L'espulsione dello straniero

 

L’espulsione dello straniero socialmente pericoloso

di Claudio Silvis

 

L’ espulsione del cittadino extracomunitario come misura di prevenzione

 

L’art. 13, comma 2, del D.L.gs 25/7/1998 n. 286 (Testo unico delle disposizioni in materia di immigrazione e di condizione giuridica dello straniero) consente (o meglio, impone) al prefetto di espellere dal territorio nazionale il cittadino straniero in relazione a tre diverse tipologie di motivi e, cioè, quando l’extracomunitario:

é entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non é stato respinto ai sensi dell’art. 10;

si é trattenuto nel territorio dello Stato senza aver chiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore, ovvero quando il permesso di soggiorno é stato revocato o annullato, ovvero é scaduto da più di sessanta giorni e non é stato chiesto il rinnovo;

appartiene a taluna delle categorie indicate nell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituto dall’art. 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, o nell’art. 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall’art. 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646.

Mentre l’espulsione adottata per i motivi di cui sub a) e b) non si qualifica tecnicamente coma una misura di prevenzione - in quanto la sua finalità non è evitare un pregiudizio alla sicurezza pubblica in senso stretto, ma consentire allo Stato di estromettere dal proprio territorio coloro che non posseggono i previsti requisiti per entrarvi e/o trattenervisi - l’espulsione di cui sub c) è un’autentica misura di prevenzione personale ante delictum, che si aggiunge a quelle previste dall’art. 2 e seguenti della legge 28/12/1956 n. 1423.

Difatti, la suddetta lettera c), rinviando all’art. 1 della L.1423/56, identifica i presupposti per espellere lo straniero con quelli necessari ad applicare, in via generale, qualunque misura di prevenzione personale prevista dal nostro ordinamento (fatte salve quelle cc.dd. atipiche).

 

L’art. 1 della legge 1423/1956

 

Ai sensi dell’art. 1 L.1423/56 "i provvedimenti previsti dalla presente legge si applicano a:

1) coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi;

2) coloro che, per la condotta ed il tenore di vita, debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;

3) coloro che, per il loro comportamento, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica".

Dato comune alle tre ipotesi è che la pericolosità soggettiva che autorizza ad applicare le misure di prevenzione contemplate agli articoli successivi deve discendere da un giudizio che tenga conto di "elementi di fatto" che siano manifestazione di un comportamento umano tale da far presumere che l’individuo è "abitualmente dedito a traffici delittuosi", "viva abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose" o è "dedito alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni ecc...".

La compressione dei diritti di libertà comportata dall’irrogazione delle misure di prevenzione personali, pertanto, è giustificata solo se è possibile ritenere che il destinatario sia proclive al reato alla luce di un suo modus vivendi che si sia storicamente manifestato attraverso una pluralità di comportamenti oggettivamente verificabili ed apprezzabili.

La norma, come si vede, pone consistenti vincoli all’organo che deve giudicare della pericolosità di un soggetto onde stabilire se applicare o meno allo stesso una misura di prevenzione ante delictum.

D’altronde, occorre sottolineare come gli spazi liberi che la norma lascia all’apprezzamento dell’autorità cui spetta applicare le misure in parola non possono qualificarsi come l’attribuzione all’organo competente di un corrispondente margine di discrezionalità amministrativa in senso tecnico-giuridico; infatti, manca qui il connotato fondamentale della discrezionalità amministrativa, ossia la necessità per la P.A. di compiere una valutazione ponderale dei vari interessi in gioco (pubblici e privati) al fine di prescegliere la soluzione che realizzi il migliore assetto dei medesimi. Gli spiragli liberi lasciati dalla norma postulano, invece, una mera attività logica ed assiologia di inquadramento di date situazioni concrete nell’ambito di uno schema legale generale ed astratto e comportano, pertanto, una discrezionalità in senso solamente generico e tecnico che si fonda sull’elaborazione di dati e di concetti aventi significato comune e che, soprattutto, non è finalizzata a riempire un vuoto appositamente lasciato dal legislatore per quanto riguarda l’assetto da dare agli interessi in campo.

La determinazione amministrativa riguardante l’appartenenza del soggetto alle categorie di persone previste all’art. 1 L.1423/56, quindi, poiché non propriamente discrezionale, ben può essere assoggettata al pieno controllo di correttezza da parte del giudice della legittimità, senza che questi incorra nelle note limitazioni impostegli dalla c.d. riserva di amministrazione.

Per completezza, va invece precisato che il momento discrezionale (in senso proprio) si realizza in una fase successiva a quella della predetta sussunzione logico-giuridica, ossia quando l’autorità competente deve valutare e stabilire se, malgrado l’accertata appartenenza di un soggetto ad una delle categorie di persone indicate all’art. 1 L.1423/56, costui sia o meno concretamente pericoloso per la sicurezza pubblica e sia opportuno sottoporlo o meno ad una misura di prevenzione (vedansi, in tal senso, l’art. 2 e ss. della L.1423/56).

 

Lo straniero socialmente pericoloso

 

Opportunamente chiariti gli esatti contenuti dell’art. 1 L.1423/56 e le relative implicazioni, riprendiamo ad occuparci della tematica di peculiare interesse.

Secondo la lett. c) dell’art. 13 co.2 del T.U.Imm., dunque, i cittadini extracomunitari possono essere espulsi dallo Stato quando siano ritenuti pericolosi per la pubblica sicurezza in quanto rientranti in una delle tre categorie di persone indicate all’art. 1 della L.1423/56.

La Corte di Cassazione - supremo "giudice naturale" in materia di espulsioni previste all’art. 13, co.2, del D.L.gs. 286/1998 - con una mirabile sentenza, la n. 12721 del 30 agosto 2002, è intervenuta a precisare i limiti concreti posti dall’art. 1 L.1423/56 alla "discrezionalità" dell’autorità amministrativa nel valutare pericoloso il cittadino straniero.

Enucleando dalla predetta norma i parametri indispensabili alla legittima applicazione dell’espulsione-misura di prevenzione, il supremo Collegio ha statuito quanto segue:

"Devono, in particolare, tenersi presenti i criteri: a) della necessità di un accertamento oggettivo e non meramente soggettivo degli elementi che giustificano sospetti e presunzioni; b) del requisito dell’attualità della pericolosità; c) della necessità di esaminare globalmente l’intera personalità del soggetto, quale risulta da tutte le manifestazioni sociali della sua vita." (sentenza citata).

La pronuncia è encomiabile, soprattutto se la si raffronta alla vaghezza ambigua e sfuggente che caratterizza la dominante giurisprudenza amministrativa formatasi intorno al significato e ai limiti delle fattispecie di pericolosità soggettiva contemplate all’art.1 L.1423/56.

La Corte, interpretando col dovuto rigore filologico e giuridico-sistematico tale norma, esattamente vincola il potere del prefetto di espellere lo straniero per motivi di sicurezza pubblica alla ricorrenza di condizioni particolarmente severe e qualificate da cui desumere la pericolosità dell’espellendo.

La sentenza, soprattutto dove statuisce la necessità che il giudizio di pericolosità del soggetto derivi da "...un esame globale dell’intera personalità, quale risulta da tutte le manifestazioni sociali della sua vita", àncora la valutazione dell’Amministrazione sulla pericolosità soggettiva all’esistenza di condizioni giustamente rigorose, senza trincerarsi - come invece fanno abitualmente i giudici amministrativi - dietro il comodo (ed inappropriato) paravento dell’insindacabilità giurisdizionale delle scelte discrezionali dell’autorità di polizia.

I "paletti" imposti dalla S.C. rappresentano un solido argine contro il disinvolto uso del concetto di pericolosità sociale grazie al quale vengono giustificati provvedimenti gravemente pregiudizievoli ai cittadini stranieri e che appaiono di dubbia conformità al vigente diritto, nonché iniquamente gravosi in rapporto alla obiettiva esigenza di tutela dell’interesse pubblico che essi affermano di perseguire.

 

La prassi elusiva dell’iter delineato dal T.U. Imm. per espellere lo straniero pericoloso e la conseguente sottrazione al giudice ordinario del controllo sulla valutazione di pericolosità

 

Sta di fatto, però, che gli uffici giudiziari competenti a conoscere ex lege dei provvedimenti di espulsione dei quali si discorre hanno finora avuto ben poche occasioni di applicare i principi enunciati dalla Corte.

L’istituto dell’espulsione-misura di prevenzione, infatti, ha sin qui ricevuto una scarsa applicazione pratica e questo non perché l’Amministrazione abbia solo di rado modo di ritenere pericolosi i cittadini stranieri, ma perché la stessa, già in epoca anteriore alla pronuncia della Corte, ha seguito un percorso "alternativo" per realizzare l’allontanamento dello straniero pericoloso dal territorio nazionale, percorso che, di fatto, ha determinato una traslazione in capo ai giudici amministrativi del controllo sui presupposti sostanziali della misura di prevenzione de qua, sottraendo il controllo stesso ai giudici ordinari e, per quanto più interessa in ultima analisi, proprio a quel Collegio giudicante che ha fissato i mirabili principi garantistici enunciati nella predetta sentenza.

In pratica, accade che l’extracomunitario ritenuto pericoloso per la pubblica sicurezza si veda revocare dal questore il permesso di soggiorno con questa motivazione: che la sua sopravvenuta pericolosità sociale, in quanto costituisce un fatto che giustifica il suo allontanamento dal territorio nazionale ai sensi della lett.c) dell’art. 13 co.2, fa venire meno un requisito essenziale perché egli possa continuare a soggiornare in Italia, realizzando, così, la situazione prevista all’art. 5 comma 5 del T.U.Imm. per procedere alla revoca dei permessi di soggiorno.

Revocato il permesso di soggiorno, l’extracomunitario viene quindi espulso in applicazione della lett. b) e non già della lett. c) dell’art. 13 co.2 T.U. Imm.

Sennonché, il cittadino straniero è costretto, da un canto, ad investire il T.a.r. della verifica giurisdizionale sull’apprezzamento amministrativo di pericolosità che ha motivato la revoca del proprio permesso di soggiorno e, dall’altro, a rivolgersi al giudice ordinario affinché accerti la correttezza di un’espulsione che, però, si presenta praticamente inoppugnabile nei suoi presupposti di legittimazione in quanto motivata non dalla pericolosità sociale, ma dal puro e semplice fatto oggettivo e vincolante dato dall’avvenuta revoca del permesso di soggiorno.

In questo modo, dunque, si finisce, di fatto, per conculcare all’extracomunitario la possibilità di chiedere al giudice ordinario - con l’inevitabile condizionamento benefico che sul medesimo eserciterebbero i principi di diritto stabiliti dal giudice superiore - quella verifica che, secondo l’art. 13 co.8 del T.U. Imm., potrebbe essere domandata a tale organo se il provvedimento di espulsione fosse adottato per i motivi che, invece, sono posti a base del provvedimento di revoca del permesso di soggiorno.

 

Due significativi esempi di come i giudici amministrativi esercitano il controllo di correttezza della valutazione amministrativa sulla pericolosità sociale dello straniero

 

Adìto il giudice amministrativo, il cittadino extracomunitario cui è stato revocato il permesso di soggiorno perché ritenuto pericoloso si sente spesso rispondere in questi termini: "Il ricorso è infondato e deve essere respinto. Il Collegio considera che, ai sensi dell’art. 5, comma 5 del D.Lgs.25 luglio 1998 n. 286 - secondo cui il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso è stato rilasciato, esso è revocato quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso ed il soggiorno nel territorio dello Stato (...) - , per la valutazione di tali requisiti occorre far riferimento alle disposizioni contenute nel successivo art. 13, comma 2, laddove si contemplano i presupposti affinché l’autorità prefettizia disponga l’espulsione dal territorio dello Stato e, segnatamente, nella lettera c), che menziona gli appartenenti a talune categorie indicate nell’art. 1 della L.27/12/1956 n. 1423 (...). Nella fattispecie, dalla documentazione in atti si evince che il ricorrente è stato condannato (con sentenza patteggiata ex art. 444 c.p.p.) alla pena di nove mesi di reclusione e £ 400.000 di multa per il reato di cui (...). Ne deriva che legittimamente l’Amministrazione della P.S. ha ritenuto il medesimo persona pericolosa, ai sensi dell’art. 1 n. 3 cit. L.1423/1956 (...) e, conseguentemente, ha disposto la revoca del permesso di soggiorno di cui era titolare (...)" (T.A.R. Marche, 4 febbraio 2003 n.36).

La trascritta sentenza amministrativa è un esempio tutt’altro che raro del modo in cui i tribunali amministrativi regionali sono soliti affrontare e risolvere la particolare fattispecie all’esame.

Le ragioni con cui la decisione del Ta.r. marchigiano viene giustificata autorizzano ad affermare che il caso di specie, ove fosse stato giudicato alla luce dei canoni fissati con la sentenza n. 12721/02 della Corte di cassazione, sarebbe stato deciso in modo opposto.

Invero, il provvedimento confermato dal T.a.r. (emblematico di un diffuso modus operandi degli uffici questorili) non potrebbe certamente sottrarsi a censura ove fosse valutato secondo i detti canoni.

Del resto, e come si è notato in precedenza, anche il semplice dato testuale contenuto nell’art.1 della L.1423/56 conduce a rilevare che il caso di specie avrebbe meritato ben altra considerazione e sorte, visto che la norma ora citata non consente obiettivamente di ritenere pericoloso un soggetto che abbia riportato un’unica condanna penale, ma postula che la pericolosità individuale possa ravvisarsi solo se, a carico del prevenendo, sussistano tali e tanti elementi concreti da farlo ritenere "dedito" alla commissione dei reati indicati dalla norma stessa, ossia incline ad una sistematica o quanto meno frequente commissione di quegli illeciti.

Oltretutto, è impossibile non stigmatizzare che, quando una condanna penale viene ritenuta dalla P.A. elemento ex se qualificante della pericolosità ed è stata inflitta con una sentenza patteggiata emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., il giudizio di pericolosità del condannato si prospetta arbitrario in re ipsa; difatti, la sentenza patteggiata prescinde dell’accertamento giudiziale di colpevolezza del condannato e la pericolosità di costui potrebbe essere affermata solo in relazione ad altri elementi concreti ed esplicitati che lo facciano ugualmente ritenere responsabile per il reato ascrittogli.

Né miglior destino è toccato al cittadino extracomunitario che si è visto respingere, dal T.a.r. del Veneto, il ricorso per i seguenti motivi: "Tra i requisiti che uno straniero deve possedere per ottenere e mantenere un permesso di soggiorno va annoverato, oltre a quelli ben noti dell’attività lavorativa e dell’alloggio, quello di tenere una condotta corretta. (...). Invero, ai sensi dell’art. 5 comma 5, del d.lg. 25 luglio 1998, n. 286, il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato.

Tra gli elementi ostativi al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno, ovvero tali da giustificare la sua revoca, vi è la cosiddetta pericolosità sociale, prevista dall’art. 13 comma 2, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, laddove si contemplano i presupposti affinché l’autorità prefettizia disponga l’espulsione dal territorio dello Stato e, segnatamente, nella lett. c), che menziona gli appartenenti a taluna delle categorie indicate nell’art. 1, della legge 27 dicembre 1956 n. 1423 (....).

A sua volta il giudizio di pericolosità sociale, riferisce il suo momento giustificativo a comportamenti o situazioni non ancora concretizzati in fatti o circostanze tali da rappresentare addebiti più puntuali e specifici, ed ha, quindi, riferimento ad una valutazione indiziaria fondata su circostanze di portata generale e di significato tendenziale e su contesti significativi nel loro complesso.

Va quindi tenuto presente come il giudizio di pericolosità sociale abbia contenuto meramente prognostico ovvero probabilistico, e non implica quindi un accertamento già intervenuto in sede penale, o meglio, ne può prescindere (...).

In sostanza, qualora vi siano elementi di fatto, anche se concretatisi in un singolo episodio, sufficienti a generare un notevole allarme sociale, il giudizio di pericolosità deve ritenersi giustificato, anche tenendo presente che si tratta comunque di attività discrezionale della pubblica amministrazione, sindacabile unicamente in caso di illogicità, di carenza di presupposti, o di manifesta incongruità.

Per le stesse ragioni fin qui indicate i giudizi espressi in sede penale, ivi compresi quelli relativi alla concessione di alcuni benefici, quale gli arresti domiciliari, la condizionale o simili, non hanno rilievo diretto nel giudizio di pericolosità formulato ai fini del diniego di rilascio del permesso di soggiorno, che presenta diversi presupposti e parametri di valutazione.

Riassumendo, il riscontro va condotto sulla base dei seguenti criteri: a) necessità di un accertamento oggettivo e non meramente soggettivo degli elementi che giustificano sospetti e presunzioni; b) attualità della pericolosità; c) necessità di esaminare globalmente l’intera personalità del soggetto quale risulta da tutte le manifestazioni sociali della sua vita; d) insindacabilità dei giudizi discrezionali dell’amministrazione, se non per macroscopiche illogicità; e) indipendenza dai giudizi penali, ma possibilità di tener conto dei fatti emersi in detti giudizi.

Venendo al caso in esame, la pericolosità sociale del ricorrente viene desunta da una condanna a quattro anni di reclusione per tentato omicidio. Si tratta a tutta evidenza di un episodio il quale, per la sua gravità, al di là degli accertamenti svolti in sede penale, può ragionevolmente sorreggere il giudizio di pericolosità sociale.". (T.A.R. Veneto, III^ Sez., Sent. n. 2110/03)

Qui l’intelaiatura del ragionamento svolto dal giudice presenta incoerenze di tale enormità da qualificare addirittura il provvedimento decisorio come "suicida".

Per un verso, il T.a.r. fa proprio il criterio della necessità di valutare la pericolosità del soggetto "quale risulta da tutte le manifestazioni della sua vita" stabilito dalla Suprema Corte nella citata sentenza; per altro verso, lo stesso collegio disattende clamorosamente il criterio affermando che la condanna a quattro anni di reclusione riportata dal ricorrente per tentato omicidio, nonostante sia l’unico fatto per cui lo straniero è stato ritenuto socialmente pericoloso dall’autorità di P.S., costituisce un episodio che, per la sua gravità, può ragionevolmente sorreggere il giudizio di pericolosità, e ciò a prescindere da qualunque valutazione che di tale pericolosità abbia potuto dare il giudice penale (il quale, nel caso di specie, aveva applicato una pena sostitutiva della detenzione carceraria del condannato proprio in considerazione della sua non pericolosità sociale).

Desta poi sconcerto il fatto che il giudice amministrativo veneto, pur ricordando correttamente come la valutazione dell’autorità di P.S. sulla pericolosità sociale degli stranieri possa prescindere da ogni corrispondente valutazione compiuta dal giudice penale, tralascia di considerare che l’apprezzamento sulla pericolosità compiuto dell’autorità di P.S., benché possa essere difforme da quello del giudice penale, va comunque motivato - se difforme - con riferimento a circostanze e considerazioni specifiche in base alle quali il soggetto è considerato pericoloso malgrado la prognosi in senso opposto fatta dal giudice penale.

E, a questo proposito, va rimarcato come sia abitudine corrente per l’Amministrazione della P.S. il non dare alcuna contezza di simili circostanze e considerazioni specifiche nel contesto di provvedimenti sfavorevoli assunti a carico dei cittadini extracomunitari (e non) ritenuti pericolosi per il solo fatto di essere stati condannati per un qualche delitto o di essere stati anche soltanto denunciati.

 

L’ illegittimità della prassi elusiva

 

Se si tiene conto che le riportate decisioni giurisdizionali sono meramente paradigmatiche del modo in cui i casi in esame vengono giudicati, si comprende come l’illustrata prassi seguita dalla P.A., eludendo l’iter tracciato dal T.U. Imm. per addivenire all’espulsione dello straniero pericoloso, finisca per sottrarre al giudice ordinario - id est al possibile controllo finale della Corte di cassazione - la cognizione sulla pericolosità di tale soggetto; ed appare non meno evidente come l’acritico avallo della prassi medesima ad opera dei giudici amministrativi stia producendo il consolidarsi di un modo di agire dell’Amministrazione la cui rispondenza al diritto sarebbe certamente disconosciuta secondo i canoni fissati dalla Corte (ovviamente a patto di dare loro una corretta applicazione).

Il che - mi sembra - dovrebbe suggerire agli operatori forensi, soprattutto quelli che esercitano nei distretti di alcuni tribunali amministrativi regionali, di "affilare le armi" in prospettiva di un abbandono di detta prassi e della restituzione al giudice ordinario, nella sua veste di "giudice naturale precostituito per legge", del controllo sul giudizio di pericolosità preordinato all’espulsione dello straniero.

L’obiettivo, però, è ovviamente raggiungibile solo "scardinando" - in sede di giudizio avanti ai T.a.r. e, all’occorrenza, in sede di appello contro le sentenze dei medesimi - le premesse fondanti della suddetta prassi e della giurisprudenza amministrativa che la legittima.

In tale ottica propositiva, ritengo che una corretta analisi del quadro normativo di riferimento metta in luce l’illegittimità del modus operandi dell’Amministrazione, dal momento che non pare corretto far conseguire la perdita del titolo di soggiorno posseduto dallo straniero dalla circostanza che questi si trova nella ipotizzata condizione per essere espulso ai sensi dell’art. 13 co.2 lett.c) del T.U.Imm.

L’apprezzamento sulla pericolosità dello straniero e l’adozione del conseguente provvedimento espulsivo sono affidati al prefetto; il questore, pertanto, non ha titolo per valutare, ai fini dell’assunzione di un provvedimento di propria competenza, se l’extracomunitario meriti di essere espulso secondo un apprezzamento che spetta ad altra autorità compiere.

Vi è, poi, anche una considerazione d’ordine sistematico che depone chiaramente contro la possibilità di revocare il permesso di soggiorno nell’ipotesi in esame. Se la pericolosità del cittadino extracomunitario potesse effettivamente motivare la revoca del suo titolo di soggiorno, l’espulsione dello stesso extracomunitario ben potrebbe conseguire alla mera privazione del permesso, essendo questa possibilità contemplata alla lett. b) dell’art. 13 co. 2; di talché, la fattispecie di espulsione prevista alla successiva lett. c) non avrebbe alcuna ragion d’essere.

È invece lampante che il T.U., creando una fattispecie ad hoc di espulsione dell’extracomunitario pericoloso, postula che quest’ultimo sia immediatamente attinto da un provvedimento espulsivo e che solo contestualmente o successivamente alla decretata espulsione vadano adottati i provvedimenti che incidono negativamente sul permesso di soggiorno posseduto dall’espulso.

In conclusione, nel disegno del T.U. Imm. la pericolosità dello straniero non è un motivo a se stante per revocare il titolo di soggiorno al relativo possessore; il ritiro del permesso di soggiorno, invece, può essere disposto solo a seguito della decretata espulsione da parte del prefetto e trova la sua ragion d’essere non in una pericolosità dello straniero impropriamente valutata dal questore, ma nel puro e semplice fatto che l’intervenuta espulsione, non consentendo più all’extracomunitario di soggiornare in Italia, obbliga il questore a revocargli il permesso.

 

 

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