Studio di Adriano Morrone

 

Il trattamento dei detenuti stranieri

e i valori di riferimento della rieducazione

(da "Trattamento penitenziario e misure alternative", di Adriano Morrone)

 

Da diversi anni, ormai, l’Italia si è trasformata in un paese di accoglienza dei flussi migratori delle popolazioni straniere. È venuta così a crearsi una nuova area di povertà estrema e di emarginazione, priva di garanzie giuridiche e di opportunità di accesso ai servizi sociali, assistenziali, previdenziali, sanitari, scolastici, le cui cause possono individuarsi sia nelle difficoltà di integrazione nel contesto italiano sia nella posizione di "irregolare", tipica di buona parte degli immigrati.

La formazione di una nuova area di emarginazione ha avuto come conseguenza un incremento della devianza e della criminalità, che ha determinato un consistente afflusso di popolazione straniera nel circuito penitenziario, tanto che il numero dei detenuti stranieri presenti negli istituti penitenziari rappresenta ormai quasi un terzo della popolazione detenuta complessiva.

La riforma penitenziaria attuata con la legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni, fortemente ispirata al rispetto dei principi fondamentali sanciti dalla Costituzione ed alla tutela dei diritti della persona, contiene una serie di norme, la cui osservanza è destinata a facilitare i processi di integrazione multiculturale, nel rispetto delle specificità dei singoli individui.

In particolare la legge n. 354/75, nell’indicare i principi direttivi del trattamento penitenziario, tutela l’identità nazionale, culturale e religiosa del cittadino straniero e stabilisce (art. 1, comma 2) che - coerentemente al principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, il quale nel caso specifico si traduce anche nel divieto di dare rilievo giuridico alla fede religiosa ed alle distinzioni di fede religiosa – "il trattamento penitenziario è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose".

Sempre nei principi direttivi del trattamento penitenziario è previsto che lo stesso venga attuato nei confronti di tutti i condannati egli internati - e, quindi, anche dei cittadini stranieri – "secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti".

Inoltre, il nuovo regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario contempla una norma ad hoc per i detenuti e gli internati stranieri - l’articolo 35- stabilendo, in primo luogo, che nell’esecuzione delle misure privative della libertà personale si deve tener conto delle difficoltà linguistiche e delle differenze culturali; in secondo luogo, che deve essere comunque favorita la possibilità di contatto con le autorità consolari dei paesi di appartenenza, previsione quest’ultima alla quale l’amministrazione penitenziaria dà attuazione mediante l’autorizzazione di colloqui ai sensi degli articoli 18 dell’ordinamento penitenziario e 37 del nuovo regolamento di esecuzione.

In verità, la norma teste citata era già presente, nei medesimi termini, nel vecchio regolamento di cui al D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431. Il vero elemento di novità contenuto nell’articolo 35 del nuovo regolamento è, infatti, da individuarsi nel secondo comma, il quale prevede che "deve essere, inoltre, favorito l’intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato". Si tratta, tuttavia, di una disposizione che ha in un certo senso "ratificato", attribuendole carattere obbligatorio, una soluzione adottata già da qualche anno dall’amministrazione penitenziaria per superare - o quantomeno attenuare - il problema dell’integrazione multirazziale. All’interno del carcere viene, infatti, assicurata la presenza di mediatori interculturali, operatori che, in stretto contatto con il personale penitenziario,

possono svolgere - in virtù di una specifica formazione e della conoscenza delle lingue di origine dei detenuti - un’attività di collegamento tra l’istituzione e le minoranze etniche presenti nella stessa, al fine di favorirne la comprensione reciproca, presupposto essenziale per la tutela dei diritti e della dignità degli stranieri. L’intervento professionale del mediatore interculturale si dimostra utile anche per poter disporre di interventi trattamentali spendibili nei paesi di origine dei condannati, verso i quali la maggior parte di essi saranno espulsi al termine dell’esecuzione della pena.

È stato giustan1ente posto in rilievo che la "nuova previsione regolamentare sembra cogliere, positivan1ente, gli echi di un dibattito che, anche all’interno della magistratura di sorveglianza, mette sempre più in risalto l’obiettiva difficoltà di prevedere, per i condannati stranieri senza alcun legame stabile con il territorio italiano, percorsi di riabilitazione che possano progredire verso la concessione di una delle misure alternative previste dal nostro ordinamento penitenziario, soprattutto a causa della inesistenza di validi punti di riferimento esterni all’istituto carcerario"(Canevelli, 2000).

Nell’ambito degli interventi tesi a favorire i processi di integrazione etnico-culturale, occorre anzitutto segnalare che l’amministrazione penitenziaria tende a raggruppare i detenuti stranieri secondo la nazionalità, la lingua e la religione, con lo scopo di temperare la loro situazione di isolamento e di facilitarne la comunicazione, nella prospettiva- più ampia - di procedere ad un trattamento rieducativo comune ai sensi dell’articolo 14 dell’ordinamento penitenziario.

Ai fini del superamento delle difficoltà linguistiche, negli istituti penitenziari ci si avVale del contributo di interpreti iscritti negli albi dei tribunali, ovvero provenienti dalle strutture diplomatiche, dalle scuole, dall’università o dal mondo del volontariato. Vengono, inoltre, organizzati corsi di alfabetizzazione per cittadini stranieri e, in qualche istituto, si è provveduto a tradurre in lingua straniera estratti dell’ordinamento penitenziario e del regolan1ento di esecuzione.

Un aspetto importante della tutela dell’identità culturale in an1bito penitenziario può essere senz’altro considerato, stante l’elevato numero di detenuti professanti una religione diversa da quella cattolica, il diritto dell’individuo di professare la propria fede religiosa, praticandone anche il culto.

 

Il diritto all’identità religiosa è riconosciuto dall’articolo 26 della legge n. 354/75 e può essere considerato espressione del principio sancito dall’articolo 19 della Costituzione, il quale prende in considerazione il fenomeno religioso sotto il profilo della libertà, garantendola nei fondamentali e tradizionali aspetti di libertà di religione, ossia di libera formazione e propaganda dei propri convincimenti religiosi, e di libertà di culto, ossia di libera celebrazione dei riti in forma sia individuale che associata. Le direzioni degli istituti penitenziari, pertanto, favoriscono le pratiche religiose inerenti a culti diversi da quello cattolico e si impegnano a rimuovere eventuali ostacoli all’esercizio di tale diritto.

Il rispetto dell’identità religiosa viene assicurato anche nei confronti di coloro che devono astenersi dal consumare determinati alimenti, mediante la possibilità di integrare l’alimentazione con cibi alternativi previsti dalle tabelle vittuarie del carcere.

Altro aspetto importante riguarda l’avviamento al lavoro dei detenuti extracomunitari, particolarmente problematico soprattutto per quanto concerne l’impiego dei medesimi all’esterno del penitenziario.

Al riguardo, i ministeri della giustizia, dell’interno e del lavoro e delle politiche sociali, nell’intento di rimuovere quegli ostacoli di ordine sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana, si sono adoperati per il superamento di quelle norme che richiedono, ai fini del collocamento al lavoro dei cittadini extracomunitari, il possesso del permesso di soggiorno.

In particolare, i tre dicasteri nel 1993 hanno stabilito che, per l’impiego extramurale di detenuti ed internati ammessi a fruire delle misure alternative alla detenzione o del lavoro all’esterno ex articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, non occorre il permesso di soggiorno, ma è sufficiente un atto della direzione del carcere che attesti lo stato detentivo, potendo essere considerato quest’ultimo come una condizione di "soggiorno obbligato".

Quanto finora evidenziato è certo sufficiente a dimostrare la sensibilità del sistema penitenziario verso la tutela delle differenze etnico-culturali, tutela che appare comunque limitata, in quanto assicurata all’individuo come singolo e non direttamente al gruppo

sociale portatore di un’identità e di valori propri. Da un attento esame delle norme contenute nell’ordinamento penitenziario si può rilevare, infatti, che esse prendono in considerazione il detenuto straniero solamente come singolo individuo, omettendo qualsiasi riferimento alle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, ovvero al gruppo sociale di appartenenza.

Inoltre, se da un lato tali norme sono idonee ad assicurare una certa tutela delle differenze etnico-culturali, dall’altro, esse non consentono un’effettiva integrazione multiculturale all’interno del penitenziario, integrazione che postula scelte etiche e che, in un sistema penale basato sulla funzione rieducativa della pena, non può prescindere dall’individuazione di valori da porre a fondamento del processo di rieducazione e di reinserimento sociale.

In verità, l’individuazione dei valori di riferimento del processo rieducativo rappresenta - o meglio ha rappresentato - un elemento di criticità non solo con riferimento ai detenuti extracomunitari, bensì nei confronti dell’intera comunità carceraria. Infatti, si deve tener conto delle posizioni critiche sulla legittimità del trattamento penitenziario assunte da quegli orientamenti dottrinali che si ispirano alle scuole della criminologia marxista o della criminologia radicale. In particolare, tra le argomentazioni a sostegno dell’illegittimità del trattamento, alcune si fondano sul carattere pluralistico di una società democratica, dal quale discende l’illegittimità di imporre, a singoli o a gruppi specifici, valori che sono, in ultima analisi, "modelli" del gruppo dominante; la libertà di scelta per quanto concerne i "fini" della società verrebbe così limitata o soppressa.

La Carta costituzionale e l’ordinamento penitenziario, nel sottolineare il carattere rieducativo della pena, non specificano, tuttavia, quali devono essere i valori verso i quali deve tendere il trattamento penitenziario e la cui osservanza dà conto dell’avvenuta rieducazione del condannato.

È inevitabile, quindi, il sorgere dei seguenti interrogativi: esistono dei valori di riferimento, aventi carattere generale, cui deve tendere il processo rieducativo? Se esistono, possono essere posti a fondamento anche del trattamento penitenziario del detenuto straniero ed, in particolare, dell’extracomunitario? Si deve tener conto esclusivamente dei valori espressi dalla nostra comunità sociale, oppure occorre far riferimento anche a quelli sotto stanti alla cultura di appartenenza del detenuto extracomunitario? Ed infine: in sede di osservazione scientifica della personalità ai sensi dell’articolo 13 dell’ordinamento penitenziario e di verifica del percorso trattamentale individualizzato, i dati anamnestici e comportamentali devono essere valutati sulla base di parametri rientranti nel patrimonio culturale dei membri dell’equipe ovvero sulla base di parametri appartenenti al gruppo sociale di appartenenza del soggetto extracomunitario?

La soluzione di tali quesiti, già di per se complessa, risulta ancor più problematica se si considera che essa, inserendosi nell’ambito dell’esecuzione della pena, non può non essere condizionata dai caratteri fondamentali del diritto penale vigente.

Occorre, anzitutto, rilevare che i valori di riferimento che vengono attualmente proposti al detenuto straniero come modello di recupero e reinserimento sociale, sono desunti esclusivamente dalla nostra cultura e dal nostro contesto sociale anche se è comunque presente un impegno a preservare l’identità psichica e sociale del soggetto. Ciò sembra essere conseguenza del carattere "assoluto" del nostro ordinamento. Un ordinamento caratterizzato da un diritto penale che ha contenuti mutuati dall’ideologia illuminista e dal tecnicismo giuridico e che, al fine di garantire la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, si fonda su norme, che sono espressione dei valori dominanti nel gruppo sociale ed alla cui formulazione tutti concorrono, attraverso l’organo maggiormente rappresentativo della collettività: il Parlamento. Un diritto penale che, fondato sul principio di legalità, esige l’osservanza dei propri precetti da parte dei membri dell’intera comunità, a prescindere dalle differenti ideologie sottese alle diversità etnico-culturali presenti nella realtà sociale. Ne consegue che l’ordinamento giuridico può rivelarsi insensibile, indifferente, ovvero intransigente, verso comportamenti riconducibili a primari valori etici e culturali propri di singoli gruppi di persone presenti nel nuovo contesto sociale in seguito ai fenomeni migratori.

Più precisamente, le condotte poste in essere da cittadini stranieri sulla spinta delle proprie radici etniche e culturali, che tendono a non considerare tali comportamenti riprovevoli moralmente o giuridicamente, possono essere valutate, al contrario, con particolare sfavore dal nostro ordinamento e sanzionate penalmente o in via amministrativa.

Sembra, allora, potersi affermare che il nostro ordinamento giuridico non consente di fatto, nella sua assolutezza, un pieno riconoscimento delle formazioni sociali diverse dalla comunità territoriale della quale costituisce espressione e manifesta la propria rigidità nell’adeguarsi alla nuova realtà multirazziale. Ciò appare ancor più evidente se si prende in considerazione l’evoluzione storica del diritto italiano, il quale ha mostrato, in determinati periodi, sensibilità verso le regole ed i valori appartenenti ai diversi ceppi culturali presenti sul territorio, a prescindere dalla sua "contaminazione" ad opera degli altri diritti. Ci si può, ad esempio, brevemente soffermare su quanto avveniva in epoca medievale dove, all’interno di un ordinamento più ampio, i diversi gruppi sociali possedevano regole proprie, efficaci nell’ambito dei gruppi stessi.

Più precisamente, nella realtà medievale coesisteva, all’interno dello ius proprium civitatis, valido per tutti i cittadini (ius commune), uno ius singulare e, cioè, un diritto positivo che si distaccava - dalla ratio del sistema - vale adire dalla sua logica fondamentale - e la cui posizione era giustificata da una particolare utilità.

Occorre, inoltre, aggiungere che l’emergere del profilo sostanziale dell’illecito penale - soprattutto nella sua versione "costituzionalista" che concepisce il reato come offesa a beni giuridici di rilevanza, esplicita o implicita, costituzionale - potrebbe rafforzare la tendenza ad individuare i valori di riferimento, per quanto concerne il percorso rieducativo del condannato e l’individuazione dei parametri valutativi dello stesso, esclusivamente nell’ambito delle norme del nostro ordinamento giuridico e senza tener conto dei principi etici, morali o giuridici, sottostanti alle regole del vivere comune delle minoranze etniche che sono presenti nella nostra realtà sociale e che concorrono a formare la società multirazziale.

Infatti, in un sistema in cui il reato è concepito come offesa (lesione o pericolo) ad un bene riconducibile alla Costituzione, è evidente che la pena rieducativa avrà come unico scopo quello di condurre il reo, anche extracomunitario, alla piena accettazione dei valori espressi dalla Carta fondamentale. Ciò significa che i valori di riferimento saranno esclusivamente quelli che sono ritenuti rilevanti dalla comunità "originaria" della quale la Costituzione è espressione, rimanendo del tutto irrilevanti i principi etici e giuridici appartenenti ai diversi gruppi etnici presenti sul territorio a causa del fenomeno dell’immigrazione.

Orbene, una società destinata sempre più a divenire multirazziale dovrebbe prendere atto della necessità di temperare il carattere di assolutezza del proprio ordinamento in una prospettiva di rispetto sostanziale della diversità, intesa come diversità di nazioni, culture e religioni.

Ciò non significa operare una completa accettazione di valori nuovi con conseguente abbandono dei principi fondamentali che rappresentano l’essenza della nostra comunità sociale, ma solamente riconoscere che è necessario ricercare all’interno della Costituzione un giusto equilibrio tra rispetto dei valori fondamentali dello Stato, tutela dei diritti della persona e riconoscimento delle differenze etniche e culturali.

Più precisamente, occorre prendere atto che, per quanto concerne l’esecuzione penale, la rieducazione del condannato deve sì mutuare i suoi contenuti dal tipo di ordinamento in cui è inserita, ma, in una società pluralistica così come delineata dalla Costituzione, essa ha senso solo in quanto assuma a suo oggetto il rispetto delle forme minime della vita in comune. Ne consegue che i valori di riferimento del processo riabilitativo dovrebbero essere identificati in quelli essenziali per garantire il rispetto delle condizioni minime della vita in comune. Tali valori, tuttavia, dovrebbero essere integrati da quei principi etici e culturali propri delle minoranze etniche con essi non incompatibili, dando così rilevanza ai "diritti particolari".

A ciò dovrebbe, peraltro, accompagnarsi una riforma della.

parte speciale del codice penale, che, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e frammentarietà del diritto penale, tenga conto del mutato contesto sociale e che costituisca anche l’occasione per una rimeditazione del contenuto e del ruolo assolto da concetti quali l’ordine pubblico, la moralità pubblica ed il buon costume, in una società nella quale emergono sempre più i valori espressi dalla pluralità etnico-culturale.

Le soluzioni prospettate, pur non essendo certo le uniche praticabili, sembrano comunque conformi al dettato dell’articolo 2 della Costituzione, che postula il pieno riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo "sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità".

 

 

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