi cosa sia avvenuto in questi anni attorno alla concezione stessa di ‘pena’ e ai compiti a essa affidati; in particolare, attorno a quella sua cristallizzazione che è costituita dalla pena intramuraria segregativa.

Quando si svolse quel convegno eravamo alla vigilia dell’approvazione dell’organico intervento sulla riforma penitenziaria del 1986 – l’intervento più corposo tra i circa quindici che la riforma penitenziaria ha avuto in questi anni. Iniziava a diminuire quell’onda di pressione sulla materialità delle condizioni di detenzione e di distorsione dei significati della pena prodotta dagli anni della lotta armata, con il suo corollario di legislazione d’emergenza. Passava una fase, ma non le culture che essa aveva prodotto o consolidato: questo allora lo intuivamo, quando affermavamo che la legislazione dell’emergenza era il terreno di esercizio sperimentale di categorie, di strumenti di indagine, di prassi processuali e di previsioni normative che sarebbero stati successivamente esportati ad altri settori, ad altri problemi, a nuove emergenze; fino a diventare normalità e non più eccezione. (Oggi possiamo leggere gli sviluppi delle intuizioni di allora: gran parte dell’armamentario messo in campo per combattere la criminalità organizzata, dalla rilevanza della collaborazione, ai circuiti penitenziari, all’uso esteso del reato associativo, riprende ed estende mezzi e strumenti allora sperimentati. Soprattutto è in quegli anni che si è andata costruendo e consolidando la distorsione tendente a leggere il ruolo della magistratura come parte attiva nella lotta a un fenomeno e il processo come momento di tale lotta) .

L’approccio emergenziale e non ordinario ai problemi, l’affidamento crescente allo strumento penale di funzioni regolative di contraddizioni che non si è in grado di governare con gli strumenti di regolazione sociale e politica, l’insofferenza per le garanzie sono il sedimento, le scorie, lasciateci, accanto alla drammaticità degli eventi, da quegli anni.

Le statistiche ci dicono che allora i detenuti erano 42795, un picco in alto relativamente al periodo, che sarà superato solo negli anni Novanta; un dato comunque lontano dall’attuale che lo supera di questo il 30 percento. La linea di diminuzione che aveva caratterizzato dai primi anni Cinquanta i numeri del carcere, anche sulla base di interventi di indulgenza deflativa, aveva avuto una inversione di tendenza, un picco modale locale – come si suole dire – con aumenti dovuti al fenomeno della lotta armata e alle conseguenti norme, culture e prassi emergenziali. L’uso del reato associativo come cornice entro cui collocare condotte diverse, connesso con l’estensione dell’attribuzione di responsabilità ai singoli associati per fatti commessi dall’organizzazione, aveva prodotto una estensione enorme della custodia cautelare e, quindi, dei numeri della detenzione. Fortemente incidente sul numero dei presenti era, infatti, la quota di coloro che erano in attesa di sentenza definitiva, con una percentuale che superava il 68 percento.

La fisionomia della popolazione detenuta era diversa dall’attuale: forte la presenza di detenuti per reati commessi con motivazione riferibile a scelte ideologiche e politiche, scarsa la presenza di detenuti stranieri (3612 i presenti, pari a circa l’8 percento) molto scarsa l’incidenza della tossicodipendenza (i dati ufficiali per quest’area iniziano con il 1987); più alta di oggi la percentuale dei detenuti che scontavano pena basse, comprese tra 0 e 2 anni; superiore l’età media della popolazione. Quanto alla vita negli istituti, frequenti erano le situazioni aggregate, i ‘poli’, organizzati prima attorno ai detenuti politici e poi coinvolgenti anche la detenzione comune. Alle misure alternative, infine, erano assegnate 5706 persone.

Questa, quindi, la fotografia di quel periodo e il contesto di quelle analisi .

Gli anni del convegno erano, come già detto, quelli dell’intervento di riforma della riforma penitenziaria a circa dieci anni dalla sua approvazione. Era questo un intervento senz’altro determinato da molteplici fattori. Nella relazione introduttiva alla legge – presentata per iniziativa dei senatori della Sinistra indipendente nel 1983 e approvata, tre anni dopo da un Parlamento pressoché unanime – si fa riferimento al superamento di tre fattori che avevano impedito la piena attuazione della riforma del 1975: il mancato adeguamento delle strutture, sia edilizie sia di personale; l'esplosione della criminalità organizzata, terroristica e delle conseguenti leggi di emergenza; il sovraffollamento delle carceri.

Certamente all’origine della necessità di un nuovo intervento normativo c’erano le insufficienze di alcuni aspetti della riforma messe in luce dalla sua prima applicazione così come l’ambigua formulazione di alcune delle norme che aveva dato luogo a forme di forte differenziazione del regime detentivo, sulla base del titolo di reato e fin dal momento dell’arresto – mi riferisco, in particolare all’interpretazione dell’articolo 90 della legge e alla costituzione di istituti, sezioni o bracci a regime particolare. C’era inoltre la volontà di dare effettività alle misure alternative delineate e di dare una risposta a un movimento carcerario che rivelava soggettività e organizzazione.

 

La pena disuguale

 

Il provvedimento del 1986 si ispirava indubbiamente a principi di progresso, di emancipazione, prevedendo in questo spirito ampliamenti delle misure alternative. Tuttavia la sua impostazione e anche la sua lettera mostrarono da subito alcuni elementi di debolezza che potevano trasformarsi in elementi di ambiguità: alcuni giuristi segnalarono la sua oscillazione tra l’obiettivo del ‘riduzionismo’ carcerario e quello della ‘differenziazione’ del regime detentivo . Certo è che nella sua applicazione si sono ben presto aperte due vistose ‘crepe’ che hanno reso evidenti, accanto alle deformazioni nella sua attuazione, gli elementi di ambiguità già presenti nel testo della legge: la prima riguarda la produzione crescente di forme di differenziazione carceraria, la seconda l’avvio di una concezione negoziata della pena effettiva, concreta.

Un punto controverso di ambivalenza di questo intervento legislativo – e anche dei successivi – risiede, infatti, nella seconda delle tre motivazioni riportate nella relazione introduttiva e citate precedentemente: quella che individuava nella esplosione della criminalità organizzata, terroristica e comune, e delle conseguenti leggi di emergenza, un fattore di impedimento alla piena attuazione della riforma stessa. Questa motivazione adombrava la previsione di un sottoinsieme della popolazione carceraria per il quale era possibile derogare alle finalità complessive attribuite alla pena e alle modalità esecutive previste. Accanto a una migliore definizione e a un ampliamento delle forme alternative alla pena detentiva, accanto a una configurazione più operativa degli istituti per esse delineati, la legge continuava così a prefigurare un circuito di carcerazione differenziata: un nuovo articolo 14bis sostituiva il contestato articolo 90, ormai non più difendibile. Rimasto relativamente in quiescenza per diversi anni, l’articolo 14bis è diventato sempre più operativo nel periodo recente, all’interno dell’attuale tendenza a diversificare fortemente la detenzione, a limitare per categorie e circuiti le forme di accesso a possibili fattori di reinserimento sociale, a differenziare la quotidianità in carcere e finanche l’esercizio di diritti elementari. Il tutto sulla base non solo e non tanto dei comportamenti carcerari, quanto piuttosto della tipologia del reato di cui si risponde.

Sono aumentate oggi le classificazioni di tipo amministrativo e le relative restrizioni; classificazioni riprese e definite anche nel Regolamento di esecuzione approvato recentemente e che riguardano anche aspetti della vivibilità e del mantenimento dei rapporti familiari, quali i colloqui e le telefonate. Sono classificazioni che utilizzano nomi e sigle particolari, quali “alta sorveglianza”, in sigla AS, applicata agli appartenenti alle organizzazioni criminali, o “elevato indice di vigilanza cautelare”, EIVC, applicato agli appartenenti delle organizzazioni armate di più di vent’anni fa. Pensate per imporre un maggior rigore detentivo, queste classificazioni amministrative sono divenute diversità di regime normativo, quantunque non contemplate da alcuna legge; non solo, ma esse sfuggono alla possibilità di controllo, di verifica di criteri di trasparenza nella loro applicazione nonché alla possibilità di impugnazione del provvedimento di inserimento di un detenuto in una determinata categoria . A queste si affianca poi quanto normativamente previsto dall’articolo 41bis .

Il sistema delle diversità presenta quindi due classificazioni definite per norma, rispettivamente dall’articolo 14bis e 41bis; la prima con contenuti esplicitati nel testo della legge (articolo 14quater ), la seconda con contenuti non stabili, ma definiti provvisoriamente – e su essi gravano sia le sentenze della Corte costituzionale che ne chiede limiti in ampiezza e in compressione di diritti fondamentali, sia le indicazioni di raccomandazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) . Accanto a queste due classificazioni, si pongono le altre, precedentemente citate, che non sono definite per norma, ma che incidono consistentemente sulla quotidianità carceraria e sulla finalità dell’intervento punitivo per larghi settori della popolazione detenuta.

Occorre chiedersi allora perché si sia avvertito il bisogno di introdurre una ulteriore ‘scalettatura’ della pena di tipo qualitativo, oltre quella di tipo quantitativo, determinata dalla sua proporzionalità alla gravità del reato e dagli altri parametri che ne determinano la durata. A quale concezione di “pena” si riferisce questa diversificazione di qualità, di possibilità di accesso a forme alternative alla detenzione, di possibilità di effettivo recupero? La pena che si voleva “uguale”, “mite”, “utile” – almeno queste erano le ipotesi alla base degli interventi legislativi – finisce così per essere “diseguale” e, per la gran parte dei destinatari, “violenta” e “nociva”.

Non solo, ma lasciano, oggi, particolarmente inquieti, alcuni progetti che si vanno delineando per dare una definizione normativa a queste particolarità detentive introdotte amministrativamente: sono progetti che spesso non giungono ad approvazione ma che ugualmente finiscono lentamente col produrre un mutamento culturale tendente ad accettare la disuguaglianza come processo inevitabile anche se teoricamente non condiviso. Progetti di questo tipo sono stati presentati verso la fine della XIII Legislatura e successivamente accantonati per mancanza di tempi tecnici per la loro approvazione; tuttavia hanno gettato un seme, hanno aperto un varco in questa direzione. Mi riferisco, in particolare, alla proposta di dare una struttura stabile all’articolo 41bis, individuando due livelli di ‘specialità’ tendenzialmente rivolti a un vasto insieme di detenuti e in grado di costituire un polo di attrazione per una curvatura dell’intero sistema detentivo in termini repressivi: i contenuti della ‘specialità’ solo in parte sono volti a evitare i contatti con le organizzazioni di appartenenza o, all’interno degli Istituti penitenziari, i contatti tra organizzazioni criminali diverse, convergenti o conflittuali; per la gran parte si concretizzano in restrizioni nelle possibilità di contatto con i familiari, di accesso al trattamento penitenziario, di godimento di benefici minimi, oltre che in disposizioni strettamente vessatorie, formulate peraltro in modo tale da permettere le interpretazioni e le applicazioni più restrittive, fino a incidere sui diritti indisponibili della persona.

In sintesi, si è andato configurando, per via legale e per via amministrativa, e si continua a prospettare un modello di carcere fato di cerchi concentrici di riduzione progressiva dei benefici, dei diritti e dei detenuti e dei significati dell’azione punitiva; un modello che rischia di riservare le finalità espresse dalla legge a un insieme sempre più ristretto di persone: forse quasi coincidente con l’insieme di coloro che spesso si sostiene – giustamente – che non dovrebbero proprio essere ristretti in carcere. Il paradosso delle specialità si ottiene proprio quando la normalità si restringe all’insieme vuoto.

 

La pena negoziata

 

Ma, come sappiamo, anche per un altro aspetto la norma di allora ha condizionato il successivo dibattito: quello della previsione di una gamma di alternative alla detenzione che hanno dato corpo alla visione correzionale della pena – propria della formulazione dell’articolo 27 della Costituzione – ma che hanno anche aperto la via a forte aree di discrezionalità dell’amministrazione e della magistratura di sorveglianza; e che, proprio in quanto misure e non ‘pene’ alternative sono maggiormente soggette a problemi di consenso ed esposte alle mutevoli dinamiche dell’opinione pubblica.

Questo ha portato a configurare il complessivo assetto delle misure introdotte non più come tappe di un percorso tendente al reinserimento sociale, al graduale e sostenuto ritorno nel contesto esterno, quanto piuttosto come mere riduzioni dell’afflizione, ottenibili discrezionalmente sulla base di due parametri determinanti: l’adeguamento all’istituzione segregativa con l’omologazione ai comportamenti disegnati dalle sue regole; la possibilità di contare sulla rete di sostegno di un’adeguata assistenza legale.

Sono fattori già delineati da molti all’indomani dell’approvazione della riforma del 1986 – una riforma, sia chiaro, che pur abbiamo difeso negli anni successivi e che continueremo a difendere dai ripetuti attacchi che le vengono rivolti in nome della certezza e fissità della pena detentiva e dai tentativi, in parte riusciti, di smantellarne la struttura e la fisionomia. Sono fattori, tuttavia che si sono evidenziati in modo esplicito negli anni recenti, come risultato di alcuni mutamenti nel frattempo intervenuti: quello dei numeri della detenzione, quello della sua composizione sociale, quello della coesione dei detenuti all’interno degli Istituti penitenziari; quello dei rapporti numerici tra le figure professionali che operano nel sistema dell’esecuzione penale; quello, infine, delle culture formative degli operatori e dei magistrati di sorveglianza. I numeri sono cresciuti, la composizione sociale è andata sempre più connotandosi di marginalità estrema, la coesione si è andata dissolvendo in atomizzazione, tra gli operatori ha acquistato maggiore e quasi unica centralità la polizia penitenziaria; infine, le culture formative si sono sempre più ancorate a modelli di normalità timorosi e perbenistici.

La pena che si voleva modulata è divenuta sempre più una pena sostanzialmente negoziata.

E le capacità di negoziazione dei soggetti sono divenute determinanti nel disegnare una pena sostanzialmente diseguale. Sempre più, infatti, hanno assunto rilevanza per l’accesso alle forme alternative che la legge prevede non già gli elementi risultanti dalla osservazione, dalla valutazione del comportamento e – pur con le ambiguità insite in questo lessico – i progressi trattamentali, bensì la possibilità di fruire all’esterno di una rete protettiva di condizioni di vita che funzionano come elementi di rassicurazione per chi deve assumere la decisione. Il paradosso è che le alternative diventano progressivamente disegnate per i soggetti che comunque possono contare su una rete protettiva, mentre il carcere rimane duro e ineludibile per i soggetti socialmente deboli che più ne avrebbero necessità. Le condizioni di disparità sociale che troviamo spesso all’origine dell’esposizione al rischio di commissione di reati le ritroviamo anche come elemento per l’accesso o il rifiuto di ipotesi meno restrittive di pena.

La funzione rieducativa che affidano alla pena le posizioni più aperte e meno connotate da rigide e univoche attenzioni a problemi di prevenzione, generale e speciale, o a concezioni meramente retributive svela così tutta la sua debolezza. Perché l’accesso alle alternative è sempre meno l’esito di un percorso seguito e, quindi, il prodotto dell’assolvimento della funzione di rieducazione da parte del carcere; è piuttosto il risultato delle possibilità del singolo di contare su strutture proprie, esterne, su proprie appartenenze, che restano invariate – se non regredite – durante il periodo di pena.

Il magistrato di sorveglianza, peraltro esposto fortemente agli umori della cosiddetta opinione pubblica, è spesso interno a questa distorsione culturale.

Non solo, ma a questi esiti delle alternative si affianca la non conoscenza da parte del giudice di cognizione dei reali processi che si realizzano nell’esecuzione e la sua considerazione in astratto del possibile accesso a misure alternative: questo può spingere a maggiore disinvoltura nella determinazione della misura della sanzione – che si pensa sarà in seguito attenuata da qualche alternatività. Forse questa è una spiegazione dell’aumento delle pene medie, comprese tra i 3 e gli 8 anni, e del forte incremento del numero di detenuti pur in presenza di una larga gamma di misure alternative e di una larga estensione della loro applicazione; può forse aiutare a capire come un aumento dell’esecuzione penale esterna non abbia alcun riflesso sui numeri del carcere, realizzando soltanto una maggiore estensione complessiva dell’area dell’esecuzione penale.

Si è così delineato un sistema in cui le misure alternative sono disponibili solo per una parte, pur avendo effetti inflativi, di aumento della sanzione irrogata, per la totalità; anche cioè per coloro che non accederanno mai a esse.

 

La fisionomia attuale del carcere

 

Questo carcere disuguale e sempre più destinato alla marginalità sociale rappresenta il vero scenario diverso entro cui collocare oggi il discorso sulla pena; diverso rispetto a quello che faceva da sfondo alle riflessioni degli anni a cui mi sono riferito. Esso rappresenta l’esito di processi che allora già si andavano configurando e che hanno avuto una forte accelerazione con l’insorgere delle questioni che sono al centro della sua attuale configurazione: la politica proibizionista sulla droga, con l’ampio ricorso al penale e la previsione di alti massimi edittali; l’assenza di politiche di inclusione per gli immigrati, con l’ampliamento dei processi di clandestinizzazione e di contiguità con la criminalità; l’affermazione di una politica di tutela della sicurezza che individua nelle forme di microcriminalità urbana il fattore di maggiore pericolo e contribuisce a spostare su di esse – quasi solo su di esse – le richieste sociali di penalità .

Conosciamo bene l’aumento numerico che si è prodotto nell’ultimo decennio, dopo il consistente calo successivo agli anni che prima avevamo considerato e che, all’inizio degli anni Novanta, aveva portato a trentamila il numero dei detenuti presenti e a cinquemila quello di coloro che usufruivano di una misura alternativa (semiliberi o affidati o in detenzione domiciliare); così come conosciamo il dibattito che lo ha accompagnato e il pendolarismo normativo che ha contraddistinto questi anni.

Oggi i numeri ci consegnano una fotografia del carcere in Italia con circa cinquantaseimila detenuti , a seguito di un’espansione avvenuta a ritmi rapidi dopo il 1990 e circa trentamila persone afferenti alla cosiddetta area penale esterna: il sistema complessivo di controllo delle libertà si è dunque fortemente esteso, a causa di vari fattori, non da ultimo l’assenza di ogni provvedimento di controllo dei numeri con quegli strumenti seccamente deflativi che erano stati periodicamente attivati negli anni passati.

I dati sono in sintonia con quelli degli altri Paesi e, nella tipologia delle presenze, sono in sintonia con quelli dei Paesi a industrializzazione avanzata con aumento della ricchezza mobile, dei beni disponibili e dei reati predatori da un lato e con fenomeni di drastica riduzione di forme di tutela dei settori deboli della società e conseguente costruzione di fasce di profonda marginalizzazione; con la tendenza a delineare una tipologia di ‘figura normale’ assimilabile e inseribile nella società e a restringere nell’esclusione e nell’esposizione al reato, figure e comportamenti diversi per scelta o per status: possiamo esemplificare i primi con i tossicodipendenti, i secondi con gli immigrati. Oggi il carcere vede una presenza massiccia di detenuti che sono imputati o condannati per reati, più o meno piccoli, contro il patrimonio; vede un terzo della sua popolazione che è detenuta per reati a vario livello connessi con la tossicodipendenza e vede inoltre una presenza di immigrati che sfiora il 25 percento.

Anche questa composizione fa comprendere i limiti delle due tradizionali funzioni della pena, quella preventiva e quella rieducativa. Per i primi, infatti, il tasso di recidiva è altissimo e – come scrive Mosconi, nell’esaminare gli esiti delle varie funzioni attribuibili ai castighi legali – “questa iteratività della rieducazione assume i tratti di una ossessiva quanto improduttiva coazione a ripetere”; per i secondi la previsione di espulsione al termine dell’espiazione della pena rende palesemente ineffettuale ogni finalità di reinserimento sociale .

Le funzioni classicamente descritte e che nel passato sono state anche oggetto di aspri confronti, assumono sempre più la caratteristica di funzioni simboliche. Non solo, ma la funzione classista del carcere si rende ormai evidente anche a una sommaria analisi delle connotazioni sociali di chi lo abita.

Massimo Pavarini ha scritto in proposito nel volume sulla ‘Criminalità’ gli Annali della Storia di Italia,: “In una società diseguale, la pena realizza, all’estremo inferiore del continuum sociale, ciò che altre istituzioni realizzano nella zona media e superiore di esso, cioè differenziare lo status dei soggetti […] le norme del diritto penale non solo si applicano selettivamente, rispecchiando i rapporti diseguali esistenti, ma il sistema delle pene esercita anche una funzione attiva di produzione e riproduzione di disuguaglianza. L’applicazione selettiva delle pene legali, per la loro natura stigmatizzante nel processo di criminalizzazione, è un momento essenziale al mantenimento della scala verticale della società; incidendo infatti negativamente sugli status sociali degli individui, la sanzione penale agisce in modo da contrastare la mobilità sociale” .

Così l’attuale popolazione detenuta si presenta, anche a una rapida lettura, come prodotto di selezioni successive. Selezionata per aree geografiche – il carcere parla le lingue del Mediterraneo e dei Paesi dell’Est dell’Europa, perché questi insieme costituiscono quasi dodicimila presenze – ; selezionata per età, essendo sempre più una istituzione destinata al disciplinamento di soggetti giovani (si incrementa la fascia tra i 21 e i 30 anni, che costituisce il 49.2 percento del totale, mentre costituiva meno del 35 percento nel 1984); selezionata per status occupazionale, perché meno del 15 percento degli attuali detenuti aveva una occupazione definita e stabile al momento dell’ingresso; selezionata per istruzione, avendo poco più dell’8 percento un titolo di studio superiore all’obbligo e ben il 14 percento non avendo completato la scuola elementare (pur in una popolazione di indagine che considera soltanto i detenuti italiani); selezionata per sesso, come forma di disciplinamento e castigo prevalentemente rivolta ai maschi; selezionata per tipologie di comportamenti e di vita, essendo altissima l’incidenza delle norme proibizioniste in tale selettività.

Il percorso tra norma e devianza tende a essere invertito: la devianza, e il reato, non sono più definibili come trasgressione alla norma predeterminata e codificata a tutela di un bene giuridico. Al contrario, è l’autore temuto, il comportamento non accettato, individuato come pericoloso, a essere in primo luogo enucleato, estrapolato dal contesto e a definire il perimetro della devianza: la norma è codificata come elemento di risulta, per espungere il comportamento pericoloso. E’ qui che si inserisce il problema delle culture che aggregano il nostro sistema sociale: una società opulenta e timorosa, con pochi valori condivisi, con la riduzione dei luoghi di costruzione del legame sociale, tende a pre-individuare sfere di devianza cioè di comportamenti non omologabili – e come tali temuti – e a codificarli. In tal modo le norme sono già costruite, modellate su tali comportamenti e il problema della pena tende a diventare il problema della gestione e del controllo dei comportamenti non omologabili.

Non solo, ma in questi anni il modello segregativo – la limitazione della libertà personale – non soltanto si è esteso e si è tipizzato in modo selettivo, ma è stato anche esportato per affrontare altri problemi, altre contraddizioni non governabili altrimenti; in primo luogo prevedendo forme di privazione della libertà per i soggetti in attesa di espulsione.

 

L’Europa della segregazione

 

Il problema dell’estensione, della tipizzazione e dell’esportazione del paradigma della reclusione non riguarda soltanto l’Italia, ma per limitarci al nostro vicinato geografico tutta l’Europa. L’Europa dei 41 Paesi – tra i 43 membri del Consiglio d’Europa – che hanno firmato la Convenzione per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti del 1987 si presenta oggi con quasi 2 milioni di persone detenute e con una grande estensione delle forme di privazione della libertà. Il Comitato preposto alla tutela di quanto sancito dalla Convenzione ha dovuto così estendere la propria attenzione a varie forme di segregazione: dalle tradizionali prigioni e dalle stazioni di polizia, alla detenzione di civili in luoghi non classificati come istituti detentivi o in sedi militari, ai centri di accoglienza e trattenimento per immigrati, ai luoghi di accudimento coattivo dei bambini di strada, alle social homes di ricovero e controllo dei senza fissa dimora, ai ricoveri coatti negli ospedali psichiatrici. E – tempo addietro – il questore di Roma ha proposto la creazione di un centro di accoglienza coattivo nei commissariati per trattenere minori rom che non è possibile arrestare.

Questi numeri e questa estensione rendono piuttosto inadeguate le discussioni sulla funzione della pena; soprattutto mostrano il fallimento di ciascuna delle ipotesi teoriche a cui la pena carceraria è stata via via ancorata.

Di più, i numeri del sovraffollamento – anch’esso in espansione in tutta Europa e con forme di allineamento rapido al trend generale da parte dei Paesi che avevano percentuali minori – con le conseguenti tensioni che determinano in chi nel carcere vive e in chi nel carcere lavora, le connotazioni individuali e sociali dei soggetti ristretti che presentano caratteristiche del tutto non corrispondenti alle capacità proprie delle figure professionali disegnate su un’altra tipologia detentiva, l’affidamento non responsabile al carcere da parte di una società non più abitata dalle forme di mediazione e di indirizzo proprie della politica sono i fattori determinanti di una progressivo spostamento dei problemi all’interno degli Istituti di detenzione e delle conseguenti necessità di attenzione. E’ lo spostamento dagli obiettivi e dalle finalità della pena alla scrupolosa salvaguardia della non aggressione dei diritti fondamentali della persona: per il nostro sistema costituzionale, è lo spostamento, all’interno del terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, dall’affermazione del loro tendere alla rieducazione all’imperativo che esse non consistano in trattamenti contrari al senso di umanità. Questo obiettivo – che un tempo avremmo giudicato minimo – finisce per essere la soglia su cui attualmente attestarsi.

Per l’Italia, gli episodi avvenuti nel carcere San Sebastiano di Sassari , poco più di un anno fa, che a breve giungeranno al pubblico dibattimento con un gran numero di operatori e responsabili rinviati a giudizio, sono un segnale eloquente di quanto sia attuale la questione della tutela dei diritti minimi, la soglia non valicabile dell’intervento punitivo. E lo è anche l’estensione dell’area della malattia all’interno del carcere europeo – basti pensare che in Italia nello scorso anno i casi di tubercolosi in carcere sono stati duecentocinquanta e che soltanto sette o otto anni fa il loro numero era pressoché nullo – e la consistente area di non accesso alle cure da parte dei soggetti più deboli nel già marginale mondo carcerario.

E’ così che in un contesto di grande trasformazione e progresso, l’Europa deve tuttora interrogarsi – o tornare a interrogarsi – su principi elementari: sulla propria capacità di tutelare i diritti fondamentali e sull’esistenza di forme di tortura – a volte di effettiva tortura, altre volte di forme improprie, ma non meno gravi – e di trattamenti degradanti e inumani. E’ stato Antonio Cassese, primo presidente del CPT a darne una definizione: “ogni forma di coercizione o violenza, psichica o fisica, contro una persona per estorcere una confessione, una informazione o per umiliarla, punirla o intimidirla” E, più avanti “ le situazioni inumane e degradanti sono il risultato di tante azioni e circostanze: spesso esse costituiscono la concrezione dei comportamenti più svariati di numerose persone […] Spesso sono oggettivamente contrari al senso di umanità, senza che si possa necessariamente discernere un’intenzione malvagia in chi li infligge” . L’Europa moderna deve così interrogarsi sulla sua pre-modernità.

Il pharmacon della pena, a cui spesso si accenna per la connotazione ambivalente di veleno e di cura, si sposta solo su una polarità, quella del veleno e la pena stessa non si ancora più ad alcuna funzione che non sia quella simbolica: della esemplarità – una penitenza più che una pena – e della mera rassicurazione sociale.

Del resto la commissione per la stesura della Carta europea dei diritti non è riuscita a convergere su una finalità comune della pena – strumento ampiamente impiegato dai quindici Paesi dell’Unione – e ha indicato soltanto il limite della sua non sproporzionalità con il reato commesso: nessun altro riferimento a finalità di qualsiasi tipo .

 

Si può difendere il carcere?

 

Ritornano allora alcune domande che Thomas Mathiesen poneva molti anni addietro, seguendo le proprie ipotesi abolizioniste: si può difendere il carcere? “Si può difendere un tempo carcerario vissuto – cito Mathiesen – come tempo dell’impotenza sperimentata nell’impossibilità del fare, nel vuoto, come tempo della degradazione dove diritti minimi devono essere negoziati e regrediti a concessioni, come tempo dell’insicurezza perché regolato spesso da discrezionalità indecifrabili?”

Soprattutto si può difendere la sua centralità? Non già il ricorso a esso come estrema soluzione, come strumento a cui ricorrere sulla base di esigenze gravi o del fallimento di altre strade, bensì come pena centrale attorno a cui scalettare alternative, varianti che tuttavia ne riaffermano la centralità proprio perché sono ‘alternative’ a qualcosa che comunque costituisce l’asse portante del sistema delle punizioni?

Non si tratta, infatti, di fare a meno del carcere come operazione volontaristica o come chiusura degli occhi di fronte a problemi di consenso sociale, quanto piuttosto di ancorare la sanzione a una qualche percorribile funzione, stante il fallimento sia delle ipotesi preventive, sia di quelle retributive, sia di quelle correzionali.

Togliere la centralità al carcere e ricondurlo a una delle alternative possibili, la più estrema, la più costosa, quella che richiede più impegno e attenzione è un asse di un programma di minimizzazione dell’intervento penale: il problema penale e il problema penitenziario non possono, infatti, essere considerati in modo disgiunto.

Questa ipotesi è solo parzialmente perseguibile con operazioni codicistiche perché rimanda all’esigenza più forte di una ripensamento globale della politica criminale: come taluni hanno detto, di uno sforzo ‘massimo’ di una politica criminale che faccia un ricorso minimo alla pena detentiva. Questo può essere un credibile modo per coniugare oggi quell’esigenza di liberarsi della necessità del carcere a cui facevamo riferimento molti anni fa.

Luciano Eusebi ha osservato in termini condivisibili che le vere esigenze che la collettività ha di fronte ai reati non sono minimamente toccate dalla pena detentiva. Esse possono essere riassunte in questi aspetti: il primo è la chiarificazione di responsabilità, di una lettura storica degli eventi, essendo questa la prima richiesta della vittima; il secondo è il depotenziamento dei vantaggi che possono venire all’autore dalla commissione del reato, che, in sintesi, non deve essere pagante; il terzo è l’incidenza effettiva sul futuro dell’autore in termini di consapevolezza, di mutamento del suo percorso, esigenza ben diversa dalla cosiddetta “pena certa”; il quarto è l’affermazione della negatività del fatto, del suo non dover essere accaduto.

Questi parametri portano a individuare una possibile incidenza della pena nella costruzione di senso sociale e di modelli sociali condivisi. Ora invece la centralità carceraria porta a individuare soltanto un parametro di riferimento, quello della entità del tempo di segregazione. E questo parametro finisce per essere l’unico disponibile, quello attraverso il quale diamo rilevanza ai beni giuridici tutelati e affermiamo importanza e centralità a ciò che vogliamo sia riconosciuto come bene da difendere, come valore da affermare.

Porre l’equazione secca tra il tempo segregato in seguito all’aggressione di un bene giuridico e la rilevanza del bene stesso è un’operazione di dis-educazione sociale, di disgregazione delle forme e dei luoghi di costruzione di responsabilità, oltre che un produttore di diritto penale massimo.

La necessità di spezzare questa impostazione deve essere chiara nel discutere di “diritto penale minimo”; soprattutto se ne discutiamo avendo come obiettivo la volontà di incidere realmente sulla concretezza del carcere attuale, sulla fotografia dell’efficacia del sistema penale che il carcere ci consegna. L’obiettivo di incidere su quel complesso di norme che nel concreto producono oggi carcerazione.

Diversi possono infatti essere i punti di vista, i filtri attraverso cui consideriamo un progetto di minimizzazione dell’ambito del penale e diverse sono, conseguentemente gli stessi significati che attribuiamo all’espressione “diritto penale minimo” da noi utilizzata: solo così del resto si spiegano le diversità di senso che nella pratica si celano dietro questa affermazione che genera troppo spesso un consenso meramente formale.

Occorre chiarire quale riferimento valutativo debba avere lo stesso criterio di minimizzazione: un criterio di riduzione del numero assoluto dei reati, indipendentemente dalla loro attuale incidenza o quello di riduzione dei reati che nel concreto oggi producono carcerazione; un criterio di diminuzione del numero dei procedimenti o quello di diminuzione del rischio penale per comportamenti connotati da ‘diversità’ ma non da specifica aggressività a beni giuridici rilevanti.

Sono differenze su cui avviare un confronto. Infatti la riduzione del numero dei reati, considerati in astratto e indipendentemente dalla loro reale incidenza nel sistema concreto delle punizioni è operazione necessaria e doverosa perché corrisponde alla necessità di recuperare una connotazione propria allo strumento penale. Tuttavia se non si misura con il problema del diritto penale dell’esecuzione rischia di essere operazione puramente formale. Il diritto penale dell’esecuzione colpisce, infatti, prevalentemente autori-vittime, autori di reato perché vittime di politiche marginalizzanti o criminogene. E’ questo il ‘nocciolo duro’ del diritto penale che non è realisticamente coinvolto da politiche di depenalizzazione dei reati minori se non si interviene su alcuni nodi ‘esterni’, su quelle leggi che manifestano empiricamente la sua effettività: in primo luogo la legge sugli stupefacenti, in secondo la politica verso l’immigrazione. Altrimenti gli effetti di un’operazione di riduzione sono soltanto formali, come quelli della più recente legge di depenalizzazione che non ha toccato minimamente il diritto penale del carcere.

Il criterio di minimizzazione da assumere è allora quello della riduzione del numero non solo dei reati in astratto, ma di quelli che, nel concreto, sono produttori del progressivo aumento del ricorso al carcere; e tale criterio può essere seguito solo supponendo l’esistenza di un sistema efficiente extra-penale, che ne riduca la domanda sociale.

Di qui le ipotesi di previsione di altre forme di risoluzione dei conflitti. Di qui anche l’ipotesi di previsione di altre forme di pena già nel codice e riferite a reati non marginali; e soprattutto la necessità di drastica riduzione dei massimi edittali delle pene detentive che residuerebbero, a cominciare dall’abolizione dell’ergastolo: pena quest’ultima che ancora qualora risultasse poco più che simbolica – e così non è – non cesserebbe di avere effetti di innalzamento di tutte le pene temporanee.

L’elaborazione in questa direzione è stata finora molto stentata: pochi sono gli esempi proposti e marginali i reati considerati, né sono del tutto convincenti le soluzioni adottate nello stesso progetto di riforma del codice penale, elaborato dalla Commissione presieduta da Carlo Federico Grosso che, pur all’interno di diverse scelte condivisibili e di una complessiva fisionomia di previsione di pene diverse da quella detentiva, affida molto alla detenzione domiciliare, uno degli strumenti maggiormente connotati dal perpetuarsi delle disuguaglianze.

Forse, credo, il limite maggiore dell’elaborazione fin qui sviluppata risiede nel non averla organicamente inserita nella costruzione di un diversa cultura, di una diversa politica sociale e, conseguentemente, di una diversa politica criminale.

“Liberarsi dalla necessità del carcere” resta così come indicazione di un percorso da seguire e anche di una fantasia collettiva da sviluppare per costruire modelli meno reclusivi e segregativi del vivere sociale e non restringersi all’idea dell’ineluttabilità del carcere.

 

 

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