Corte Costituzionale n° 226/2004

 

Corte Costituzionale

Ordinanza n° 226 del 15 luglio 2004

 

Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Straniero - Detenuto in espiazione di pena non superiore a due anni - Espulsione a titolo di sanzione alternativa alla detenzione - Assunto contrasto con la funzione rieducativa della pena, irragionevolezza e lesione del principio di eguaglianza rispetto ai condannati non stranieri - Manifesta infondatezza della questione. - D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 16, comma 5 e seguenti, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189. - Costituzione, artt. 3 e 27.

 

La Corte Costituzionale. composta dai signori:

Gustavo Zagrebelsky

Valerio Onida

Guido Neppi Modona

Piero Alberto Capotosti

Annibale Marini

Franco Bile

Giovanni Maria Flick

Francesco Amirante

Ugo De Siervo

Romano Vaccarella

Paolo Maddalena

Alfonso Quaranta

 

ha pronunciato

la seguente Ordinanza

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5 e seguenti, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 15 della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), promossi, nell’ambito di diversi procedimenti di sorveglianza, dai Magistrati di sorveglianza di Alessandria con ordinanza del 10 dicembre 2002, di Cagliari con ordinanza del 22 gennaio 2003, di Reggio Emilia con ordinanza del 6 marzo 2003, di Bologna con ordinanza del 1° marzo 2003, di Reggio Emilia con ordinanza del 29 marzo 2003 e di Bologna con ordinanza del 3 aprile 2003, rispettivamente iscritte ai numeri 26, 207, 342, 391, 509 e 510 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 6, 17, 24, 26 e 32, 1ª serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 7 aprile 2004 il giudice relatore Guido Neppi Modona.

 

Ritenuto che il Magistrato di sorveglianza di Alessandria (r.o. n. 26 del 2003) ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5 e seguenti, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), in quanto prevede, a titolo di "sanzione alternativa", l’espulsione dello straniero che debba scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni;

che il rimettente premette di essere chiamato a decidere sull’espulsione dal territorio dello Stato di un cittadino straniero detenuto in espiazione della pena, del quale risulta accertata l’identità e la nazionalità e nei cui confronti sussistono i presupposti per l’espulsione a norma dell’art. 16, comma 5 e seguenti, del decreto legislativo menzionato;

che ad avviso del rimettente tale disciplina contrasterebbe con l’art. 27 Cost., anche in rapporto agli artt. 2 e 3 Cost;

che infatti, essendo la misura della espulsione dal territorio dello Stato priva di contenuto e finalità rieducativi, la normativa censurata potrebbe giustificarsi sul piano costituzionale soltanto se si dovesse ritenere che nelle ipotesi in esame l’espulsione non può essere assimilata né a una pena né a una misura alternativa, e costituisce invece una mera "sospensione della pena, una temporanea rinuncia dello Stato ad applicarla", come affermato dalla stessa Corte costituzionale, fra l’altro, nella sentenza n. 62 del 1994, in relazione alla così detta espulsione "a richiesta" dello straniero prevista dall’art. 7, commi 12-bis e 12-ter, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito nella legge 28 febbraio 1990, n. 39, nel testo introdotto dall’art. 8, comma 1, del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, convertito nella legge 12 agosto 1993, n. 296;

che la disciplina oggi censurata si discosterebbe tuttavia da quella scrutinata dalla Corte costituzionale proprio in relazione agli aspetti che allora la Corte ritenne qualificanti al fine di escluderne l’illegittimità costituzionale, tra i quali l’iniziativa del condannato, quale garanzia del "necessario rispetto di un diritto inviolabile dell’uomo";

che l’espulsione in esame è invece del tutto "automatica", dovendo essere disposta sulla base della mera ricognizione della sussistenza dei presupposti fissati dalle disposizioni censurate, e si fonderebbe quindi sulla presunzione assoluta e invincibile che la parte di pena espiata ha già raggiunto la finalità rieducativa, in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost;

che sarebbero inoltre irragionevolmente equiparate situazioni affatto diverse, quali quella del detenuto che abbia tenuto "una condotta penitenziaria pessima" e quella di chi abbia invece effettivamente completato il suo percorso rieducativo, e discriminati manifestamente i soggetti legittimati a rimanere in Italia rispetto ai non legittimati, "anticipandosi" nei confronti di costoro l’uscita dal carcere solo perché "clandestini";

che, essendo le informazioni la cui acquisizione è prevista dalla norma censurata destinate soltanto ad accertare l’identità e la nazionalità dello straniero, risulterebbe preclusa qualsiasi concreta valutazione del giudice circa l’effettivo percorso rieducativo del condannato;

che infine, non essendo l’espulsione "condizionata [...] alla volontà del soggetto", la disciplina censurata violerebbe, alla luce di quanto affermato dalla Corte nella sentenza n. 62 del 1994, l’art. 2 Cost;

che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata manifestamente infondata, in quanto "l’espulsione in esame costituisce [...] sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, onde ad essa non si applica il disposto dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione" e "rientra nella discrezionalità del legislatore individuare fattispecie [...] nelle quali lo Stato rinuncia alla propria pretesa punitiva ricorrendo a sanzioni di natura extrapenale";

che inoltre, secondo l’Avvocatura, la disciplina censurata sarebbe "di sicuro favor per l’interessato", in quanto si limita ad anticipare un’espulsione che dovrebbe comunque essere eseguita dopo l’espiazione integrale della pena;

che non sussisterebbe, infine, alcuna ragione per acquisire la manifestazione di volontà del detenuto essendogli comunque riconosciuta la facoltà di impugnare con effetto sospensivo il provvedimento che dispone l’espulsione;

che analoga questione di legittimità costituzionale è stata sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 111 della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Cagliari (r.o. n. 207 del 2003);

che il rimettente - premesso di non condividere l’affermazione secondo cui l’espulsione, concretando "una sorta di rinuncia all’esecuzione della pena principale", si tradurrebbe in un beneficio, anche perché in tal caso si sarebbe dovuto consentire "al "beneficiario" di rinunciarvi", mentre la disciplina positiva prescinde dal consenso dell’interessato - ritiene che l’espulsione a titolo di sanzione alternativa, se non si vuol consentire al legislatore "di eludere i limiti posti dalla Costituzione attraverso una sorta di "truffa delle etichette" realizzata con la previsione di un tertium genus di sanzioni penali", abbia sicuramente natura di pena;

che, così inquadrata, la disciplina censurata non si conformerebbe al principio rieducativo di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. e violerebbe inoltre gli artt. 2 e 3 Cost., per la irragionevolezza delle scelte legislative che l’assistono e perchè lede diritti inviolabili;

che, in particolare, la normativa denunciata sarebbe caratterizzata da un automatismo espulsivo inconciliabile con il principio della finalità rieducativa della pena e imporrebbe altresì un irragionevole obbligo di disporre l’espulsione di chi ha commesso reati più lievi a fronte del divieto di procedere all’espulsione dei condannati per i reati più gravi elencati nell’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale; obbligo che si porrebbe inoltre in contrasto con l’esigenza - già rappresentata nella sentenza n. 62 del 1994 - dell’impulso della parte privata, a garanzia "di un diritto inviolabile";

che il giudice a quo dubita infine, in riferimento all’art. 111, commi primo e secondo, Cost., della legittimità del procedimento per l’applicazione della "sanzione alternativa" delineato dalla norma censurata in quanto, nonostante abbia natura giurisdizionale, non assicura il "contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità";

che inoltre nel procedimento - de plano e ad iniziativa officiosa - al pubblico ministero è precluso l’esercizio delle sue attribuzioni istituzionali, volte in particolare al controllo di legalità della decisione, in quanto, ove il condannato non abbia interesse ad impugnare il provvedimento di espulsione, al pubblico ministero, nei cui confronti non è prevista neppure la comunicazione del decreto di espulsione, sarebbe precluso ogni concreto spazio di intervento;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate;

che l’Avvocatura rileva che lo straniero versa già nelle condizioni che legittimerebbero - ex art. 13, comma 2, del testo unico n. 286 del 1998 - l’espulsione in via amministrativa, non eseguita soltanto a causa dello stato di detenzione, e che pertanto l’istituto in esame non rappresenta una forma di sostituzione di una pena (espulsione) ad un’altra (detenzione), ma costituisce una mera sospensione della pena detentiva;

che in quest’ottica, proprio perché lo straniero dovrebbe comunque essere espulso a fine pena, il fatto che non si preveda la richiesta del detenuto non recherebbe alcun vulnus all’art. 2 Cost;

che non sussisterebbe alcuna violazione dell’art. 3 Cost. in quanto anche i soggetti condannati per i più gravi delitti devono comunque essere espulsi dopo la completa espiazione della pena detentiva, avendo il legislatore ritenuto per motivi di opportunità che non venga anticipatamente disposta la sospensione dell’esecuzione della pena;

che parimenti infondate sarebbero le censure sollevate in riferimento all’art. 111, commi primo e secondo, Cost., dal momento che i principi del giusto processo riguarderebbero "solo il procedimento penale di cognizione" e che comunque, nella sostanza, il principio del contraddittorio sarebbe pienamente rispettato;

che, in particolare, la previsione del procedimento de plano ("senza sentire il pubblico ministero né il detenuto") troverebbe ragione nel fatto che l’espulsione si fonda di regola su "presupposti di pronta e facile verificazione", ma nulla impedirebbe al magistrato di sorveglianza di sentire il pubblico ministero o l’interessato;

che il Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia ha sollevato (r.o. n. 342 del 2003), in riferimento agli artt. 2, 3, 25, secondo comma (indicato solo in motivazione), e 27, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 (anche in relazione agli artt. 13 e 19) del decreto legislativo n. 286 del 1998, come modificato dall’art. 15 della legge n. 189 del 2002, nella parte in cui fa obbligo al magistrato di sorveglianza di disporre l’espulsione dello straniero che si trova in taluna delle situazioni indicate nell’articolo 13, comma 2, e deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni;

che il rimettente premette di procedere ai sensi dell’art. 16 citato nei confronti di un detenuto in regime di semilibertà, titolare di un permesso di soggiorno scaduto, in relazione al quale risulterebbero integrati tutti i presupposti previsti dalla legge per l’espulsione dal territorio dello Stato;

che, sulla base di considerazioni analoghe a quelle svolte dal Magistrato di sorveglianza di Cagliari (r.o. n. 207 del 2003), il giudice a quo ritiene che l’espulsione a titolo di sanzione alternativa abbia un evidente contenuto afflittivo, in quanto:

il procedimento è avviato d’ufficio, anche in assenza di una iniziativa di parte (a differenza dell’espulsione a richiesta, oggetto della sentenza n. 62 del 1994);

non occorre l’adesione del condannato né è prevista una facoltà di "rinuncia";

l’espulsione può determinare l’interruzione del trattamento rieducativo in atto ovvero la recisione dei legami familiari;

la misura è del tutto automatica, senza che il giudice possa tenere conto dei risultati dell’osservazione in carcere, del trattamento svolto e dell’adesione mostrata dal condannato;

che sotto questi profili la disciplina in esame violerebbe l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto preclude o addirittura interrompe il processo rieducativo, in assenza di una richiesta del detenuto, di un comportamento colpevole dello stesso e soprattutto senza che al giudice sia riconosciuto alcun margine di discrezionalità nell’applicare la misura;

che la lesione del principio della finalità rieducativa della pena sarebbe ancora più evidente ogni qual volta la misura dell’espulsione debba essere disposta, come nel caso di specie, nei confronti di un soggetto che, essendo stato ammesso alla semilibertà e svolgendo attività lavorativa, ha concretamente dimostrato di "avere avviato un processo rieducativo e di risocializzazione";

che del resto la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 62 del 1994 aveva valorizzato, in riferimento alla previgente disciplina della espulsione a richiesta, il fatto che la pronuncia del giudice non fosse obbligatoria e automatica, in quanto il giudice doveva acquisire informazioni dagli organi di polizia, sentire il pubblico ministero e le altre parti, e che sarebbe perciò irragionevole negare - come invece fa la disciplina censurata - analoghi poteri al magistrato di sorveglianza, organo deputato all’applicazione delle misure alternative alla detenzione attraverso un procedimento giurisdizionalizzato che si basa sulla osservazione del condannato e sull’analisi del suo percorso rieducativo;

che la disciplina altererebbe inoltre l’intero sistema del trattamento penitenziario e delle misure alternative, consentendo che siano "a un tempo" emessi provvedimenti favorevoli al condannato, sulla base della positiva progressione nel trattamento, e il provvedimento di espulsione obbligatoria, a prescindere dai progressi compiuti;

che, infine, la disciplina censurata violerebbe l’art. 25 Cost., in quanto la novella del 2002, prevedendo l’espulsione anche dei soggetti già condannati e in stato di detenzione alla data di entrata in vigore della legge, introdurrebbe con effetto retroattivo un trattamento sanzionatorio sfavorevole;

che il Magistrato di sorveglianza di Bologna (r.o. n. 391 del 2003) ha sollevato, in riferimento ai soli artt. 3 e 27 Cost., questione di legittimità costituzionale in parte analoga alla precedente;

che il rimettente, premesso che procede nei confronti di uno straniero che si trova in regime di semilibertà, rileva che, nonostante l’espulsione costituisca una "misura alternativa" alla detenzione in carcere, deve essere applicata d’ufficio senza alcuna valutazione discrezionale che tenga conto della pericolosità del soggetto o della sussistenza di un percorso rieducativo in atto, in violazione perciò degli artt. 3 e 27 Cost., per disparità di trattamento, irragionevolezza intrinseca e violazione del principio della finalità rieducativa della pena;

che il giudice a quo invoca perciò una pronuncia della Corte che consenta al magistrato di sorveglianza "di valutare discrezionalmente la necessità di applicare, nel caso concreto, la sanzione alternativa in esame alla stregua delle altre misure e comparativamente con queste, [...] nell’ambito di un procedimento che effettivamente garantisca i diritti della difesa, nel contraddittorio delle parti";

che questione in parte analoga, ma più ampia nella prospettazione delle censure, è stata sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, 13, secondo comma, 97, 101, secondo comma, 102, primo comma, e 111, secondo comma, Cost., da altro Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia (r.o. n. 509 del 2003);

che il rimettente rileva che il detenuto nei cui confronti dovrebbe essere disposta l’espulsione ha sempre mantenuto buona condotta, ha partecipato all’opera rieducativa, frequentando corsi scolastici e di formazione professionale, e ha fruito con regolarità di permessi premio presso una cooperativa sociale, sino ad essere ammesso al regime di semilibertà con provvedimento nel quale si dà particolare rilievo ad elementi indicativi di un effettivo radicamento del soggetto nel territorio;

che tale situazione sarebbe compromessa, con inevitabile interruzione del trattamento rieducativo e pericolo di reiterazione di condotte antigiuridiche, per effetto dell’automatismo del provvedimento di espulsione, in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost;

che il rimettente, al pari degli altri, ritiene che nella disciplina attuale il legislatore abbia mantenuto solo il primo dei tre elementi (limite di pena, discrezionalità del giudice e consenso del condannato) in base ai quali la Corte costituzionale aveva escluso l’illegittimità costituzionale della espulsione "a richiesta";

che, poiché l’espulsione in esame configura una misura alternativa alla detenzione, essa dovrebbe essere disciplinata in conformità ai principi della finalità rieducativa della pena e della differenziazione del trattamento;

che la norma censurata violerebbe perciò non solo l’art. 27, terzo comma, Cost., ma anche gli artt. 3 e 13, secondo comma, Cost. in quanto, "precludendo una valutazione nel merito da parte del giudice, prescrive che, in materia di libertà personale, condizioni personali diverse trovino identica risposta";

che il rimettente ritiene che dalla obbligatorietà dell’espulsione discenda altresì la violazione degli artt. 101, secondo comma, e 102 Cost.: la limitazione del sindacato del giudice alla sola valutazione dei presupposti formali, infatti, da un lato precluderebbe l’esercizio delle funzioni giurisdizionali della magistratura di sorveglianza, "svilendole" "a mero esercizio di potestà amministrative"; dall’altro, imponendo l’emissione di provvedimenti incidenti sulla libertà personale in base alla "mera verifica della sussistenza di un requisito amministrativo" (in relazione al quale al giudice non è neppure riconosciuto lo stesso margine di discrezionalità che spetta all’autorità amministrativa), menomerebbe il principio della sottoposizione del giudice solo alla legge;

che, quanto alla censura riferita all’art. 111 Cost., il rimettente ritiene che la disciplina del procedimento di espulsione e la previsione della sola opposizione del condannato violino i principi del contraddittorio e della parità fra le parti, il cui rispetto avrebbe quantomeno imposto di prevedere la facoltà di opposizione anche del pubblico ministero;

che, infine, la omessa previsione della notifica del provvedimento di espulsione al difensore violerebbe l’art. 24 Cost., impedendo al condannato di fruire di assistenza tecnica ai fini della presentazione dell’opposizione;

che ulteriore questione di legittimità costituzionale, analoga alle precedenti, è stata sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., dal Magistrato di sorveglianza di Bologna (r.o. n. 510 del 2003);

che anche il giudice di Bologna muove dal riconoscimento del carattere afflittivo della espulsione come sanzione alternativa, ritenendo - sulla base di considerazioni affatto simili a quelle svolte nelle precedenti ordinanze - che l’automatismo della misura sia irragionevole, violi il principio della finalità rieducativa della pena e determini disparità di trattamento fra detenuti extracomunitari. Considerato che i Magistrati di sorveglianza di Alessandria, Cagliari, Reggio Emilia e Bologna hanno sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 24, 25, secondo comma, 27, 97, 101, secondo comma, 102, primo comma, e 111, commi primo e secondo, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’espulsione, a titolo di "sanzione alternativa" alla detenzione, dello straniero che debba scontare una pena non superiore, anche quale pena residua, a due anni di reclusione o di arresto, prevista dall’art. 16, comma 5 e seguenti, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo);

che, in particolare, i rimettenti ritengono violati: l’art. 2 della Costituzione, perché la disciplina censurata non riserva al condannato, quale garanzia del necessario rispetto di un diritto inviolabile dell’uomo, l’iniziativa di chiedere l’espulsione; l’art. 3 Cost., perché l’espulsione in esame opera automaticamente ed indiscriminatamente in relazione a situazioni affatto diverse, quali quella del soggetto che abbia tenuto una condotta penitenziaria pessima e quella di chi abbia invece completato il suo percorso rieducativo, ledendo così il principio di eguaglianza; l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto l’automatismo della "sanzione alternativa" non si concilia con il sistema penitenziario, all’interno del quale l’espulsione risulta essere l’unica misura che può provocare l’interruzione del percorso rieducativo del condannato, prescindendo dai dati dell’osservazione e del trattamento; l’art. 3 Cost., in quanto l’espulsione dovrebbe fondarsi sulla presunzione che la parte di pena espiata abbia già raggiunto la finalità rieducativa; presunzione che irragionevolmente concernerebbe soltanto stranieri extra comunitari e tra costoro quelli che hanno commesso reati più lievi; gli artt. 3 e 27 Cost., in quanto l’espulsione in esame, nonostante abbia natura di sanzione penale, è in realtà priva di contenuto e finalità rieducativi e deve essere disposta automaticamente e obbligatoriamente, prescindendo da ogni concreta valutazione dell’effettivo percorso rieducativo del condannato, anche quando l’imputato abbia già goduto di benefici penitenziari o si trovi in regime di semilibertà; gli artt. 3 e 13 Cost., perché impone in materia di libertà personale un identico trattamento di situazioni affatto diverse pur all’interno della medesima categoria di soggetti condannati per reati non ostativi e con un residuo pena inferiore a due anni; l’art. 25, secondo comma, Cost., per violazione del principio di irretroattività della legge penale, in quanto è stato introdotto con effetto retroattivo un trattamento sanzionatorio sfavorevole per il condannato già in stato di detenzione; gli artt. 101, secondo comma, e 102, primo comma, Cost., in quanto l’obbligatorietà dell’espulsione preclude di fatto l’esercizio delle funzioni giurisdizionali conferite al magistrato di sorveglianza; l’art. 111, commi primo e secondo, Cost., perché nel procedimento per l’applicazione dell’espulsione a titolo di sanzione alternativa non è garantita la partecipazione delle parti in condizioni di parità nella fase davanti al magistrato di sorveglianza e perché al pubblico ministero è precluso l’esercizio delle sue attribuzioni istituzionali, non essendo in particolare prevista la facoltà di proporre opposizione avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza; infine, l’art. 24 Cost., perché l’omessa previsione della notifica del provvedimento di espulsione al difensore del condannato ne menoma l’esercizio del diritto di difesa ai fini della presentazione dell’opposizione al tribunale di sorveglianza;

che, avendo tutte le ordinanze di rimessione per oggetto l’istituto dell’espulsione a titolo di sanzione alternativa, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi;

che il nucleo centrale delle censure mosse dai vari rimettenti si sostanzia nel rilievo che, pur essendo l’espulsione "sicuramente ascrivibile al novero delle sanzioni penali", la sua disciplina (iniziativa officiosa; applicazione automatica e obbligatoria in presenza dei presupposti formali previsti dalla legge, a prescindere da ogni valutazione sul percorso rieducativo e sulle possibilità di reinserimento del condannato) si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., e con l’art. 3 Cost., sotto i profili della ragionevolezza e del principio di eguaglianza, posto che si tratterebbe dell’unica misura alternativa alla detenzione o comunque dell’unica sanzione afflittiva applicata dalla magistratura di sorveglianza, senza tenere conto degli effetti ai fini della rieducazione e della risocializzazione del condannato e delle sue condizioni personali;

che con l’ordinanza n. 369 del 1999 questa Corte ha avuto occasione di definire la natura dell’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva disciplinata dal comma 1 dell’art. 16 del decreto legislativo n. 286 del 1998 (già art. 14 della legge 6 marzo 1998, n. 40, rimasto immutato dopo le modifiche recate dalla legge n. 189 del 2002), che presenta rilevanti affinità con l’espulsione a titolo di sanzione alternativa oggetto delle attuali questioni di legittimità costituzionale, essendo anch’essa, tra l’altro, attribuita alla competenza di un organo giurisdizionale, nella specie il giudice del processo di cognizione;

che in tale decisione la Corte ha sostenuto che l’espulsione, pur se disposta dal giudice, si configura come una misura di carattere amministrativo, in quanto, da un lato, la sua esecuzione è affidata al questore anziché al pubblico ministero, dall’altro il testo dell’art. 16, comma 1, "richiama le condizioni che costituiscono il presupposto dell’espulsione amministrativa prevista dall’art. 11 [ora art. 13] del decreto legislativo n. 286 del 1998, così rendendo evidente la sostanziale sovrapposizione fra le due misure e la conseguente necessità di una loro armonizzazione sistematica";

che, affermata la natura amministrativa dell’espulsione, la Corte ha ritenuto non pertinenti i profili di illegittimità costituzionale allora prospettati in base al presupposto che l’espulsione integrasse gli estremi di una sanzione penale;

che, sulla base della interpretazione accolta nell’ordinanza n. 369 del 1999, da cui questa Corte ritiene di non discostarsi, va riconosciuta natura amministrativa anche alla espulsione prevista dall’art. 16, comma 5, del decreto legislativo n. 286 del 1998, posto che anche tale misura è subordinata alla condizione che lo straniero si trovi in taluna delle situazioni che costituiscono il presupposto dell’espulsione amministrativa disciplinata dall’art. 13, alla quale si dovrebbe comunque e certamente dare corso al termine dell’esecuzione della pena detentiva, cosicché, nella sostanza, viene solo ad essere anticipato un provvedimento di cui già sussistono le condizioni;

che la natura amministrativa dell’espulsione in esame rende privi di fondamento tutti i profili di illegittimità costituzionale prospettati dai rimettenti sul presupposto che, essendo l’espulsione una misura alternativa alla detenzione o comunque una sanzione penale, ad essa debbano applicarsi, sia sul terreno sostanziale che su quello processuale, le garanzie stabilite per la pena;

che, peraltro, la natura amministrativa comporta che l’istituto sia comunque assistito dalle garanzie che accompagnano l’espulsione disciplinata dall’art. 13 del decreto legislativo n. 286 del 1998;

che alcune di tali garanzie sono espressamente previste nei commi 5 e seguenti dell’art. 16, mentre altre si atteggiano in maniera diversa, stante il differente contesto processuale in cui intervengono i due provvedimenti di espulsione, ovvero possono essere desunte in via interpretativa attraverso il confronto tra gli artt. 13 e 16 del menzionato decreto legislativo;

che sono comuni alle due disposizioni, tra l’altro: il divieto, previsto rispettivamente nell’art. 13, comma 12, e nell’art. 16, comma 9, di procedere all’espulsione dello straniero che si trovi nelle condizioni elencate nell’art. 19; l’impugnabilità del provvedimento di espulsione, rispettivamente prevista nel comma 8 dell’art. 13 e, con effetto sospensivo, nei commi 6 e 7 dell’art. 16; la garanzia del decreto motivato, rispettivamente richiamata nel comma 3 dell’art. 13 e nel comma 6 dell’art. 16;

che, per quanto concerne l’espulsione prevista dall’art. 16, comma 5, la garanzia dell’opposizione al tribunale di sorveglianza, con effetto sospensivo, svolge anche la funzione di assicurare, sia pure in un momento successivo alla pronuncia del decreto di espulsione, il contraddittorio tra le parti e l’esercizio del diritto di difesa, alla stregua di quanto dispone per il procedimento di esecuzione l’art. 666 cod. proc. pen., a cui fa espresso richiamo l’art. 678 dello stesso codice nel disciplinare il procedimento di appello davanti al tribunale di sorveglianza;

che l’obbligo di comunicare allo straniero il decreto di espulsione tradotto in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in francese, inglese o spagnolo, unitamente all’indicazione delle modalità di impugnazione, può desumersi invece in via sistematica dalla prescrizione contenuta nel comma 7 dell’art. 13, anche alla stregua del rinvio di carattere generale operato dall’art. 16, comma 5, allo straniero che si trova nelle situazioni di cui al comma 2 del medesimo art. 13;

che del pari nulla impedisce al magistrato di sorveglianza, prima di emettere il decreto di espulsione, di acquisire dagli organi di polizia non solo, a norma dell’art. 16, comma 6, le informazioni sull’identità e sulla nazionalità dello straniero, ma qualsiasi tipo di informazione necessaria o utile al fine di accertare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni che legittimano l’espulsione, posto che nel disporre l’analoga misura amministrativa di cui all’art. 13, comma 3, il questore può evidentemente avvalersi di informazioni a tutto campo sullo straniero nei cui confronti deve essere disposta l’espulsione;

che, tenuto conto di tali considerazioni sistematiche e interpretative, tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai rimettenti devono essere dichiarate manifestamente infondate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

Per questi motivi

la Corte Costituzionale,

riuniti i giudizi

dichiara la manifesta infondatezza

delle questioni di legittimità costituzionale

 

dell’art. 16, comma 5 e seguenti, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 24, 25, secondo comma, 27, 97, 101, secondo comma, 102, primo comma, e 111, commi primo e secondo, della Costituzione, dai Magistrati di sorveglianza di Alessandria, Cagliari, Reggio Emilia e Bologna, con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 luglio 2004. Il Presidente: Zagrebelsky

Il redattore: Neppi Modona

Il cancelliere: Di Paola

Depositata in cancelleria il 15 luglio 2004.

Il direttore della cancelleria: Di Paola

 

 

Precedente Home Su Successiva