Identificazione degli stranieri

 

Rilevanza penale dell’identificazione del clandestino straniero

di Mario Pavone (Avvocato in Brindisi, Patrocinante in Cassazione)

 

Premessa

 

Con una recente sentenza la Cassazione è intervenuta in maniera decisiva sul problema della rilevanza penale del possesso dei documenti ai fini della identificazione dello straniero entrato clandestinamente nel territorio dello Stato.

La Suprema Corte ha,infatti, stabilito -con la importante decisione in commento-che la mancata esibizione del documento di identificazione da parte del clandestino non sia penalmente sanzionabile posto che sarebbe contra ius una norma che,pur ascrivendo l’ingresso clandestino all’area del penalmente irrilevante, imponesse al clandestino di munirsi di un documento di identificazione obbligandolo così ad una denuncia del suo stato di clandestinità che è condizione essenziale per la conseguente espulsione.

In base alla motivazione del provvedimento, ove Il Legislatore pretendesse dal clandestino un simile comportamento,risulterebbe violato il principio secondo il quale nessuno può essere tenuto ad agire contro se stesso.

Da una corretta interpretazione della norma dell’art. 6, 9° comma della Legge 40/1998, discende con chiarezza che il possesso del documento di identificazione è dalla normativa in vigore consentito solo agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

In conseguenza,secondo la Corte,lo straniero clandestino, sprovvisto di documenti, non avrebbe alcun obbligo giuridico ex articolo 6, comma 9, di munirsi di un documento di identificazione, anzi, si troverebbe nella materiale impossibilità di farlo poiché qualunque comportamento diverso da quello meramente omissivo si tradurrebbe in una violazione del diritto sostanziale di autodifesa.

Inoltre,una condizione di clandestinità,non sanzionata penalmente,non può trovare una surrettizia soluzione in sede sanzionatoria penale con il ricorso ad un sistema che criminalizzi indiscriminatamente l’inadempimento di meri oneri che restano di natura amministrativa.

 

Le motivazioni della sentenza

 

Sul punto,la Procura Generale aveva sostenuto l’erronea applicazione della legge penale nella sentenza impugnata a seguito del proscioglimento operato da parte del Tribunale di Firenze di un cittadino albanese clandestino dal reato previsto dall’articolo 6, comma 4, legge 40/1998 che punisce la omissione di esibizione, senza giustificato motivo, di un documento di identificazione, in quanto la sanzione penale conseguente alla mancata esibizione del documento - formula più ampia del mero rifiuto di esibizione-troverebbe applicazione anche agli stranieri clandestini ed a coloro che volontariamente si siano posti nella condizione di non possedere un documento.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso ritenendo "non convincenti" le motivazioni addotte dalla Pubblica Accusa a sostegno della configurabilità del reato anche per gli stranieri clandestini sprovvisti di un documento d’identità.

La Procura aveva sostenuto che la norma incriminatrice, sanzionando la mancata esibizione e non già il "rifiuto" del documento di identificazione,presuppone che anche il clandestino straniero abbia l’obbligo di munirsi di tale documento dovendosi escludere che per "giustificati motivi" debbano intendersi comportamenti non collegabili a comportamenti volontari.

Inoltre, secondo la Procura Generale, l’articolo 6, 4° comma, prevede l’obbligo che lo straniero sia sottoposto a rilievi segnaletici quando vi siano dubbi sulla sua identità personale, laddove il 9° comma, prevede il rilascio allo straniero di un documento di identificazione non valido per l’espatrio.

Sostiene,per contro,la Corte che, dalla collocazione della disposizione nell’ambito dell’articolo 6, relativo alle "facoltà ed obblighi inerenti al soggiorno", si evince una chiara scelta di politica criminale, tesa ad applicare la sanzione solo agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

Il primo ed il secondo comma dell’articolo recano disposizioni riferibili esclusivamente agli immigrati muniti di permesso di soggiorno così anche i commi successivi al comma 3.

Una lettura sistematica della norma porta evidentemente ad escludere che solo il comma 3, del tutto fuori contesto, possa essere applicabile anche agli stranieri clandestinamente introdottisi in Italia.

Secondo la Corte una interpretazione estensiva del comma 3 agli stranieri clandestini finirebbe con il sanzionare puramente e semplicemente la condizione di clandestinità, in aperto contrasto con la chiara volontà del legislatore, quale emerge dai lavori parlamentari, oltre che dal testo legislativo approvato.

Non sarebbero,comunque, condivisibili, nello specifico, le ragioni poste a fondamento delle decisioni che hanno sostenuto la configurabilità del reato per gli stranieri clandestini sprovvisti di documenti stante l’assoluta insussistenza di un obbligo per lo straniero di munirsi di un documento di identificazione atteso che il 3° comma non fa alcun cenno al documento di identificazione di cui lo straniero può munirsi ai sensi del 9° comma (passaporto o altro documento di identificazione) posto che anche tale disposizione non imporrebbe alcun obbligo allo straniero, che ne sia privo, di richiederne il rilascio.

Inoltre, secondo l’orientamento della Corte, lo straniero clandestino non avrebbe alcuna possibilità di ottenere un simile documento,poiché, non appena si accingesse a richiederlo, paleserebbe il suo stato di clandestinità ed attiverebbe il procedimento di espulsione.

In conseguenza, sarebbe contra ius una norma che, pur ascrivendo l’ingresso clandestino all’area del penalmente irrilevante, imponesse al clandestino di attivarsi per munirsi di un documento di identificazione che equivarrebbe ad una denuncia del suo stato di clandestinità e porrebbe quindi le condizioni per la sua espulsione.

Ove l’ordinamento pretendesse un simile comportamento, violerebbe il principio secondo il quale nessuno può essere tenuto ad agire contro se stesso. In conseguenza il possesso del documento di identificazione, previsto dal comma 9, sarebbe consentito solo agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

Inoltre, anche il richiamo al quarto comma dell’articolo 6 risulterebbe inconferente, posto che la sottoposizione dello straniero a rilievi segnaletici, essendo dettata unicamente da esigenze di prevenzione generale, sarebbe finalizzata non già a fornire allo straniero un valido documento di identificazione bensì solo a favorire gli eventuali controlli di pubblica sicurezza.

Ciò posto, secondo la Suprema Corte, va sottolineato come il fulcro intorno a cui si è sviluppata in passato l’attività interpretativa è stato rappresentato dall’inciso "per giustificato motivo". In giurisprudenza se ne è discussa la natura (se si tratti di elemento costitutivo del reato o causa di esclusione della punibilità) piuttosto che l’ambito di applicazione.

La Corte rileva che precedenti sentenze emanate sullo stesso tema hanno escluso che i "giustificati motivi" siano ricollegabili ad un comportamento volontario dello straniero laddove tale debba ritenersi sia la condotta di chi sua sponte si disfi dei propri documenti sia la condotta omissiva di chi, essendone privo, violi l’obbligo giuridico di munirsi di altro documento identificativo.

Secondo tale orientamento interpretativo sarebbero passibili di sanzione penale anche gli stranieri clandestini atteso che le cause di giustificazione non potrebbero essere invocate da chi abbia causato volontariamente la situazione di pericolo con conseguente esclusione di ogni altra indagine sul diverso ambito e sulla diversa e più ampia portata del concetto sotteso alla "esimente del giustificato motivo".

Una siffatta interpretazione troverebbe, infatti, il proprio limite nella circostanza che, sebbene un tale comportamento possa essere consapevole e volontario,esso potrebbe trovare la sua giustificazione nella impossibilità di tenere un comportamento diverso e come tale renderlo inesigibile da parte dell’Autorità procedente,come nel caso di quei soggetti privi ab origine di documenti o che ne siano rimasti sprovvisti per accadimenti estranei alla loro volontà (perché, ad esempio, sfuggiti a persecuzioni politiche, guerre, devastazioni, ecc.) e che abbiano necessità di richiedere l’asilo politico.

Per costoro,è proprio l’ingresso clandestino in Italia a costituire il giustificato motivo dell’omessa esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione.

In tali casi è dimostrato come lo straniero clandestino sprovvisto di documenti non abbia alcun obbligo giuridico ai sensi dell’articolo 6, 9° comma, di munirsi di un documento di identificazione ma addirittura si trovi nell’impossibilità di farlo perché qualunque comportamento diverso da quello omissivo si tradurrebbe in una violazione del diritto sostanziale di autodifesa.

Né potrebbe, secondo la Corte, sostenersi che l’omessa esibizione del documento, non essendo correlata all’accertamento della clandestinità ma diretta al regolare svolgimento di attività di pubblica sicurezza e solo indirettamente finalizzata all’espulsione, possa trovare tutela nella norma penale. In conseguenza la condizione di clandestinità dello straniero, che attualmente non è sanzionata penalmente dalla normativa vigente, non può trovare soluzione attraverso un sistema che criminalizzi indiscriminata mente l’inadempimento di meri oneri di natura amministrativa.

In base a tali motivazioni non risulta penalmente rilevante la condotta del clandestino straniero che rifiuti di esibire un documento di identità.

Sin qui la innovativa sentenza della Cassazione che affronta e risolve in senso critico la questione della identificazione del clandestino straniero.

 

La identificazione del cittadino straniero

 

Va ricordato che, prima della sentenza interpretativa in commento, l’art. 6, 3 comma del D. Lgs 286/1998, come modificato dalla Legge 189/2002 puniva indiscriminatamente con l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda fino a L. 800.000 lo straniero che, a richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, non esibiva "senza giustificato motivo" il passaporto o altro documento di identificazione ovvero il permesso o la carta di soggiorno.

Il successivo comma 4 ha introdotto l’obbligo dello straniero di sottoporsi a rilievi foto dattiloscopici e segnaletici "quando vi sia motivo di dubitare della identità personale dello straniero".

Nondimeno, l’art. 2 bis, nelle modifiche apportate dalla Legge Bossi-Fini, ha esteso tale l’obbligo anche allo straniero che richieda il permesso di soggiorno.

Va,infine,sottolineato, in proposito, che è divenuto operativo a partire dal 15 gennaio 2003 il sistema di rilevazione delle impronte digitali anche per i richiedenti asilo previsto dal regolamento Eurodac. Eurodac è un sistema informativo tra i paesi che applicano la Convenzione di Dublino, in materia di concessione dello status di rifugiato, con cui vengono stabilite ulteriori misure per garantire la effettività dei principi della Convenzione.

In base alla Convenzione di Dublino, i richiedenti asilo potranno di regola avere un’unica chance nello spazio europeo per accedere alla procedura di riconoscimento dello status di rifugiato, il che implica in pratica l’impossibilità per la stessa persona di fare domanda in più Paesi diversi.

Dunque, per assicurarsi che il richiedente asilo inoltri la domanda una sola volta, è stato adottato il programma di identificazione Eurodac.

Il problema dei rilievi fotodattiloscopici investe ora anche i cittadini italiani. Di recente, sulla Gazzetta Ufficiale n. 240 del 12 ottobre 2002 è stata pubblicata la legge 9 ottobre 2002, n. 222 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9 settembre 2002, n. 195, recante disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari".

Il provvedimento provvede tra l’altro ad estendere ai cittadini italiani i rilievi dattiloscopici già previsti dalla legge Bossi-Fini per i cittadini stranieri richiedenti il permesso di soggiorno o il suo rinnovo. Questa estensione è stata inserita nel tentativo di superare potenziali censure di legittimità costituzionale sulla legge Bossi-Fini, benché risulti comunque difficile capire come l’obbligo dei rilievi dattiloscopici per gli italiani possa essere contenuto in un decreto legge dettato per la legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari.

L’obbligo dei rilievi dattiloscopici per i cittadini italiani è contenuto nel comma 7 dell’articolo 2 del decreto legge 195/2002: "all’atto della consegna della carta d’identità elettronica... i cittadini italiani sono sottoposti a rilievi dattiloscopici", parzialmente modificato dalla legge di conversione con il rinvio a "modalità stabilite, anche per quanto riguarda l’utilizzazione e la conservazione dei dati e l’accesso alle informazioni raccolte, con il decreto di cui al comma 1 del medesimo articolo 36 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 445 del 2000".

Si pongono in tal modo alcune questioni di non poco conto secondo l’opinione di alcuni autorevoli commentatori. La prima questione è quella appena richiamata delle garanzie sulla protezione dei dati personali. In realtà il rinvio operato dalla legge di conversione ad un successivo DPCM è finalizzato esclusivamente a non affrontare nella legge la questione della privacy. Nei fatti, l’introduzione dei rilievi dattiloscopici per gli stranieri nasce apertamente sulla base dell’equazione xenofoba straniero = potenziale criminale: in questa direzione, la relazione tecnica al disegno di legge di conversione chiarisce subito che le impronte digitali degli immigrati finiranno nel sistema centrale AFIS (Automatic Fingerprint Identification System), assieme alle impronte di tutti i pregiudicati.

Non c’è dubbio sulle finalità repressive della norma,anche se non sono espresse, perché i problemi di mera identificazione erano già stati risolti dalla legge Turco-Napolitano, che già prevedeva i rilievi nei casi di dubbio sull’identità dello straniero.

Conseguentemente non ci sono dubbi neppure sulle garanzie: non ci sono e basta, come chiarito dal riferimento, operato dall’articolo 2, comma 6 del decreto legge 195/2002, all’articolo 4, comma 2, della legge 31 dicembre 1996, n. 675.

Nel momento in cui l’obbligo viene esteso ai cittadini italiani, sembra difficile sostenere la medesima equazione, ed allora si rinvia ad un momento successivo il problema della "utilizzazione" e "conservazione dei dati" e dell’accesso alle informazioni raccolte, ossia della tutela della privacy, lasciando indefinite le finalità dell’operazione.

Sostanzialmente, anche nel dibattito in Parlamento, si è tentato di lasciare aperto il dubbio se l’acquisizione delle impronte per i cittadini italiani sia finalizzata alla certezza di identificazione o alla schedatura di massa con finalità di repressione del crimine. Va peraltro ricordato che già in passato il Garante della protezione dei dati personali aveva espresso il parere che l’acquisizione delle impronte fosse inutile ai fini della identificazione, in quanto la carta d’identità elettronica viene già definita come non falsificabile.

Se quindi l’acquisizione delle impronte non è giustificata dalle esigenze di identificazione, può essere giustificata solo da esigenze di sicurezza.

Anche sulle esigenze di sicurezza si era già espresso il Garante, che aveva definito la rilevazione delle impronte digitali come "un sacrificio sproporzionato della sfera della libertà di tutte le persone che possono legittimamente lamentare anche una considerazione non adeguata e un rilevante pregiudizio della propria dignità personale".

Del resto, delle due l’una: o l’acquisizione delle impronte digitali ai cittadini italiani non serve a niente, oppure, se serve ai fini della sicurezza, non c’è parere che tenga, e si tratta della stessa sospensione delle garanzie previste dalla legge 675/1996 già affermata per i cittadini stranieri.

In realtà la formulazione della norma, lasciando indefinita la questione delle finalità dei rilievi dattiloscopici, introduce un ulteriore elemento di difficoltà e di potenziale illegittimità costituzionale, in quanto è la legge stessa che dovrebbe definire le finalità di interesse pubblico che giustificano una restrizione delle libertà personali e delle garanzie di protezione dei dati personali.
Peraltro una vera discussione sulle finalità del prelievo delle impronte digitali a più di 50 milioni di italiani di età superiore ai 14 anni avrebbe inevitabilmente portato a far emergere l’inutilità di fondo dell’operazione, per le motivazioni già esposte da alcuni autori. Una seconda questione è quella della copertura finanziaria. Con una prassi legislativa a dir poco stravagante, il decreto legge provvede a dare copertura finanziaria alle spese per l’acquisizione delle impronte digitali ai cittadini stranieri, già prevista dalla legge Bossi-Fini, mentre non considera affatto la spesa conseguente all’estensione dell’obbligo dei rilievi dattiloscopici ai cittadini italiani, prevista dal decreto legge stesso.

Non si tratta di questione di poco conto, visto che la Ragioneria generale dello Stato ha quantificato in circa 35 euro pro capite il costo del rilevamento delle impronte digitali. L’assenza di una qualsiasi copertura finanziaria, seppur rapportata alla fase sperimentale tuttora in corso, negli anni 2002 e 2003, fa sorgere dubbi, oltre che sulla legittimità costituzionale della norma, sulla sorte della carta d’identità elettronica, che sembrerebbe avviata su un binario morto, se dovesse essere confermato l’attuale quadro normativo.

Va sottolineata un’ultima questione, quella appunto delle prospettive stesse della carta d’identità elettronica, al di là delle questioni sulla copertura finanziaria. Già prima il quadro del trattamento dei dati relativi alla carta d’identità elettronica non era niente affatto rassicurante. Ora che la carta d’identità elettronica diventa il pretesto per immagazzinare le impronte digitali, c’è da chiedersi quale potrà essere il futuro di un progetto che assume i caratteri di una gigantesca schedatura di massa di tutti i cittadini italiani e stranieri, che fa già balenare rischi di casi giudiziari che non è difficile prevedere e che, secondo noi, non bisogna stare ad aspettare prima di mettere in discussione il progetto stesso.

Ritornando ai problemi di identificazione del cittadino straniero,va pure ricordato che la Legge 189/2002 ha introdotto una nuova fattispecie di reato con il comma 8-bis dello art. 5, del TU 286/1998, sanzionando penalmente la contraffazione od alterazione di un visto di ingresso o reingresso, di un permesso di soggiorno,un contratto di soggiorno od una carta di soggiorno come pure la contraffazione di documenti d’identificazione al fine di determinare il rilascio di un visto di ingresso o reingresso ovvero di un permesso ,contratto o carta di soggiorno. Il responsabile è punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto che faccia fede sino a querela di falso la il responsabile è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale. Il soggetto attivo può essere chiunque e quindi non soltanto il cittadino straniero.

In proposito l’art. 1 del nuovo TU n. 54 del 18/1/2002, che raccoglie in modo organico tanto le disposizioni legislative che regolamentari in materia di circolazione e soggiorno dei cittadini degli stati membri dell’Unione Europea,dopo l’affermazione del principio di libera circolazione,stabilisce l’obbligo,previsto dal trattato di Schengen, di possedere un documento di identificazione o di espatrio valido secondo la legge nazionale almeno all’atto dell’ingresso nel territorio di uno degli stati membri come pure l’obbligo di esibizione ad ogni richiesta degli ufficiali o degli agenti di pubblica sicurezza. Tale obbligo non risulta tuttavia in alcun modo sanzionato per l’inottemperanza dalla stessa norma.

Per i cittadini extracomunitari, l’ingresso ed il soggiorno nel territorio dello Stato,in base al nuovo testo dell’art. 4 della Legge 189/2002 che ha sostituito l’art. 4 del D. Lgs 286/1998, è consentito solo allo straniero in possesso di passaporto valido o di documento equipollente e del visto di ingresso, salvo i casi di esenzione.

In particolare, ai fini del rilascio del visto di ingresso, il richiedente nella domanda ha l’obbligo di indicare le proprie generalità complete e quelle degli eventuali familiari al seguito, gli estremi del passaporto o di altro documento di viaggio riconosciuto equivalente, il luogo dove è diretto, il motivo e la durata del soggiorno. Alla domanda deve essere allegato il passaporto come pure, per i familiari, la documentazione comprovante i presupposti di parentela, coniugio o convivenza. Risulta evidente quindi che l’obbligo di munirsi del passaporto o di altro documento di identità ai fini dell’ingresso e della circolazione negli Stati membri della UE incombe sia sul cittadino europeo che sul cittadino extracomunitario che desideri entrare e soggiornare in uno degli Stati membri come pure l’analogo obbligo di esibizione del documento a richiesta degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza. senza alcuna discriminazione di sorta. Pur tuttavia, mentre per il cittadino comunitario tale obbligo non risulta sanzionato dal TU 54/2002 per il cittadino straniero extracomunitario la mancata esibizione "senza giustificato motivo" è punita con l’arresto sino a sei mesi e con l’ammenda,come innanzi ricordato.

 

La identificazione del clandestino

 

Nelle ipotesi innanzi analizzate, l’obbligo di identificazione e di possesso e di esibizione dei relativi documenti incombe sul cittadino comunitario e straniero regolarmente entrato nel territorio dello Stato in base al visto d ingresso ottenuto tramite l’autorità consolare. Lo straniero entrato clandestinamente nel territorio non soggiace a tale obbligo anche per quanto stabilito dalla sentenza in commento. In tali casi è prevista la immediata espulsione dall’art. 10 e ss del TU 286/1998 laddove lo straniero sia privo dei documenti il cui possesso,ai sensi del comma 3 dell’art 10, lo stesso vettore è tenuto a verificare (ai sensi del comma 3 dell’art 10) posto che a suo carico vi è l’obbligo di riportarlo nel Paese di provenienza. Da tale obbligo sono esentati i richiedenti l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato e quelli accolti per ragioni umanitarie contingenti. In base all’art. 14 del TU, quando occorre procedere ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità ovvero alla acquisizione di documenti per il viaggio, il clandestino può essere trattenuto "per il tempo strettamente necessario" presso un Centro di permanenza temporanea ed assistenza" con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità ed allo stesso compete la libertà di corrispondenza anche telefonica con l’esterno. Le procedure di identificazione costituiscono presupposto anche per l’espulsione a titolo di misura alternativa alla detenzione ai sensi dell’art. 16, comma 5, nel testo novellato dalla Legge Bossi-Fini, problema più volte sottolineato dalla Dottrina e dalla Giurisprudenza e che ha determinato la necessità da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di procedere alla identificazione del detenuto sin dall’ingresso in carcere allo scopo di evitare le lungaggini derivanti da tale identificazione.

Infine va ricordato che fra le misure adottate di recente dal Consiglio Europeo in materia di gestione delle frontiere esterne e lotta all’immigrazione clandestina, è stata ribadita la "necessità di effettuare rigidi controlli alle frontiere esterne in particolare in entrata".

Naturalmente, per l’uscita dagli stati non ci sono problemi… anche se è sempre più frequente (soprattutto da parte della polizia di frontiera austriaca) la prassi di formalizzare il provvedimento di espulsione in uscita: infatti, quando un cittadino non comunitario, senza documenti, è in transito e sta uscendo,verso il proprio paese di origine, ciò nonostante può essere colpito da un provvedimento di espulsione che in base all’accordo di Schengen produce effetti in tutta l’U.E.. Nella misura adottata dal Consiglio si sottolinea che ad ogni ingresso debba essere apposto un timbro da parte delle autorità di frontiera che attesti, oltre alle altre informazioni richieste dal manuale comune, la data di tale attraversamento della frontiera.

Nel caso in cui il passaporto del cittadino di Paese terzo sia privo di tale timbro occorre procedere ad una valutazione della legittimità del soggiorno della persona in questione. In altre parole, l’indicazione che viene data (e che sarà assunta da tutti i paesi membri) è di far sì che la polizia di frontiera metta sempre il timbro di ingresso al momento dell’entrata nello spazio Schengen.

Quindi, quando poi lo straniero si presenta munito del passaporto per la richiesta del permesso di soggiorno, per controllare se il suo ingresso in territorio Schengen è stato regolare si prescrive di andare a verificare il timbro, e si suggerisce quasi che, in caso di mancanza del timbro di ingresso, si debba o si possa presumere un ingresso irregolare. Sappiamo però che molti posti di polizia di frontiera non applicano sempre la prassi di mettere i timbri di entrata.

Esempio pratico: la frontiera tra Italia e Slovenia nei giorni di intenso traffico. Peraltro, sia i croati che gli sloveni entrano con le carte d’identità e su quelle non si mettono comunque i timbri. Di conseguenza, l’indicazione dell’obbligo dei timbri, potrà dar luogo a molta confusione e soprattutto potrà permettere a molti uffici di polizia di presumere un ingresso irregolare quando invece si tratta di presumere più spesso una inefficienza dei controlli di frontiera.

Da ultimo va ricordato che,sempre allo scopo di evitare l’ingresso di clandestini, è stata approvata dall’Europarlamento una risoluzione in relazione alla proposta di direttiva sulla spinosa questione del rilascio di permessi d’ingresso nell’Unione Europea anche per un soggiorno temporaneo di 6 mesi per ricerca lavoro. Si è trovato l’accordo sulla proposta di prevedere il rilascio di un permesso temporaneo per i cittadini non comunitari che entrano con lo scopo di trovare un occupazione o per frequentare corsi di formazione professionale.

Sempre in tema di espulsioni, va pure sottolineato che una soluzione "radicale" del problema dei clandestini espulsi è stata adottata dalla Svizzera che ha concluso un accordo veramente singolare con il Senegal volto ad espellere verso questo Paese ogni cittadino dell’Africa occidentale di nazionalità incerta e la cui domanda di asilo sia stata rigettata. Il Senegal si sarebbe dichiarato disposto ad accettare qualsiasi cittadino africano di presunta provenienza da quell’area, senza porsi alcun problema benché non si conoscano le altre condizioni pattuite tra tali Stati posto che bisognerebbe presumere che il paese di "accoglienza" abbia avuto qualche vantaggio nel concludere questo tipo di accordo.

Appare sconcertante che si riesca a negoziare le espulsioni all’ingrosso dei richiedenti asilo verso un paese che non è il loro paese mentre sarebbe interessante sapere quali garanzie di tutela dei diritti fondamentali il governo senegalese riserverà agli "asilanter" espulsi dalla Svizzera e con quali criteri il Senegal dovrà rinviare queste persone ai loro paesi di origine.

 

Conclusioni

 

Da quanto innanzi esposto emerge con chiarezza che la materia della identificazione dello straniero, specie del clandestino, non contiene comunque obblighi penalmente sanzionabili, fatta eccezione per la mancata esibizione dei documenti.

La sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, affermando tale principio, colma anche una questione rilevante dal punto di vista interpretativo che riguarda l’ingresso del clandestino privo dei documenti che, come tale, può essere sottoposto alla sanzione della espulsione immediata ovvero a quella del respingimento alla frontiera in via amministrativa,atteso che, come sottolineato dalla Corte, sarebbe contra ius una norma che,pur ascrivendo l’ingresso clandestino all’area del penalmente irrilevante,imponesse al clandestino di attivarsi per munirsi di un documento di identificazione che equivarrebbe ad una denuncia del suo stato di clandestinità e porrebbe quindi le condizioni per la sua espulsione.

Ove l’ordinamento pretendesse un simile comportamento, violerebbe il principio secondo il quale nessuno può essere tenuto ad agire contro se stesso posto che una condizione di clandestinità,non sanzionata penalmente,non può trovare una surrettizia soluzione in sede sanzionatoria penale con il ricorso ad un sistema che criminalizzi indiscriminatamente l’inadempimento di meri oneri che restano di natura amministrativa.

 

Ostuni lì, settembre 2003

Cassazione - Sezione Sesta Penale

Sentenza 21 luglio 2003 - 31990/2003

 

Straniero clandestino - Mancata esibizione di documento di identificazione - Irrilevanza penale

 

Nella sentenza

 

Sarebbe contra ius una norma che, pur ascrivendo l’ingresso clandestino all’area del penalmente irrilevante, imponesse al clandestino di attivarsi per munirsi di un documento di identificazione, che equivarrebbe ad una denuncia del suo stato di clandestinità e porrebbe quindi le condizioni per la sua espulsione. Ove l’ordinamento pretendesse un simile comportamento, violerebbe il principio secondo il quale nessuno può essere tenuto ad agire contro se stesso. Ne deriva con chiarezza che il possesso del documento di identificazione, di cui all’articolo 6, comma 9, legge 40/1998, è dalla normativa in vigore consentito solo agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia. Pertanto lo straniero clandestino sprovvisto di documenti non ha alcun obbligo giuridico ex articolo 6, comma 9, di munirsi di un documento di identificazione, ed anzi si trova nell’impossibilità di farlo, perché qualunque comportamento diverso da quello omissivo si tradurrebbe in una violazione del diritto sostanziale di autodifesa.

La condizione di clandestinità, che non è oggi sanzionata penalmente, non può trovare surrettizie sanzioni penali, attraverso un sistema che criminalizzi indiscriminatamente l’inadempimento di meri oneri di natura amministrativa.

 

Sentenza. Presidente R. Fulgenzi - Relatore C. Di Casola

 

Osserva in fatto e in diritto

 

Il giudice monocratico di Firenze ha pronunciato sentenza di applicazione della pena nei confronti di R. A., cittadino albanese, in ordine ai reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni aggravate, mentre ha prosciolto l’imputato, con la formula perché il "fatto non sussiste", dal reato previsto dall’articolo 6, comma 4, legge 40/1998, relativo alla omissione di esibizione, senza giustificato motivo, di un documento di identificazione.

Il Pg di Firenze propone ricorso con riferimento al proscioglimento dell’imputato. Premesso il richiamo alla giurisprudenza di legittimità, che in casi simili ha statuito il carattere unitario della decisione, il Pg sostiene l’erronea applicazione della legge penale, in quanto la mancata esibizione del documento - formula più ampia del mero rifiuto di esibizione - si applicherebbe anche agli stranieri clandestini ed a coloro che volontariamente si sono posti nella condizione di non possedere un documento.

La questione risulta numerose volte affrontata dalla Suprema Corte, con decisioni tra loro difformi, indicative della persistenza di un contrasto giurisprudenziale, che risulta, peraltro, già segnalato.

In breve, le ragioni addotte a sostegno della configurabilità del reato anche per gli stranieri clandestini sprovvisti di un documento d’identità si sostanziano nelle seguenti articolazioni:

la norma incriminatrice, sanzionando la mancata esibizione, non già il "rifiuto", del documento di identificazione, presuppone che di tale documento lo straniero abbia l’obbligo di munirsi;

per "giustificati motivi" devono intendersi comportamenti non collegabili a comportamenti volontari;

l’articolo 6, comma IV, prevede che lo straniero sia sottoposto a rilievi segnaletici quando vi siano dubbi sulla sua identità personale;

l’articolo 6, comma IX, prevede altresì che sia rilasciato allo straniero un documento di identificazione non valido per l’espatrio.

Gli indicati argomenti, tuttavia, non convincono.

Già dalla collocazione della disposizione nell’ambito dell’articolo 6, relativo alle "facoltà ed obblighi inerenti al soggiorno", si evince una chiara scelta di politica criminale, tesa ad applicare la sanzione solo agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia. Il primo ed il secondo comma di questo articolo recano disposizioni riferibili esclusivamente agli immigrati muniti di permesso di soggiorno. Così anche i commi successivi al comma 3. Una lettura sistematica della norma porta evidentemente ad escludere che solo il comma 3, del tutto fuori contesto, possa essere estensivamente applicabile anche agli stranieri clandestinamente introdottisi in Italia.

D’altronde, un’interpretazione estensiva del comma 3 agli stranieri clandestini finirebbe con il sanzionare puramente e semplicemente la condizione di clandestinità, contro la chiara volontà del legislatore, quale emerge dai lavori parlamentari, oltre che dal testo legislativo approvato.

Non possono, poi, essere condivise nello specifico le ragioni poste a fondamento delle decisioni, che hanno sostenuto la configurabilità del reato per gli stranieri clandestini sprovvisti di documenti.

In primo luogo, va confutata l’affermazione secondo cui lo straniero avrebbe comunque l’obbligo di munirsi di un documento di identificazione. Difatti, posto che il comma 3 non fa alcun cenno al documento di identificazione rilasciabile ai sensi del comma 9 (parla di passaporto o altro documento di identificazione senza operare alcuna specificazione), tale ultima disposizione, nel prevedere il rilascio allo straniero di un documento di identificazione non valido per l’espatrio, non prevede per lo straniero, che ne sia privo, alcun obbligo di richiederne il rilascio. D’altro canto, lo straniero clandestino non ha alcuna possibilità di ottenere un simile documento, poiché, non appena si accingesse a richiederlo, paleserebbe il suo stato di clandestinità ed attiverebbe il procedimento di espulsione. Orbene, sarebbe contra ius una norma che, pur ascrivendo l’ingresso clandestino all’area del penalmente irrilevante, imponesse al clandestino di attivarsi per munirsi di un documento di identificazione, che equivarrebbe ad una denuncia del suo stato di clandestinità e porrebbe quindi le condizioni per la sua espulsione. Ove l’ordinamento pretendesse un simile comportamento, violerebbe il principio secondo il quale nessuno può essere tenuto ad agire contro se stesso. Ne deriva con chiarezza che il possesso del documento di identificazione, di cui al comma 9, è dalla normativa in vigore consentito solo agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia. Anche il richiamo al quarto comma dell’articolo 6 appare inconferente, la sottoposizione dello straniero a rilievi segnaletici essendo dettata unicamente da esigenze di prevenzione generale e finalizzata non già a fornire allo straniero un valido documento di identificazione, ma solo a favorire gli eventuali controlli di pubblica sicurezza.

Ciò posto, il fulcro intorno a cui va sviluppata l’attività interpretativa è rappresentato dall’inciso "per giustificato motivo". In giurisprudenza se ne è discussa la natura (se si tratti di elemento costitutivo del reato o causa di esclusione della punibilità) piuttosto che l’ambito di applicazione. Le sentenze della Corte di cassazione che in questa sede sono sottoposte a critica (cfr. per tutte Cassazione, sezione prima, 29.11.1999 Pg in proc. Lechehebeb) hanno offerto soltanto un breve spunto alla riflessione, sostenendo che i giustificati motivi non sono collegabili a comportamenti volontari. La regola ivi affermata deve essere esplicata nella sua interezza per essere appieno compresa: sarebbero riconducibili a comportamenti volontari sia la condotta di chi volontariamente si disfi dei propri documenti, sia la condotta omissiva di chi, essendone privo, violi l’obbligo giuridico di munirsi di altro documento identificativo. In tal modo la costruzione logica si chiude nella sua circolarità rendendo indefettibilmente passibili di sanzione penale gli stranieri clandestini.

L’asserzione, peraltro, sembra riecheggiare il principio secondo cui le cause di giustificazione non possono essere invocate da chi abbia causato volontariamente la situazione di pericolo, ma non si interroga sul diverso ambito e sulla diversa e più ampia portata del concetto sotteso alla "esimente del giustificato motivo". In particolare, poi, l’affermazione trascura di considerare che il comportamento possa ben essere consapevole e volontario, ma contemporaneamente dettato dall’impossibilità di tenere un comportamento diverso, sì da renderlo inesigibile da parte dell’autorità. Si pensi a quei soggetti privi ab origine di documenti o che ne siano rimasti sprovvisti per accadimenti estranei alla loro volontà (perché, ad esempio, sfuggiti a persecuzioni politiche, guerre, devastazioni, ecc.). Per costoro, è proprio l’ingresso clandestino in Italia a costituire il giustificato motivo dell’omessa esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione. Difatti, si è dimostrato che lo straniero clandestino sprovvisto di documenti non abbia alcun obbligo giuridico ex articolo 6, comma 9, di munirsi di un documento di identificazione, ed anzi si trovi nell’impossibilità di farlo, perché qualunque comportamento diverso da quello omissivo si tradurrebbe in una violazione del diritto sostanziale di autodifesa.

Né può essere validamente sostenuto che l’omessa esibizione, non essendo direttamente correlata all’accertamento della clandestinità, bensì preposta al regolare svolgimento di attività di pubblica sicurezza, e solo indirettamente finalizzata all’espulsione, possa legittimamente essere presidiata dalla norma penale. La condizione di clandestinità, che non è oggi sanzionata penalmente, non può trovare surrettizie sanzioni penali, attraverso un sistema che criminalizzi indiscriminatamente l’inadempimento di meri oneri di natura amministrativa.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

 

 

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