Ricerca sugli stranieri detenuti

 

Capitolo III

Analisi delle interviste e dei materiali di osservazione

 

Le interviste. Nota preliminare

 

Ho condotto le quattordici interviste svolte all’interno del Pagliarelli quasi sempre in stanze normalmente adibite ai colloqui con psicologi, assistenti sociali, religiosi ecc. Sono luoghi spogli e privi di suppellettili, fatta eccezione per un tavolo e, quando si ha la fortuna di trovarle già dentro la stanza, un paio di sedie. L’acustica è pessima, le voci rimbombano rendendo faticosa la comunicazione già parzialmente condizionata dalla differenza linguistica. Dai corridoi giungono i rumori delle porte blindate che si aprono e chiudono in continuazione. A complicare questa situazione, le finestre danno sugli spazi destinati all’ora d’aria da cui salgono esclamazioni ad alta voce, lo scalpiccio di decine di passi ed il rumore delle pallonate contro i muri di cemento. Se si tiene aperta la finestra si respira, ma ci si sente appena, se invece la si chiude, il rimbombo aumenta e, se si è in estate, si soffoca dal caldo. A parte la contingenza specifica della mia ricerca, queste stanzette ospitano di solito i momenti cruciali del percorso di ogni persona detenuta, quelli in cui un detenuto incontra le figure professionali e gli operatori volontari grazie ai quali dovrebbe dare senso all’esperienza detentiva, superare eventuali crisi e provare a costruire la propria "risocializzazione". Luoghi, in linea di principio, importantissimi, luoghi di scambio e di relazione con l’esterno, che le esigenze della "sicurezza" (dal cui punto di vista qualunque oggetto potrebbe trasformarsi in strumento illecito) spogliano di qualsiasi qualificazione estetica o funzionale mantenendoli nella loro essenziale e squallida nudità. Se è già difficile parlare, in posti come questi, mi chiedo - mentre attendo la persona che intervisterò - come sia possibile costruirvi, o anche solo immaginare, un possibile futuro.

Nonostante una generale disponibilità da parte della polizia penitenziaria a venire incontro alle mie richieste, una parte consistente del tempo trascorso "all’interno", è stato dedicato all’attesa, spesso lunghissima e a volte infruttuosa, dei detenuti che avevo chiesto di incontrare. È accaduto talvolta di sperimentare anche piccoli ostruzionismi, che hanno rallentato lo svolgimento della ricerca. Tuttavia, grazie alla consuetudine, precedentemente acquisita, sia con le procedure formali che con le modalità informali riconosciute pertinenti dal personale della struttura, non ho quasi mai riscontrato difficoltà insormontabili. In ogni caso ho avuto la possibilità di notare come la conoscenza delle norme, scritte e non, che regolano la vita di ogni penitenziario, non possa eliminare gli ostacoli contingenti derivanti dall’ampio margine di discrezionalità che l’ipertrofia del controllo e della burocratizzazione paradossalmente contribuisce a riprodurre. Vale la pena, a questo proposito, di citare una situazione particolare, ma dai tratti tipici e dunque utile a comprendere alcuni di quegli invisibili meccanismi il cui effetto concreto condiziona pesantemente, come si vedrà, la vita quotidiana delle persone in stato di detenzione.

Il fatto si svolge intorno alle ore dieci del mattino. Mi trovo presso il Reparto EST nel corridoio delle Scuole. Cerco di spiegare all’agente che deve chiamare un detenuto per l’intervista, lui è visibilmente scocciato da questa nuova incombenza, e lo dà a vedere in maniera quasi offensiva, "ma non si può, ora chiamo il capoposto, e poi lei non è insegnante delle scuole, non è autorizzato a stare qui…" insisto, mantenendo la calma con un po’ di sforzo e gli spiego gentilmente che deve chiamarmi un detenuto e farlo arrivare dal reparto Sud a Est perché "così è scritto nell’ordine di servizio", in altre parole non solo sono autorizzato, ma devo stare lì". Fuori ci sono varie persone in attesa di cominciare un corso o di essere accompagnate ai piani. Nel frattempo entra un nigeriano che ho intervistato precedentemente e che mi ha consegnato pochi minuti prima una storia da rivedere per inviarla ad un concorso letterario per detenuti. È una persona in gamba, molto educata e impegnato in molte attività, ma proprio questo per l’agente sembra essere un problema "Tu fai troppi corsi, scuola, computer, troppi, ti devi fare il carcere, mica è un albergo questo". Gli faccio notare che dovrebbero essercene di più come quel detenuto interessati alle attività trattamentali, ma questo agente non sembra avere alcuno strumento culturale per capire quello che intendo e per rendersi conto dell’importanza del trattamento. Per la sua mentalità un detenuto fuori dalla cella è una scocciatura che lo costringe ad alzarsi dalla scrivania "sono solo e devo pensare a tutto…". Uscito il detenuto riprendiamo il discorso dell’intervista. Dato il persistere del suo atteggiamento ostruzionistico, decido di usare l’ordine di servizio come l’espressione di una volontà superiore ad entrambi e, anche se per tutti e due è più scomodo che le interviste dei detenuti di Sud si facciano ad Est, dobbiamo ubbidire. So che quello è l’unico piano sul quale possiamo, a questo punto, interagire per evitare la contrapposizione diretta, se tu mi dici che non puoi perché non si può, io ti dico che devi perché si deve. "Va bene, va bene, però io poi faccio una relazione, perché così non si può…". La relazione non la farà mai (lo sappiamo entrambi, sarebbe una fatica in più) si rassegna e chiama il collega al piano "fammi scendere ***- dice storpiando volutamente il nome del detenuto, facilissimo da pronunziare e che gli ho già ripetuto decine di volte - a est perché c’è qua, il dottor…, no non all’infermeria, no il dottore, un professore …". "Adesso ci vorrà molto tempo prima che scenda" (so che ha ragione: i due reparti, Sud ed Est, sembrano separati da una distanza siderale) "Non si preoccupi, posso aspettare". Ma ormai l’ho avuta vinta e dunque posso mostrare a questo punto flessibilità senza che sembri una mia resa. Gli dico, ma in fondo possiamo fare l’intervista anche a Sud, se il capoposto non fa problemi…" E così vado su e mi trovo una stanza al Sud…

 

Gli intervistati. Qualche dato e alcune storie.

 

La scelta delle persone da intervistare è avvenuta senza particolari difficoltà in quanto tutte quelle contattate hanno accettato volentieri di essere ascoltate e nessuna ha avuto problemi circa l’uso del registratore. Per quanto riguarda la provenienza degli intervistati, 7 sono di nazionalità marocchina, 2 Tunisini, 2 Albanesi, 2 Nigeriani, 1 Algerino. La loro età varia dai 24 ai 48 anni e la permanenza in Italia dai 3 ai venti anni con l’eccezione di un cittadino albanese, fermato a poche ore dall’ingresso in Italia. I reati per i quali sono stati condannati sono di solito legati alla detenzione ed allo spaccio di stupefacenti, di cui alcuni di loro erano consumatori abituali, e solo in un caso si tratta invece di un reato più grave (un omicidio non premeditato avvenuto a seguito delle ferite arrecate nel corso di una rissa). Tutti hanno ricevuto una condanna definitiva. La maggioranza hanno mostrato una buona conoscenza della lingua italiana (alcuni addirittura ottima) e anche in caso di scolarizzazione medio bassa, come si noterà dai frammenti di intervista riportati, un sostrato culturale e una capacità d’analisi in alcuni casi sorprendente. Solo in un caso (con uno dei nigeriani) è stato necessario svolgere parzialmente l’intervista in lingua inglese. Prima di entrare in carcere, in pochi avevano un lavoro fisso (e comunque tutti lavoravano in nero) e una decina erano privi di permesso di soggiorno.

Nel raccontare la propria storia, tutti gli intervistati ammettono senza difficoltà il proprio passato criminale, ma molti dichiarano di scontare pene anche per reati non commessi e di aver subito maltrattamenti ed ingiustizie prima dell’ingresso in carcere. Dai racconti emerge così che il momento più critico per gli stranieri, dal punto di vista della garanzia dei diritti sanciti dalla Costituzione italiana, non è la detenzione bensì le fasi che la precedono e cioè la dinamica dell’arresto e l’iter processuale. Emblematica questa testimonianza: "Io sono innocente per questi cinque anni, te lo giuro, te l’ha detto anche *** che mi conosce bene, io ero solo ospite, io da due anni che non facevo niente, solo che io sono andato a Milano, quando fa caldo a Milano sono venuto a Genova perché Genova c’è il mare, ha capito? Io conosco una persona, mi ha invitato di andare perché lui ha affittato una casa e m’ha detto inutile dormire vicino al mare c’abbiamo una tenda lì, m’ha detto andiamo a casa, sono andato a casa e c’era suo fratello e un altro e loro facevano… droga capisci? Non so qualcuno ha chiamato la polizia, quelli vicini… Polizia è venuta ha bussato, io che ho aperto la porta, no prima una donna che ha chiamato col suo nome M**, lui pensava che era una ragazza che conosceva, suo fratello m’ha detto apri apri. Io ho aperto e m’hanno messo la pistola. "Ferma!" Sono entrati hanno trovato venti grammi, lui usava e spacciava tutt’e due, suo fratello non c’entra niente, uno vicino a lui l’hanno trovato 6 buste, capisci? Poi siamo andati insieme, hanno scritto il verbale ma il verbale è un po’ falso, verbale falso: loro dicono, hanno detto che vengono tossici che bussano lì a casa, e non c’era nessuno. L’avvocato ha detto "Perché voi avete firmato questo?" Va bene questo non c’entra niente… Lui quello il proprietario di casa dice che questo non c’entra, io solo ospite, suo fratello non c’entra niente, viene ogni tanto, ha preso tutte le responsabilità, lui ha detto "questa è la mia roba, mio fratello viene ogni tanto". Allora come noi… loro giudicano che noi c’abbiamo la recidiva. Loro dicono questa droga a disposizione di tutti. Ma se lui, il proprietario dice questo solo ospite, non c’entra niente, cosa volete ancora di più? Cinque anni e sei mesi. Di questo si lamenta per niente sei dentro. Sei hai fatto qualcosa… te lo giuro, se ho fatto qualcosa… a me non mi frega niente, perché adesso cinque anni di vita per niente. […] A me io e gli altri siamo arrestati all’epoca del 98, era un po’, Iervolino, come si chiama, dice che non vuole più nessuno, allora polizia profittare, tutti quelli che trovano…"

L’approssimazione e la brutalità dei metodi di indagine delle forze dell’ordine è anche al centro del racconto che segue: "Prima sono venuto per lavorare e lavoravo a Napoli, in mercatini, sempre lavorato, un giorno sono andato a Roma per rinnovarmi passaporto che stava per scadere, tornando, davanti c’è la piazza Cinquecento davanti la stazione, mi chiama un paesano mio e mi saluta "ciao" "ciao" "come stai?" "come stai?" "bene" "bene", ho detto "scusami c’ho il treno che parte a mezzogiorno e dieci", "ah va bene, ciao ci vediamo…"; mi raggiunge un altro "Ehi ehi vieni qua", dico "cosa c’è?" "vieni un attimo, polizia", siamo tornati indietro e ho trovato l’altro che era fermo così e altri due poliziotti vicini, carabinieri, "cosa c’è?", mi ha detto "guarda io ho venduto due pezzi di eroina - m’ha detto - tagliati, fai qualcosa se no quelli so’ cattivi: è esercito, quelli so’ cattivi ti sbattono dentro pure a te". A me? Ho detto "ma io che cosa ho fatto?" Ha detto "guarda quelli non capiscono niente", "eh io non mi taglio", perché non sono tipo che si taglia no? mi hanno portato in questura, lui prima stava insieme ad un’altra ragazza, ho detto "scusi ma io che cosa ho fatto?" Mi dice "aspetta, cerchiamo la ragazza, se troviamo la ragazza sua ti lasciamo andare via a te, se no vai te al posto della ragazza", così ti giuro, così mi hanno arrestato fatto 4 mesi e mezzo, arresto, dopo fatto il processo, assolto. Ho perso il lavoro a Napoli ho perso la casa ho perso tutto e li è cominciato… son tornato e la padrona di casa, "no, no tu sei un delinquente, sei andato a spacciare droga", non ci credevano loro, capito, perché gente onesta, "ah ti fanno fare 4 mesi e mezzo così senza motivo?" "Ma guarda sono uscito assolto". "No no no…" la casa l’hanno già affittata, la mia roba l’ho trovata dentro un buco così: "Tua roba, prendi la roba e non ti vogliamo più qua". Lì allora mi sono girato, sono tornato a Roma per spacciare droga…"

Dopo alcuni anni, a causa dei precedenti penali accumulati nel frattempo, la stessa persona racconta di essersi trovata a subire un grave caso di abuso e discriminazione: "Abitavo a Milano e andavo tutti i giorni a Ponte S Pietro a lavorare. Un bel lavoro, ho lavorato un paio di mesi e dopo arriva sto maresciallo "no quello c’ha precedenti non lo vogliamo" […] ha controllato risulta che io c’ho precedenti penali no? ha detto "no non lo voglio qua, non voglio gente come lui qua". E io non l’ho voluto denunciare io non l’ho voluto fare denuncia denunciare chi? Un maresciallo? Mi hanno licenziato sono andato via e basta.

Sono stati costretti a licenziarla? Eh! Loro sono stati costretti a licenziarmi… poi la mia assistente che voleva fare denuncia al maresciallo e io ho detto di no, l’avvocato l’assistente loro volevano fare una denuncia ho detto lascia stare e basta, mi hanno detto "lui finirà in tribunale, perché è lui la questura? Non è lui la questura. Te lavori, che c’entra se te avevi precedenti o non avevi? Lui se fai qualcosa ti arresta e ti manda in carcere e basta, non può andare a dire non quello non può lavorare".

E lei perché ha deciso di non denunciare? Lo sai come funziona qua? Denunciare un carabiniere, perde sempre. Peggio ancora, allora preferisco essere licenziato. C’ho un paesano mio a Roma che ha denunciato un carabiniere li ha denunciati…l’hanno espulso, eh! L’hanno beccato a un controllo e l’hanno espulso… denunciare chi?"

Un altro degli intervistati, pur ribadendo la proprio implicazione in altri reati, lamenta di essere stato "incastrato" e processato attraverso l’uso consapevole di false testimonianze e aggiunge che in molti altri casi persone totalmente innocenti sono state coinvolte in retate perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato, e che questo fenomeno, che colpisce soprattutto gli stranieri, è in aumento: "Tutte le persone che hanno testimoniato [contro l’intervistato ndi] sono tutti o non li conosco o falsi però le cose le sanno loro [i poliziotti ndi], capito il meccanismo?

Perché tu eri nell’ambiente…? Sì ero dell’ambiente e lo sanno però hanno, le prime volte si pensa a questi che si fanno alle autorità che si fanno vedere… che porto meno rispetto per loro perché io faccio delle illegalità non bisogna combattermi con l’illegalità, questo lo penso qua ora che.. per quello so perché ho fatto un reato merito quello che, però se ti avessero portato, e non penso che ci voleva tanto, ci voleva ascoltare le persone giuste che possono parlare, non è che cerchi uno: aspetti una persona che veramente io ho avuto un rapporto con loro, così almeno lo digerisco io se so che, però penso che è un meccanismo quello che è un meccanismo già radicato da tanto, penso che non è giusto anche se non è per giustificarmi, per giudicare il meccanismo, così ci sentiamo la stessa cosa, io delinquente e tu non sei di meno perché non è che stai facendo un bel lavoro, sei dalla parte che stai dicendo bugie sui rapporti, non ti porta nessuno rispetto. Quello comportamento di forze dell’ordine, che non è una eccezione, non è una eccezione… C’è di peggio: c’è delle persone che non c’entrano proprio niente, solo magari che frequentano locali, perché una volta succedeva così, trovi qualcosa nei locali o la portano via o aspettano o nel peggiore dei casi portano via i recidivi, e dicono che l’hanno trovata vicino a loro, ora forse questa cosa penso che è consentita anche nell’ordine, se dici a un detenuto sa di un altro, quindi è una conferma, certe persone che non c’entrano niente con attività di spaccio o che lavorano magari non hanno la possibilità di affittare una casa, approfittano di qualche posto abbandonato, qualche casa abbandonata se c’è il blitz prendono tutti, magari per me penso che non è giusto neanche nel caso mio, però io facevo delle illegalità, "se mi arriva l’accetto" dico, faccio il calcolo, un’altra volta bene però stavolta, ma certe persone proprio non c’entravano, prima erano casi eccezionali, ora sono tantissimi parlo degli stranieri, tantissimi".

Violenza e atteggiamenti razzisti in caserma, subito dopo gli arresti, sembrano essere pratiche non del tutto eccezionali e sporadiche e vi si accenna in diversi racconti: "Io sì, praticamente quando mi hanno arrestato, mi hanno portato in caserma perché erano carabinieri sono rimasto in caserma fino, vabbé, oh… pure, cioè m’hanno fatto violenza… Cioè? Cioè eh, violenza, perché innanzitutto era gennaio, eh mi hanno messo nudo, ammanettato alla finestra nevicava fuori, dalla mattina alle cinque…

Questo in caserma? Sì, fino alle cinque, praticamente ventiquattr’ore, ho perso conoscenza e loro si sono spaventati, hanno cominciato a correre a destra e a sinistra perché mi hanno detto di firmare quel verbale che loro avevano scritto personalmente, cioè io non è che mi hanno chiesto qualcosa eh io ho detto "sinceramente prima di firmare qualcosa devo leggere" e m’hanno detto "ah! Extracomunitario, Africano, sai leggere pure, oh!!?" Sinceramente io così, eh ma allora m’hanno messo, m’hanno messo là, fino a ventiquattr’ore io non volevo firmare, per finire ho firmato però, senza leggerlo, e ho firmato la mia condanna in quel modo. Da lì non che mi hanno dato un avvocato, cioè chiamare un avvocato chissà che, mi hanno portato direttamente al tribunale e lì al tribunale mi hanno condannato e buonasera… c’era una signora là, così e il giudice l’ha chiamata e ha detto puoi assistere questo ragazzo, lei è venuta, si è seduta…

C’era un avvocato d’ufficio…

Sì, lei mi parlava all’orecchio e diceva "ma cosa è successo, che cosa è successo?" giuro che non ha neanche aperto bocca, non si è alzata per parlare, ho parlato io… il giudice…ho chiesto al giudice se potevo parlare, m’ha detto "va bene, hai cinque minuti" e gli spiegato, gli ho detto "guarda…", gli ho detto tutta la dinamica dei fatti, e m’ha detto che… io ho detto …c’è stato comunque, come dire, una violenza fisica nei miei confronti da parte dei carabinieri e mi hanno dato, ho preso una denuncia per calunnia non ero in carcere avevo l’età di 14 anni, mi portavano la finanza, guardia di finanza, c’avevano fatto tipo un blitz eravamo maggior parte minorenni, avevano trovato della droga a qualche altro ragazzo maggiorenne e portavano in caserma e in caserma ci buttavano l’acqua addosso non è l’acqua… è quella per spegnere il fuoco".

Gli idranti… l’acqua fortissima. Come mai? Facevano queste cose per farci firmare sugli altri, noi non li conoscevamo, per farsi… mettersi un filo che loro spacciano su di noi ci danno la droga per lavorare e queste cose, io le persone non le conoscevo e non potevo mandare uno a 60 anni di carcere… ci mettono dentro una stanza, buio, non c’era niente, buio, buio, c’erano dei cani che abbaiavano in quella stanza, non ti toccano non ti mordevano, ma abbaiano, il cuore non ce la faceva più a battere […] tre volte è successo […] dopo ci portavano con la macchina ci levano le scarpe, ci accompagnavano un poco fuori la città e ci lasciano in qualche strada. Poi la terza volta mi sono tagliato perché non ce la facevo dentro la caserma, io mi sono tagliato, un altro ragazzo che andato all’ospedale in coma perché ha sbattuto testa contro un vetro..

Per farsi portare all’ospedale? Perché passando… sapevo cosa mi succedeva, poi in quel momento ti buttavano l’acqua poi ti mettevano in questa stanza buia con i cani che ti abbaiavano, non ce la facevo più. E così la terza volta…la seconda fu per niente, avevamo fatto niente, uno non è che può fare qualcosa, io non posso fare niente, di fuori altre volte mi capita che ho dei soldi in tasca o telefonino qualcosa, mi ferma la polizia e me lo portano via perché non ho documenti, io non posso dire dammi i soldi miei o il telefonino, regolare, tu non puoi dire niente, se ti toglie qualcosa te la toglie, se no t’incolla qualcos’altro…

Se no, scusa, ti…? Ti incollano un po’ di fumo, ti mette spaccio, ti incollano fumo, quello che vuole cioè prova un po’, sei solo non è che hai un avvocato, ti fa scrivere la data di nascita e il nome e cognome e basta verbale e tutte cose la scrivono loro".

Ad esperienze di questo tipo, vissute in prima persona, si accompagnano citazioni di casi analoghi, in cui la risposta istituzionale alla devianza, nella percezione degli immigrati, si macchia essa stessa di illegalità. Ed è per questo che H***, un camionista albanese, condannato per traffico internazionale di stupefacenti, giurandomi di aver commesso solo un errore di ingenuità e di essere stato ignaro, fino al momento dell’arresto, della vera natura del carico che trasportava, può aggiungere l’amara constatazione che: "Così funziona la legge italiana che dicono è uguale per tutti… E invece no? No, è soltanto un slogan… che viene scritto dietro le spalle dei giudici… ma penso che è meglio i giudici quella scrittura la devono avere di fronte non dietro le spalle".

 

Il ritmo del quotidiano

 

La principale caratteristica che distingue le istituzioni totali dal resto delle organizzazioni sociali è che momenti di vita normalmente separati (dormire, divertirsi, lavorare ecc.) si svolgono nello stesso luogo e che gli individui che vi risiedono sono obbligati ad osservare una serie di schemi rigidamente prefissati all’interno dei quali i margini di movimento e di scelta individuali sono minimi. La richiesta di descrivere una giornata tipo trascorsa al Pagliarelli, stimola dunque risposte molto simili tra loro le cui parole chiave, indipendentemente dagli interessi, dalle attitudini e dalla nazionalità dei singoli, sono la noia, il vuoto, la monotonia: "Ah, una bella domanda questa … Io le devo rispondere sono le giornate, anzi i mesi più noiosi che ho passato nella mia vita di detenzione è questo al Pagliarelli, a parte quei tre mesi che ho lavorato…"

La giornata diciamo è la stessa come oggi, come domani, sempre routine, se uno non fa da solo in modo che passi la giornata, non passa più il tempo. Noi alziamo verso le otto, sette e mezzo mattina. Alle otto e mezza si esce all’aria, camminiamo, verso le undici si sale in cella, si mangia. All’una scendi di nuovo all’aria, fino alle tre. Saliamo sopra alle quattro, quattro e venti c’è saletta, giochiamo carte, ci sta un paio di carte. La giornata, non è non c’è una cosa che è bene, se uno non scende all’aria rimane sempre dentro la cella, se no, non ci sono diciamo, attività sportive: una volta all’anno lo fanno un giorno, una corsa e stop è finita lì. Un anno intero, e fanno due giorni di attività sportiva e a posto, è finita lì.

"Scendere all’aria" e "andare in socialità": due espressioni strane per chi viene da fuori - istintivamente portato a pensare al carattere relazionale del "socializzare" e del "respirare insieme" - che hanno finito con l’indicare due luoghi fisici, squallidi e del tutto inadeguati alle funzioni che dovrebbero svolgere: si prende aria in cortili chiusi da alte mura di cemento, senza protezione degli agenti atmosferici e si socializza in uno spazio ristretto, rumoroso e saturo di fumo, stipati a contendersi due mazzi di carte e la dama. Ma per la maggior parte dei detenuti, italiani e stranieri, per chi non lavora o partecipa ad altre "attività trattamentali", l’unica opportunità di uscire dalla cella per qualche ora al giorno sono proprio i "passeggi" e la "socialità".

"Vai alle nove all’aria, le nove perché ci sono 4 piani per far scendere, allora ogni piano deve scendere da solo per non incontrare gli altri, delle volte scendi alle 10 meno un quarto e ti fanno salire alle 11 e un quarto; dipende perché piano per piano devono salire, sempre un’ora e mezza d’aria. Poi dall’una alle tre sali in cella… se vuoi andare in socialità dalle 4 e mezza fino alle 6…ma in socialità cosa c’è, c’è la dama, le solite cose e ramino, cose che non è che ti danno qualcosa, perché giorno dopo giorno, sempre la stessa cosa allora uno è meglio che va a leggere un libro, allora fare venti trenta pagine in quelle due ore è meglio che giocare ogni giorno a ramino".

In queste condizioni, inventarsi i modi per trascorrere le giornate, darsi una propria organizzazione all’interno dello schema predefinito, cioè riuscire ad attribuirgli un significato personale, diviene lo scopo principale dei reclusi. Il tempo cessa di essere una risorsa, uno "spazio della possibilità", per trasformarsi in scoria da smaltire in attesa della scarcerazione: "È un oblio dell’io totale, non è facile, è una lotta quotidiana per rimanere a galla… questo lo posso dire sinceramente… e non è facile stare in una cella, così, 20 ore in una cella per poter… e inventarsi la giornata. […] Dipende innanzitutto se è inserito in un’attività trattamentale o no. Perché altrimenti comunque è una giornata… fatta comunque… è un ripetersi di ripetizioni, una monotonia totale, è una giornata passata praticamente 20 ore in una cella piccola deve, deve sapere eh, autogestirsi in questo senso, deve saper dare in questo caso valore al suo tempo o programmare le cose che deve fare per poter ingannare il tempo".

Il lavoro, la cui disponibilità è come vedremo limitatissima, offre un’alternativa a questo stato di cose, un oggetto sul quale concentrarsi qualcosa da guadagnare non solo economicamente: "Ah, ultimamente la passo più tempo lavorando, no? Per questo il lavoro tiene impegnato, no hai da pensare, siamo più fuori, no? Allora mi concentro sul lavoro, sali scendi e fai questo, fai quello, passa più tempo, se uno lavora c’è qualcosa da… da guadagnare".

 

La struttura

 

Dal punto di vista strutturale, il Pagliarelli è considerato da tutti gli intervistati un buon carcere, pulito e abbastanza vivibile. Le celle sono considerate piccole per il numero di persone che vi abitano, superiore al dovuto a causa del sovraffollamento, che però è giudicato ancora tollerabile e comunque meno grave di quello sperimentato in molte altre carceri. Si lamenta il funzionamento non ottimale di alcuni servizi tra cui la biblioteca, con particolare riferimento ai tempi lunghi ed alle procedure farraginose per il loro utilizzo. Su questi temi la discussione si conclude quasi subito: i problemi più gravi e urgenti sono identificati in altre questioni. La prima riguarda l’emergenza idrica, la seconda il vitto.

La difficoltà di approvvigionamento idrico in Sicilia è un problema atavico che influisce sulle abitudini di vita di milioni di liberi cittadini. Ma all’interno di un penitenziario, abitato da più di 1000 persone in una situazione di grande promiscuità, tale problema si carica di implicazioni serissime, dal punto di vista materiale e psicologico, che condizionano pesantemente l’esistenza quotidiana nei suoi vari aspetti (igiene, cucina, attività fisica) e impediscono persino il rispetto delle norme previste dal Regolamento dell’Ordinamento Penitenziario: "l’acqua non c’è, facciamo doccia una o due volte a settimana. Cinquanta persone ci stanno dentro la sezione per un’ora, un’ora e mezza e dobbiamo farla tutti, perché l’acqua poca".

"In sei quando manca l’acqua, soprattutto d’estate perché l’acqua è un fusto massimo due, non basta per tutti, poi ti senti chiuso già perché la capienza è quattro letti quei due sono di più perché lo mettono a castello già 4 è normale perché nessuno ha nessuno sopra e anche la vista si chiude anche dall’entrata la vedi chiusa la cella invece quando sono quattro, ti senti un po’ di spazio".

Inoltre quando arriva, raccontano gli intervistati, l’acqua spesso esce dai rubinetti di colore giallastro, rendendo quindi poco salutare il suo uso per la preparazione dei cibi, ciononostante, chi è in difficoltà economica è addirittura costretto a berla.

Il secondo punto critico riguarda l’alimentazione. Senza usare mezzi termini, tutti gli intervistati denunciano la qualità pessima del vitto distribuito dall’amministrazione. Chi non possiede denaro o un fornello a gas per cucinare (e molti stranieri non ce l’hanno) non ha altre alternative che sperare nell’aiuto di un compagno.

"Una cosa…schifosa, niente, se uno non c’è soldi, alla sera non c’è niente da mangiare. Passano un po’ di formaggio, spinaci dentro l’acqua, non c’è niente". "Ti dico la verità, la verità dal cuore? Il vitto dell’amministrazione non si può mangiare, chi non ce l’ha i soldi… […] La sera portano un pezzo di formaggio e un peperone crude pensa per uno che non ce l’ha i soldi non ce l’ha i fornelli non ce l’ha i pentole, niente! Come mangia quel peperone crudo, e un pezzo di formaggio così allora un bambino da quattro anni non si basta… e anche a mezzogiorno portano la pasta attaccata. Io non ho mai mangiato grazie a dio tre anni mai, sempre frutta pane, qualche secondo buono una fettina di carne buona lo prendo se no..

Perché tu hai soldi e puoi fare la spesa… Ce l’ho soldi faccio la spesa cucinavo, faccio anche mangiare quattro cinque cristiani con me ogni sera ogni sera quattro cinque cristiani che non ce l’hanno io cucinavo faccio i piatti li mando con il lavorante". "Portano: Zucchine crude, melanzane crude, peperoni crudi ma se io non ho neanche una lira per comprarmi stuzzicadenti, come faccio a cucinare quella roba? L’uovo crudo, come faccio? Ti rendi conto, no? Allora se io non ho soldi… […] Portano per esempio, a volte portano formaggio e uova. Sì uova crude. Ma se io no ho soldi, non ho gas, non ho olio, non ho niente, come faccio a cucinare? E cosa faccio? Coccolarle per fare uscire i pulcini, non lo so che cosa faccio credimi o ti portano melanzane crude, zucchine crude dipende che cosa è crudo, va bene pomodoro non ci sono problemi, ma adesso cosa faccio? Con melanzane crude, cosa faccio? [ridendo:] a domandina per cucinare una melenzana? Ma che? A volte mi viene a ridere…"

"Qua non è per noi… non è per noi sto carcere, perché qui è una tortura, qui roba a mangiare non ce l’hai in carcere, allora so’ peggio delle carceri da noi anche le carceri da noi so durissime, soprattutto l’acqua non c’è. L’acqua è un problema per tutti però anche roba a mangiare non è… come ultimamente di domenica pomeriggio per la cena ti portano un pezzo di formaggio e una pomodoro. Cosa mangi un pezzo di formaggio e un pomodoro?

Lei in cella di solito cucina? Fino adesso sì, ce ne ho, faccio ancora un po’ di spesa, anche fino a questo mese se ce la faccio e dopo che non c’ho più niente? E dopo? Io sto pensando a dopo". I detenuti che vivono nel reparto Sud, in cui vi è un unica cucina centrale, lamentano una condizione peggiore di quella del reparto Est in cui la presenza di una cucina per ogni piano garantisce almeno che i cibi arrivino alle celle in tempi ragionevoli e non troppo scotti. Se a questi problemi si aggiunge l’alto costo dei beni acquistabili individualmente attraverso il cosiddetto sopravvitto ci si rende conto in quali condizioni versino soprattutto i detenuti stranieri, dal momento che gli italiani, grazie ai contatti settimanali con le famiglie e ad una maggiore disponibilità economica riescono ad essere molto più autonomi dal vitto dell’amministrazione.

"Qua il disagio economico come sapete per stranieri… è tragica la cosa perché se non hai nessuno, la sopravvivenza dentro è un po’ difficile uno non può diciamo fare elemosina ogni giorno a chiedere un pelato, un pomodoro a questo una bombola per cucinare all’altro perché prima o poi l’altro ti manderà a quel paese dice "oh! ma mica ti ho fatto arrestare io!". I controlli previsti dall’ordinamento penitenziario sono inoltre giudicati assolutamente insufficienti: "Ma perché quelli della commissione che vanno a controllare il mangiare non siamo noi stranieri, perché questa cosa l’ho notata quando sono arrivato qua, tutte le cose vanno a controllare loro, loro non si fregano niente, magari va a cucina beve due bicchieri di vino con il lavorante porta un po’ di verdura e va alla sua cella e sta zitto non chiede ma perché il mangiare è fatto così, perché fa schifo, perché non è buono? Questo perché non si frega niente, sa benissimo che quel mangiare non lo mangeranno italiano, mangeranno stranieri schifosi merdosi che appartengono a un’altra civiltà".

 

Le condizioni economiche, l’accesso al lavoro

 

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, dunque, la disponibilità economica, la possibilità di lavorare e le reti di relazioni parentali e amicali sono altrettanto importanti dentro di quanto lo siano nella normale vita sociale. Forse anche più importanti dal momento che in carcere non si può scegliere il supermarket più economico o procurarsi un lavoro mettendo un annuncio sul giornale. Inoltre come si noterà anche dai brani riportati nei paragrafi successivi, in carcere più che in altri luoghi, la possibilità stessa di stabilire relazioni, amicali o di semplice vicinato, con gli altri è fortemente influenzata dalla quantità di denaro che si possiede nel proprio libretto.

"Non abbiamo niente di strutture, niente, un aiuto, un sussidio, persone sono state… problema sai quale è? arrivi in una cella e ti mettono assieme a un altro straniero, un altro marocchino, pure lui non ha niente, rimasto lì senza neanche una sigaretta, caffè, soldi, sussidio, niente, come fanno queste persone ad andare avanti, si mettono a chiedere, a chiedere, a chiedere, ma prima o poi gli altri si incazzano "ma scusa, ogni giorno, ma che ti ho portato io in carcere?".

Molti degli intervistati mostrano anche una grande consapevolezza circa il contesto socioeconomico che circonda il carcere siciliano, strutturalmente diverso dal territorio nel quale sono inseriti gli istituti del Nord Italia. Pur senza avere mai vissuto in Sicilia, la maggior parte di loro ha avuto modo, sia attraverso la televisione che grazie alle conoscenze in carcere, di farsi un’idea abbastanza precisa della relazione tra le caratteristiche del mercato del lavoro interno agli istituti e il disagio sociale ed economiche che colpisce molte zone del Sud Italia: "È difficile stare un carcere così chiuso dove c’è milleduecento persone con novanta posti di lavoro che sono pochi capendo anche la gente che abita qua: non è che sono meglio di noi come là c’è gente, ragazzi giovani, qua in Sicilia che hanno figli, che hanno mogli, bambini. Che poi non lavorano cercando di sopravvivere anche di mandare soldi vestiti da dentro per aiutare famiglia fuori. Non è che è facile neanche per la direzione metterci al lavoro, anche se straniero ha più bisogno, ma è difficile qui al Pagliarelli".

Tale consapevolezza non impedisce tuttavia di reclamare come proprio diritto una carcerazione più dignitosa e un più equo accesso alle opportunità di lavoro. "Neanche la direzione ce la fa più a contenere, darti quello che ti tocca e quello che dicevo, essendo straniero, è difficile per noi ora. Che siamo come dicono loro il 15% di tutti i detenuti di Italia, ma 70% di loro sono tanti. Nei carceri del Nord siamo tanti, ma qua siamo pochi. Guarda come siamo…Ultimamente grazie a dio non so cosa è successo, ho sentito qualche professore ha denunciato, ha mandato qualche cosa al ministero, ha detto che gli stranieri qua non lavorano, vengono trattati male…e hanno messo tanti stranieri, extracomunitari, a lavorare, ultimamente ne hanno inseriti un po’ in cucina un po’ di là, perché qua fino a sei mesi fa uno di quelli che io sono arrivato non m’è piaciuto niente, qua straniero non può fare spesino, io non ho mai visto un marocchino a fare spesino".

 

I contatti con l’esterno

 

Sebbene la legislazione in materia garantisca ai detenuti stranieri la possibilità di continuare a coltivare i legami familiari dall’interno del carcere, tale diritto è per la stragrande maggioranza dei reclusi del tutto teorico. Degli intervistati soltanto uno, la cui famiglia è residente a Palermo, può usufruire regolarmente dei colloqui e in generale pochissimi detenuti riescono a farlo. Le ragioni sono molteplici e vanno dalla difficoltà a comprovare relazioni di parentela per chi è in condizione di clandestinità, alla distanza e le spese che le famiglie, spesso residenti all’estero dovrebbero coprire per far visita al loro congiunto. Trascorsa nell’impossibilità di vedere i propri cari, è come se la detenzione si moltiplicasse e il carcere diventasse "doppio": Oltre ad essere in carcere siamo chiusi, perché ti spiego la vita carceraria è una vita programmata in quel tutto il senso non succede mai niente la vita in carcere è quella svegliare mattina, mangiare mezzogiorno fare qualcosa, cosa si mangia, cosa si vede al televisione […] e quindi appunto dico perché noi viviamo doppia carcerazione perché noi […] non abbiamo una mamma che viene magari ogni settimana che dice come sta mia zia, che fa il cane sta bene… non abbiamo e questo dialogo ci manca tanto noi soffriamo perché non abbiamo questa comunicazione lo soffriamo molto in una maniera terribile ecco perché dico che la carcerazione che viviamo la viviamo doppia poi non parlare delle singole cose di una persona che magari vive senza denaro, senza quel poco che ci fanno.

Si comprende allora come per gli stranieri il contatto telefonico diventi l’unica alternativa praticabile. Ma molti non riescono ad usufruire nemmeno del diritto alla comunicazione telefonica. L’iter burocratico per ottenere il permesso di telefonare infatti, è talmente complicato che molti non provano nemmeno a fare la richiesta, scoraggiati dalla lunghezza delle procedure e dai fallimenti della maggioranza dei compagni che li hanno preceduti.

"È difficile telefonare qua ti chiedevano prima una bolletta del telefono dove telefoni, il contratto o una bolletta, adesso in più ti chiedono l’autorizzazione del consolato, tu porti per esempio queste cose e aspetti, aspetti, aspetti, ti viene a dire il capoposto, fai la domandina per l’autorizzazione… se sapevo che il consolato collaborerebbe con noi è una cosa diversa, ma sappiamo che non fanno niente, niente, niente per nessuno, infatti un mio compagno di stanza ha portato questi documenti, 4 mesi, poi 2 mesi, fai questa domandina, e aspetta ancora risposta dal consolato, non fanno niente, magari se ero fuori era un’altra cosa vado dal consolato per farmi dare questa autorizzazione, gli dai qualche soldi e te la da subito lo sappiamo com’è il nostro consolato è difficile, poi non risponde poi ci vuole tantissimo tempo , 6 mesi adesso che il mio compagno ha presentato tutte queste cose e non lo fanno telefonare, questa è l’unica cosa altre parti no altre parti ti chiedono solo un numero di telefono a chi è intestato loro fanno cercamento di chi è quel numero e ti danno l’autorizzazione… […] qui è più difficile, anche io volevo chiedere ma vedevo altra gente che soffriva di queste cose, io se facevo queste cose avevo un problema in più perché devo parlare sempre col capoposto com’è finita… io per questo non ho fatto le domande né niente, mi piacerebbe telefonare ma non l’ho fatto".

A questo si aggiunge l’impossibilità di utilizzare operatori telefonici che non siano la Telecom, come notoriamente fanno tutti coloro i quali, stranieri e non, hanno la necessità di fare chiamate internazionali. Di conseguenza il costo delle telefonate, già a carico del detenuto, è anche più alto che se si chiamasse dall’esterno. Come racconta uno degli intervistati, dieci minuti di conversazione con l’Albania dal Pagliarelli costano circa cinque Euro. E un altro intervistato, di nazionalità marocchina, dice: "telefonate con familiari, come fai a fare a telefonata con familiari se non ti lasciano soldi, se non hai soldi. Non puoi fare telefonate. Io per es. per telefonare alla mia famiglia ci vogliono al massimo 15.000 no? 15.000: se mi danno sussidio, posso telefonare ma se io non ho soldi come faccio? O scrivo a lettera, va bene scrivo a lettera, ma mica posso stare ogni giorno a chiedere sempre, un francobollo, una busta, un foglio per scrivere. Perché se ne fregano, allora…, non si interessano. Poi vengono sempre… ma se a me mi danno sussidio per esempio, no? non è un sollievo per me se parlo con i miei familiari? E chi si lamenta più! Oltre a questo ho fatto ho chiesto avvicinamento-colloquio no? per andare carcere di Alessandria o un altro carcere vicino a mia figlia, no?".

E la questione con cui si chiude il brano precedente, quella dell’avvicinamento per usufruire del colloquio, e delle difficoltà per ottenerlo rappresenta un altro caso di grave violazione dei diritti della persona detenuta. Emblematico è il caso di un altro giovane marocchino, M***, condannato ad una lunga pena detentiva, il quale essendo venuto a conoscenza di una circolare che invitava a fare richiesta di trasferimento, ed essendo in possesso dei requisiti necessari invia, nel febbraio 2000, un’istanza per richiedere l’avvicinamento alla famiglia presso il nuovo carcere di Bollate. Dopo una lunga attesa comincia a temere per l’esito della propria domanda: "sette mesi senza risposta, avevo parlato con l’educatrice, con tutti per ottenere magari l’avvicinamento temporaneo, nessuno, siccome c’ho mia madre che ha quasi settanta anni, sì, è anziana, non guarda neanche bene e allora non si sa mai della vita e io ho la condanna lunga, ho voluto siccome lei stava venendo in Italia per vedere i miei fratelli allora magari cercando di profittarmi di andare a rivederla, poi se tornavo non c’era problema l’importante è rivederla abbracciarla, ho parlato con tutti, niente: qua se non hai qualcuno che ti appoggia, magari che butta la roccia per te che fa qualcosa, un avvocato, nessuno ti pensa ti dicono sì, sì vedremo poi e solo di solo di promesse di mattino, ti dicono, va bene vedremo poi chiamiamo e non ti chiamano più nessuno. Allora ero in difficoltà non riuscivo più neanche a stare tranquillo perché dicevo quasi quasi sto perdendo questa occasione non si sa mai quando tornerà mai e ho iniziato questo sciopero della fame, è durato un mese, mi hanno portato in infermeria, ricoverato, ho spiegato la mia situazione, perché, i motivi, ho fatto anche quello della sete". Incoraggiato dalla comprensione dei medici e dopo aver parlato con i responsabili del carcere, M*** interrompe lo sciopero e presenta, siamo nel settembre 2000, un nuova istanza di trasferimento indicando questa volta anche altre possibili destinazioni.

"Questa risposta non arriva. Passa un mese e mezzo e presentazione un sollecito per agevolare, agevolare la cosa diciamo, (ridendo) se lei la prossima volta c’è l’opportunità le faccio vedere la risposta di questa istanza cosa m’hanno, m’hanno fatto una cosa terribile, non lo so… ci considerano ignoranti non lo so che non capiamo niente, non lo so, siamo veramente… mi viene questa risposta dell’istanza che c’è scritto, le motivazioni di tutta questa istanza di settembre non c’era nulla, sulla risposta del ministero, loro cosa hanno fatto? Hanno preso questa istanza con certificato di residenza, motivazioni sciopero della fame tutto; l’anno dopo hanno messo "sciopero della fame per andare a Bollate". Senza motivazione senza niente, con quelle istanze che avevano loro stampate, messo nel circolare qua nelle mura dei piani chi vuole andare a Bollate […]. Che non c’entra niente con l’istanza che ho presentato io, motivazione sciopero della fame. Il ministero mi ha risposto non c’è posto e riguardo sciopero della fame il ministero non trova nessuna motivazione, e ha ragione! E quale ministero, quale direttore accetterebbe un detenuto che fa un sciopero di un mese, e giovane, sei già considerato casinista, chi lo accetterà?"

Secondo la ricostruzione dell’interessato, da qualche parte, forse al ministero, forse all’ufficio matricola del carcere, la documentazione della seconda istanza deve essere andata smarrita, causando il rigetto della richiesta di trasferimento. Ma indipendentemente da come si siano svolti i fatti ciò che colpisce è la quantità di tempo trascorso e l’assoluta frammentarietà delle informazioni ricevute da M*** circa lo stato della propria pratica, riguardante uno dei diritti fondamentali delle persone recluse e cioè quello di mantenere i contatti con la propria famiglia.

"Io ho sbagliato, va bene, pago, sto pagando…ma chiedo anche quello che compagna la mia detenzione, certe regole e certe leggi di cui io ho cercato di usufruire, di profittarmi, non mi è stato concesso… […] ma perché (alzando il tono della voce) devo sempre arrivare per avere una cosa che mi tocca a farmi male? A fare cose fuori regole? A combinare, questi questi casini? È questa la situazione dello straniero, perché devo sempre arrivare a dimostrare cose più grandi di me? Ci costringono, perché sei costretto a combinare cose più… più grandi".

 

Esperienze in altre carceri

 

Tutti gli intervistati raccontano di avere cominciato la propria detenzione in altre carceri del centro e del nord Italia: La maggior parte afferma di essere stata a Milano a S. Vittore, a Genova, Marassi, o in altre carceri più piccole (Alessandria, Viterbo ecc.) e le esperienze maturate in quei contesti hanno un’immediata ricaduta sulla percezione della propria condizione attuale. La narrazione tende pertanto ad assumere una prospettiva comparativa che permette di gettare lo sguardo, anche se indirettamente all’interno di altri ambienti carcerari: "Quando stavo a Milano entro tre settimane mi hanno accettato il telefono a casa, sono arrivato qua, dopo un anno! Sai cosa vuol dire dopo un anno? Pensa cosa io devo pensare e sai che la cosa peggiore è l’idea che in un altro posto sta meglio, sai perché in Milano succedeva così e qui succede così.. cioè aveva possibilità di confronto, non è che sono arrivato subito qua, mi sono trovato in questo ambiente e non sapevo cosa succedeva fuori, invece c’ho un’altra esperienza di un posto dove andavano meglio".

La conoscenza delle caratteristiche e dell’organizzazione interna di un altro carcere e l’aver sperimentato migliori condizioni di vita, spinge dunque a chiedersi il perché della propria sofferenza attuale e rende ancora più difficile tollerarla facendosene una ragione: "la cosa peggiore è l’idea che in un altro posto sta meglio". Il confronto è più amaro con quelle realtà come Genova e Milano in cui la consuetudine a gestire la presenza di stranieri ha portato all’attivazione di servizi ad hoc, e ad una maggiore offerta di lavoro.

"Se vediamo Milano ci sono 2.400 detenuti più stranieri ci sono qua, Marassi più stranieri, tutti i carceri ci sono più, più stranieri, ma sono organizzati, la cosa funziona perché se sono organizzati si rimane tranquilli… perché a mancanza di affetti a mancanza di familiari a nostalgia, tante cose, ci porta un giorno a sfogare, ma se le cose funzionano […] non possiamo lamentare fino a questo punto. Poi per es., sono stato in carcerazione al carcere di Alessandria, ho lavorato, lavoravo due mesi e aspetta quattro, lavora due mesi e aspetta quattro, e si fa il giro, qua ogni tre anni lavori tre mesi".

"Carcere di Alessandria, San Michele, quello è un carcere: abbiamo più possibilità; sono stato in carcere di Pisa; avevamo più, più possibilità, lo sanno che gli stranieri non hanno neanche soldi per comprare stuzzicadenti o per comprare sigarette, loro danno da lavorare, ci fa lavorare perché? Perché quelli che fanno colloqui al massimo gli portano vestiti puliti, gli portano il mangiare, gli lasciano soldi al cancello. Ma a noi chi ci lascia niente… come facciamo a pulire a roba…ci danno il sapone per lavare, a roba i vestiti, tante cose non mi piace, ho fatto tutto per andarmene da questo carcere, non è stato possibile. Qui non c’è colloquio, ad Alessandria posso frequentare corsi, sala hobby, sala pittura, o andare al giardinaggio, o andare elettricisti o andare a fare computer, quello che ti pare, puoi farlo, non distinguono tra noi, quello è uno straniero, quello italiano, no, se tu meriti di andare a quel corso, passi… fanno il test, no? Se lo passi vai".

Ma pesa anche la maggiore rigidità del Tribunale di Sorveglianza di Palermo rispetto agli omologhi di altre città e l’assenza di strutture d’appoggio esterne: "A Genova puoi avere permesso semilibertà, subito, semilibertà, anche se sei clandestino, loro ti aiutano capisci, per es. io ho il diritto di andare in permesso per es. io lavorante, io chiedo il permesso se loro mi dicono tu conosci qualcuno? Anche se io non conosco nessuno io c’è soldi posso affittare l’albergo, capito? due giornate… buono cambiare l’aria capisci un modo di cambiare aria, cambiare e tornare significa che tu hai avuto una cosa… Devi dare possibilità ai genti, sempre chiusi stesso ambiente, come si dice, claustrofobia […] non ci sono qua comunità non c’è niente, convitto…"

Una grande differenza si avverte in una organizzazione burocratica considerata inutile e inefficiente e nelle difficoltà di contatto con la direzione: "la differenza si sente in quello soprattutto burocratico: il fatto di domandine per ricevere pacchi. Per pacchi non avvisano qua, quando arriva devi sognare e fare la domandina, non è che ti avvisano che è arrivato il pacco, se quello che ti manda un pacco non ti avvisa non lo puoi sapere. Sono piccole cose ma quando vai alla lunga contano, poi per es. telefonando, se non trovano nessuno a casa non è che l’indomani ti fanno telefonare, no. Devi fare un’altra domandina e aspettare settimana prossima e poi per prenotare la telefonata devi fare la domandina una settimana, invece lì a Genova, lo stesso giorno, e senza domandina, vai dall’agente della sezione dici che voglio telefonare, scrivi il tuo nome ti chiamano, quel giorno telefono che ti aspetta. Invece tu qua fai la domandina, devi essere attento che non la perdi qua, qualche volta non arriva la domandina e quindi devi farne un’altra. Per es. m’è successo a me una volta che la linea era occupata ho dovuto fare un’altra domandina e aspettare che arriva, non è che scatta un meccanismo automatico, che il giorno dopo te la fanno fare, perché sanno che non è colpa tua, magari manco colpa loro, anche gli operatori dicono che il sistema è così, sono comprensivi in questo fatto: teoricamente sono comprensivi, però praticamente devi seguire la procedura l’iter burocratico e quella si sente la differenza, poi io provengo da un paese dove la burocrazia non è una cosa nuova…".

"Al carcere d’Alessandria… domandina al direttore, il direttore ci parla, ogni 15 giorni, ogni volta va alle riunioni con i detenuti, ognuno da una sezione, e ci chiede "cosa è che non funziona in questo carcere?" Nel senso che lui può far funzionare il carcere "cosa è che non funziona in questo carcere?". Da più importanza ai detenuti nel senso […] Qua tutto diverso, tutto diverso, più… un’altra mentalità un’altra più chiusa più, è questa…. Pesaro era ancora più aperto, si sta bene, due in cella, ma ci sono tante cose, se piove può andare in socialità, se piove; qua non piove assai, ma se piove dobbiamo scendere all’aria o rimanere chiusi in cella".

Ma il confronto con altre realtà della penisola a proposito dei casi di violenza e maltrattamenti permette agli intervistati di notare una situazione migliore al Pagliarelli: "nel carcere.. qua io l’ho detto non l’ho mai visto. Eh nel carcere dove so stato di brutto, a La Spezia fanno crocefisso…

Cioè? Li buttano… in cella di isolamento e picchiano la persona... le mani… la chiamano crocefisso e spengono sigaretta sul corpo, ceneri, ti picchiano, addirittura ti sputano sopra, ti trattano con l’acqua fredda di sera; io non l’ho mai.. ma ti entrano in cella fanno uscire gli altri ti picchiano di brutto.. queste cose soprattutto per gli stranieri, straniero è uno che delle volte se la cava, con questo taglio, perché quando ti tagli si allontanano tutti. Io questo che non capisco, anche la loro ignoranza, ma perché devi fare arrivare il detenuto che si taglia in quel modo e poi lo lasci stare? Che significa? Ecco, ti sei fatto male da solo, non ti tocchiamo. Ma perché? perché non si cerca di ragionare, di far capire al straniero guarda che queste cose non ti risolvono niente. E noi picchiarti non lo serviremo niente lo stesso con te perché ti faremo lo stesso momento diventare più di prima perché se ti picchio non è che mi guardi ancora con simpatia guarda il posto dove comando io addirittura, se ti picchio non è che stai sempre bene.. da quel giorno ti cambia la vita perché c’è gente che non ha mai ricevuto un schiaffo dal padre, che l’ha fatto, la mamma che ha sofferto 9 mesi dentro quella pancia di… girare e queste cose.. poi sono là da un mese vieni tu mi schiaffi per terra, botte in faccia e poi domani addirittura mi fai anche rapporto per salvarti il sedere, che tutti lo fanno questo, tutte le guardie eh, fanno rapporto, fanno denuncia e tu non ha mai ragione se tu porti un detenuto che testimonia non puoi perché è un detenuto, può dire di tutto, lui può avere il suo collega come testimone. Che qua una cosa che non ho mai capito tu non puoi mai avere testimoni. E la tua parola non vale mai come detenuto, questo è logico, sei in galera non puoi pretendere anche secondo loro di avere ragione. Finché eh vincono sempre loro questo si sa, anche se hai ragione 100% non puoi mai avere ragione".

 

"Il carcere non è mura…".

 

Abbiamo visto quale sia l’importanza delle strutture e dei servizi nella definizione della qualità della vita all’interno di un carcere e quali siano gli elementi specifici che contraddistinguono il Pagliarelli. Ma ciò non è sufficiente a descrivere la realtà di un carcere, o almeno la percezione che di esso ne hanno i suoi abitanti. Ciò che incide sulla qualità della vita in una prigione, infatti, non è soltanto l’insieme delle sue strutture fisiche, tanto meno quello dei suoi regolamenti formalizzati: questi sono aspetti importanti ma non centrali. Questo fatto risulta evidente da tutte le interviste ed è sintetizzato con particolare efficacia da tre dei miei interlocutori i quali hanno espresso, praticamente utilizzando le stesse parole, un concetto chiave nella comprensione dei meccanismi alla base del funzionamento di un penitenziario: il carcere non è fatto di mura ma di persone. E se le porte blindate e le recinzioni esterne rappresentano un vincolo concreto e fisicamente percepibile, ci sono altre innumerevoli reti invisibili ma altrettanto concrete: le reti di relazioni che coinvolgono tutti coloro i quali a vari livelli si muovono dentro una istituzione totale: "questo dipende dai genti che vive dentro il carcere. Si dice un esempio che il carcere non è sbarre, carcere è genti, persone che sono dentro con chi vivi dentro il carcere e quelli che dirigono il carcere, si comincia dalla direttrice, fino all’amministrazione penitenziaria educatori assistenti sociali psicologi e i professori dei corsi".

"Appena mi sveglio e vado ai passeggi io sempre corro […] per sfogarsi, capisci?, solo per sfogarsi, se no devi litigare con le persone, ci sono tanti ignoranti, tu fai così, lui fa così, tu dici così, lui dice così, e la galera, non che la galera sono i muri, la galera siamo noi, dipende da chi, capisci?

La galera siamo noi dipende la gente, il comportamento, il carattere […] per es. io faccio scopino qua dietro io pulire un quarto d’ora buttano piatti buttano bottiglie tante cosa hai capito, poi si lamentano di quello che c’è zanzare, guarda che per es. tu sei in camerone, tu dici "non lo buttare", hai capito, loro ignoranti dicono "ma che c*** vuoi?", fa guappo, ma questo è bene per noi! Hai capito? […] e adesso dicono che mettono la rete e la rete nel codice penale non c’è, perché fa male".

"Perché sempre dipende dalle persone come ci conviviamo con gli altri, sapere come farsi a volere bene dalle persone, se uno vuole passare il tempo suo in carcere passarlo con le persone perché il carcere non è muro, è persone che circolano qua dentro.

Che vuol dire questa cosa che il carcere non è muro, è persone? Se hai una buona amicizia con le persone hai un buon rapporto con le persone con che ci trovi nella sezione, scendendo all’aria, passando due ore all’aria parli scherzi, non lo so, non la senti, non ci pensi in carcere, stando da solo avendo problemi con le persone non sei inserito con loro, cioè uno trova più difficoltà a superare la giornata, più difficile a superare. Uno si tiene più nella sua cella passeggia, io l’aria non la sento, passeggio gioco a pallone corro parlo con persone, non la sento. Ma un altro trova un po’ di difficoltà, non tutti ma qualcuno la trova un po’ di difficoltà. La passano male sta da solo non va in socialità, non sa inserirsi con le persone, trovano un po’ di difficoltà, ci sono persone inizia a pesare perché è lì dove entrano pensieri cose problemi iniziando a pensare tutti hanno problemi ma cerchiamo ognuno di parlare di passare insieme il tempo: non risolvi niente pensando i problemi, solo che ti pesa".

Se, come risulta da queste testimonianze, la qualità delle reti di relazioni che ogni individuo riesce a tessere con gli altri è l’elemento che fa la differenza nell’economia complessiva della vita carceraria, ciò che va analizzato è dunque la percezione di queste reti da parte degli stranieri.

 

Il rapporto con i compagni.

 

La cella è per definizione uno dei luoghi si sviluppano i legami (e le tensioni) più profondi tra compagni di detenzione, lo spazio dove più urgente è la necessità di trovare forme di adattamento e di mediazione tra i propri e gli altrui bisogni. Più che l’aria, i cui rituali di interazione sono maggiormente tipizzati e rigidi e in cui si passano poche ore al giorno, al Pagliarelli, è la cella lo spazio in cui si vive gran parte della propria esperienza detentiva dove a differenza dell’aria non si deve "fare il duro per forza "e si può mettere in gioco anche la propria "fragilità": "Io credo che tutto dipende dal carattere di una persona e da come affronta certe regole interne fra detenuti, perché… uno si deve adattare anche a regole interne carcerarie fra detenuti, perché non è che uno entra e subito vive diciamo con la sua testa e fa tutto quello che faceva fuori magari come parla con l’assistente parla con… è tutto un altro mondo.

Perché? È difficile, perché se io ho abituato per es. a una vita diversa e entro con 54 persone prima di me, tante cose che io facevo lì sono impedite, non è che te lo impediscono, ma ti devi adattare al sistema con cui va questa cella. E le cito un esempio banale, per esempio, se io… sempre ho preferito…o magari guardare un programma di tv, che seguivo da diciamo due anni tre, o magari leggere un libro, mi piace verso l’undici e mezzo o mezzanotte con la lampada accesa che mi.. mi va in quel momento, da anni ho l’abitudine di leggere quel libro, quella lampada dà fastidio al compagno! Che tu non la devi tenere accesa! Perché a un certo.. devi adattare alla sistema: dormi quando dormono non dare fastidio e… rispettare l’altro".

"La vita con i compagni di cella… dal momento in cui è una convivenza quasi direi, direi vero e proprio coatta, dopo emergono diciamo così dei conflitti che secondo me sono inevitabili. Perché tutti e due vivendo così una situazione frustrante comunque bisogna trovare la maniera per…, come dire, per incanalare tutto, tutto, come posso dire, tossine, tutta la frustrazione che uno ha dentro, adesso la modalità per farlo, per potere buttare fuori tutte queste cose, a volte può anche rivolgere in una maniera molto violenta e una reazione quasi istintiva verso l’altro che è soltanto, diciamo così, è un bersaglio scelto così, non è che c’è una motivazione per forza; e questo fa sì che a volte se l’altro non è una persona che riesce a passare sopra certe cose o che elabora in un certo modo per capire come vanno le cose, può degenerare in una situazione davvero ingestibile. Là è così, lo sfogo può avvenire in una maniera civile o può essere molto violento. Per quanto mi riguarda personalmente anche io ho vissuto questi momenti, ho avuto a che fare con persone, sinceramente, che non… che si vedeva che comunque fuori… perché là devi fare il duro per forza. E ci sono… mentre là in cella tu conosci la persona, e là vedi la persona in tutta la sua fragilità che è naturale, tutta la sua fragilità dove sinceramente la situazione non riesce, non regge la situazione… ti rendi conto che sicuramente fuori o una volta all’aria si dà delle arie, ecc. ecc. ma dentro ti rendi conto che non ce la fa, non ce la fa e ci sono crisi di pianti, ci sono reazioni violente ad es. nei confronti del compagno e poi subito dopo si mette a piangere e ti chiede scusa, perché sa, veramente non è che lo ha fatto, che ti vuole veramente offendere, però non ce la fa più, capito?

Appunto vivendo in una struttura di negazione come il carcere è difficile per la persona trovare un canale giusto di sfogo, per poter sfogarsi. E tu vivendo ventiquattro ore su ventiquattro a contatto a stretto contatto con una persona, questa persona diventa come si dice la valvola di sfogo. Io, in questi quattro anni che ho passato là dentro non ho mai avuto nessun rapporto, nessun richiamo disciplinare, perché anche quando i compagni facevano così, riuscivo sempre, a volte perdevo le staffe però cercavo di non andare fuori i binari, diciamo; lasciavo che si sfogassero e poi dopo, magari con calma, anche dopo e vedevi là la persona proprio in tutta la sua fragilità e l’impossibilità di gestire certe situazioni".

Ma l’atmosfera, il "sistema della cella" come viene definito dagli intervistati ha le caratteristiche di un ecosistema fragile che senza stimoli esterni finisce per svuotarsi di senso e diviene invivibile. Come abbiamo visto, l’accesso alle opportunità lavorative e dunque la disponibilità di denaro per soddisfare le necessità quotidiane, determina la qualità della vita all’interno di ognuna delle celle. La possibilità di uscire, sia per motivi di lavoro sia per la partecipazione ad attività trattamentali diventa fondamentale in quanto offre qualcosa di nuovo di cui parlare, in modo da spezzare la monotonia di giorni sempre uguali a quelli precedenti. Invece, in un contesto nel quale le opportunità sono scarse, la vita relazionale deperisce sensibilmente e "non si parla di niente perché non succede niente": "ultimamente mi sono arrivati due giornali… io al mio paese non li avevo mai letti perché sono tipo di cronaca non mi interessano… qua manca eh, piccola notizia che ci ha tenuto a parlare mezza giornata: c’era una via una strada provinciale è morto un asino, schiacciato, è rimasto fino al giorno dopo non so per due giorni non l’hanno tolto! E poi da quella si comincia a parlare di disagi, di qua di là, un nulla, sai le stesse cose magari una persona t’arriva a raccontare la stessa battuta la stessa barzelletta o lo stesso fatto che ti è successo, due o tre volte, finché l’altro dice me l’hai già raccontata perché il nuovo non c’è. Soprattutto magari se uno lavora, ha una piccola amicizia anche se non vale niente, però siccome è una novità insieme… però stiamo tutti e tre insieme usciamo all’aria insieme torniamo insieme, poi non c’è niente da dire fino a un certo punto… basta.

Partecipare ai corsi cambia le cose da questo punto di vista? Sì penso che cambia perché anche quando torni, diciamo noi, spaccare quella monotonia che c’è. Torni magari loro ti raccontano una cosa che è successa in cella tu racconti qualcosa che ti è successo è c’è un pochino però un pochino di scambio, ma parlo di notizie per esempio… che hai studiato una cosa che non lo sapevi e loro ti dicono che uno ha sbagliato piatto quando cucinavano. […] Questa è la novità che porto io che è il nulla visto dagli occhi di altri però da noi quelle sono novità…soprattutto noi non facciamo colloqui e quando uno fa colloquio sente la famiglia e magari c’ha uno scambio racconta della sua famiglia l’altro anche racconta, noi colloqui non ne facciamo per quello quel nulla ci attacchiamo come una novità, forse senza accorgercene, però pensandoci è solo quello, non è che parliamo troppo"

Per salvarsi dalla monotonia, allora, si trattano con cura queste piccole notizie che sono "nulla visto dagli occhi di altri, però da noi sono novità". Ma per qualcuno degli intervistati, abituato fuori ad una vita sociale ed intellettuale più attiva, questa situazione, questo ripetere ogni giorno "un nulla" fatto di notizie insignificanti e di vicissitudini giudiziarie, è psicologicamente insostenibile: "voglio essere in contatto, dialogare, mi manca questo".

"Non c’è un discorso serio, un vero discorso, qua si discute stronzate…anche mi sono bloccato, tutto questo tempo, il cervello funziona comincia a non funzionare… anche mi blocco ogni tanto, prima era troppo sciolto, adesso sono quelle barriere … parlo con un altro man mano che vedo che non mi capisce non so cosa dirle…invece fuori, perché fuori la differenza è che li scegli tu gli amici qua invece sei obbligato di quelli che stanno qua, sa? Vado bene, però, fino a un certo punto, sai non, parlo con loro di quelle cose che voglio fare sa? Quando ero a scuola andava meglio mi sentivo meglio perché c’era la maestra sa? Beh con lei decisamente un’altra cosa, invece adesso.. sto risentendo sai? cose che sentivo prima di andare a scuola, un po’ di distacco, sento sì anche cerco di essere troppo socievole sono socievole…

C’è qualcosa che manca… Sì qualcosa che mi spiazza, non puoi parlare con un’altra persona che subito ti fa capire… sai a volte cerco di studiare la mente degli altri e tutti c’hanno i loro problemi sai? e nessuno ha la voglia il tempo ce l’hanno non la voglia la volontà di sentire i tuoi problemi sa? non solo i tuoi problemi perché non c’è solo problemi, anche la voglia di esprimere la cosa, dare un’opinione invece qua.. perché non ti capiscono ti prendono per debole, non so com’è. Se tu fai certi discorsi, sai, ti guardano…

Per es. che tipo di discorso? Non potrei dirti adesso, cose che ti viene spontanea, sai i discorsi qui sono: "aspetto di andare in colloquio", "arriva qua"… io sono più verso il mondo esterno o almeno cerco anche se sono qua, anche il tv che guardo, no? non mi attira molti programmi che forse altre persone attirano, per es. quello che va di fronte a Maria De Filippi queste cose a me non piacciono per niente".

 

La comunicazione e gli scambi interni

 

Come Foucault ha sintetizzato nel suo Sorvegliare e Punire, il carcere moderno, panottico, si differenzia dai predecessori per la sua rigorosa divisione spaziale in settori, per la rigida definizione dei tempi e dei modi con i quali ci si può muovere al suo interno, e per un efficiente sistema di controllo permanente. In linea con questa tradizione, il regolamento penitenziario contiene delle norme molto precise sui modi in cui le persone recluse possono incontrarsi e comunicare, su quali oggetti possono possedere e quali no. L’imporsi di modalità di gestione delle carceri sul modello dell’alta sicurezza, hanno dato origine negli ultimi anni ad un proliferare di circolari contenenti nuove regole e nuovi divieti la cui ratio appare per la verità sempre più incomprensibile e la loro applicabilità reale sempre più difficile. E dal momento che la realtà delle cose rivela sempre uno scarto sensibile con i modelli cui si ispira, parte delle mie conversazioni con gli intervistati è stata dedicata a discutere i modi e le forme attraverso le quali essi riescono a districarsi nella quotidianità da alcune di queste regole e in particolare come funzionano le comunicazioni interne e gli scambi di messaggi e oggetti tra individui (che in linea teorica non potrebbero farlo). Per dirla in termini goffmaniani, ho cercato di capire quali adattamenti secondari siano adottati usualmente dai detenuti del Pagliarelli. Secondo la definizione data da Goffman si definiscono adattamenti secondari gli "…adattamenti abituali, per mezzo dei quali un membro di un’organizzazione usa mezzi od ottiene fini non autorizzati, oppure usa e ottiene entrambi, sfuggendo a ciò che l’organizzazione presume dovrebbe fare e ottenere, quindi a ciò che dovrebbe essere. Gli adattamenti secondari rappresentano il modo in cui l’individuo riesce ad evitare il ruolo ed il sé che l’istituzione ha presi per garantiti per lui".

A giudicare dalle dichiarazioni degli intervistati la forma più evidente di adattamento secondario è senz’altro quella messa in atto dai "lavoranti". Il lavorante è, secondo quanto prevede l’ordinamento penitenziario, un detenuto che svolge mansioni interne all’istituto, come la pulizia dei locali, il trasporto del vitto ecc. Chi svolge un incarico di tal genere gode dunque di una mobilità maggiore dei suoi compagni di detenzione e, grazie a questa possibilità preclusa ad altri, chi svolge un lavoro è di solito il vettore principale di messaggi e oggetti il cui transito sarebbe altrimenti vietato: "ad es. tu mi puoi scrivere su un fogliettino di carta, magari li dai al lavorante della sezione: ad es. io ero nella cella 20, uno che sta alla cella 1, 2 scrive "guarda ***, ti prego scendi ti voglio parlare un attimo". Io scendo mi spiega cosa è il fatto o mi fa vedere una notifica che gli è arrivata, così e così "come devo fare", ecc. ecc…".

"Diciamo io faccio i dolci, no? E ci sono 24 celle, faccio 24 pezzi, chiamo al lavorante comincia da cella 1 alla cella 25". Così descrive il proprio ruolo e i propri compiti un detenuto che è stato lavorante: "fai anche quello che se non c’entra niente con il tuo lavoro ma visto che hai la possibilità di spostarti devi anche comportarti, per es. è diventata quasi un obbligo morale. Un obbligo morale verso gli altri detenuti perché sono chiusi quindi quello che è fuori si presta a queste cose, o magari sapendo che una cella gli manca qualcosa sapendo anche se non ce l’ha devi andare a cercarla da dove tu sai che puoi trovarla. […] Richieste da altri detenuti quelle di chiedere passare messaggi, ci sono amici che li arrestano e fanno divieto di incontro, che non possono incontrarsi uno al * piano e uno al * piano non possono incontrarsi, mandano messaggi, non lo so, "come stai", "stammi bene", "cerca di fare domandina" "appena ci levano divieto di incontro per ci mettiamo insieme nella stanza", non erano messaggi mafiosi, uno ti mandava a cercare le sigarette, erano questi, ti davano le cassette passare queste cassette al * piano destro, "mi fai questo favore chiedere al mio paesano se nella sezione è vuota", non erano un granché, a me mi hanno beccato con qualche biglietto!" [ridendo ndi].

Secondo gli intervistati, gli agenti sarebbero a conoscenza di queste pratiche e lascerebbero correre finché il fenomeno mantiene dimensioni tollerabili: "Lo sanno però… lui lo sa però quando ti pesca diciamo piglia il messaggio in tasca ti fa un rapporto e ti chiude anche lavoro. […] adesso all’isolamento non entra l’italiano, entra solo straniero per il fatto dei messaggi…"

"Anche se loro…è vietato, non lo so, ma le guardie sono buone chiudono un occhio questa è buono, è intelligenza, meglio per lui e meglio per tutti, per essere, per passare la giornata bene. È tutto facile se tu vuoi complicare le cose non buono, per es. tu dici non può passare".

"Ci sono certi agenti che sanno e chiudono occhio ma sanno che una cosa non è grave parliamo su cose semplici, anche se non si possono fare ma sono cose tranquille non è che creano problemi ma ci sono altre genti che vanno a cercarle le cose, non lo so ha un sfogo se ti fa del rapporto, non lo so che cosa farà di più".

Da questo punto sembrerebbe che quello che i detenuti considerano un adattamento secondario collettivo sia in effetti dal punto di vista di alcuni agenti una "concessione" implicita, un atto di "intelligenza, meglio per lui e meglio per tutti" che permette di mantenere un ordine accettabile in sezione nonostante i disagi vissuti da molti detenuti.

Ma il fatto che i lavoranti come direbbe Goffman "si lavorano" il proprio incarico ottenendo vantaggi e fini non autorizzati per la comunità (e da un certo punto di vista sono obbligati a farlo) e per se stessi sembra far pensare ad un effettivo adattamento secondario in quanto, quando il meccanismo di scambio e comunicazione, viene scoperto l’istituzione procede ad innovazioni restrittive del regolamento: "prima i messaggi passano… passano tramite i lavoranti dell’aria perché un lavorante dell’aria fa tutti i piani, quattro aria qua e quattro aria là, quando è sceso *** a lavorare aveva cominciato i messaggi, lui prendeva dava prendeva dava, portava all’isolamento, destra sinistra e lui per l’interesse suo, no? per pigliare un maglioncino…

Ah perché in cambio gli davano le cose?

Sì un pacco di sigaretta no? allora le guardie se ne sono accorti.

Perché c’era troppo…

Troppo movimento. Hanno fatto rapporto a lui e ha cambiato lavoro. Adesso da quel fatto diciamo non si può passare manco un messaggio.

Quindi proprio recentemente…

Eh, sì soltanto cinque mesi fa, quattro mesi fa non si può passare neanche un messaggio se vuoi passare un messaggio cuoci, diciamo un italiano parla dialetto parla arabo ti viene a trovare per fare passare un messaggio diciamo cella su cella capito?

Cella su cella, cioè dalla finestra?

Eh diciamo io secondo piano e tu terzo piano cella tua sopra mia, l’italiano con me in sezione, paesano tuo, deve far passare un messaggio a voce?

A voce?

No a passo io col filo e passa. ma adesso con ***… all’aria adesso un lavorante della sezione fa l’aria solo del piano suo, […] adesso non mettono un lavorante che gira tutti i piani dopo il fatto di ***".

Come risulta dalla testimonianza precedente e da quella che segue, sebbene la figura del lavorante svolga un ruolo centrale in quello che Goffman chiama "il sistema di trasporto", le modalità di scambio e di comunicazione, nonché quelle di riuso degli oggetti consentiti per finalità non consentite, non si limitano a questo ma sono le più fantasiose e impensate (da meritare probabilmente una ricerca a parte): "per es. quando sono diciamo paesani, da un paese, per esempio qui sono catanesi sopra sono catanesi, fanno quello che, scambiano.

E come fanno col filo?

Ma no con filo, basta con il bastone di scopa perché c’è poco spazio, non c’è bisogno di filo lungo".

Un bastone di scopa, oggetto ammesso, diventa dunque uno strumento riadattato a fini non ammessi e permette di "collegare" due celle in linea su piani diversi. Allo stesso modo altre tecniche permettono a chi va in permesso di introdurre in sezione oggetti non consentiti:

"Io qua canne non ne ho visto, però ci sono al colloquio, fanno entrare, quando vanno al permesso fanno entrare… fanno entrare qualsiasi cosa i permessanti".

Queste pratiche lungi dall’essere reali elementi di disordine per il sistema carcerario, probabilmente ne garantiscono la tenuta in quanto esprimono tutti adattamenti secondari repressi:

"quelli che dividono, con gli adattamenti primari, la caratteristica di adeguarsi alle strutture istituzionali già esistenti, senza apportare alcuna pressione verso un mutamento radicale e che possono, di fatto, avere la funzione ovvia di far deviare le azioni, che altrimenti potrebbero risultare disorganizzative".

Si tratta dunque di adattamenti che in qualche modo compensano i disagi e i disservizi causati dal cattivo funzionamento dell’istituzione. Come in ogni istituzione totale, vi sono poi anche luoghi a sorveglianza limitata, in cui, quasi per un tacito accordo tra reclusi e organizzazione penitenziaria, le libertà di movimento sono maggiori. Al Pagliarelli questo luogo è rappresentato dalle scale che collegano un piano all’altro e che conducono dalle celle ai passeggi, alle aule formative, ai colloqui ecc. Le scale rappresentano una sorta di spazio di autonomia, un territorio lasciato in qualche misura all’autogestione dei detenuti in cui si scaricano le tensioni di un controllo per il resto quasi continuo: "nelle scale non c’è nessuno solo detenuti". Non succedono spesso atti eclatanti ma il carcere, come un contenitore a pressione, è un luogo in cui si accumula un enorme tensione che può sfociare in gravi episodi di violenza: "ti dico un fatto che è successo un mese fa con un mio paesano l’hanno tagliato l’hanno ammazzato, ma sono impressionato dalla violenza che hanno usato, anche se era troppo difficile come tipo lui sai, ma il modo come l’hanno ridotto, scioccato sono rimasto sai ho visto le scale piene di sangue non so da dove… come un essere umano può produrre tanto odio… a portarti a … l’hanno massacrato si sono messi in 10 non so come non stavo lì sono sceso dopo quando ci hanno chiamato tutta sezione ci hanno chiamato ho visto il sangue era una persona sai da dove usciva tutto questo sangue e poi immaginavo di… costruire la scena come l’hanno fatto, tutto questo sangue da dove arriva, come il medioevo con le spade uno che taglia una persona e esce tutto questo sangue… e questo nelle scale… Nelle scale sì… Non c’erano gli agenti?

Non gli agenti non ci sono nelle scale è l’unico posto in cui le persone che c’hanno problemi sai, si confrontano". "È un territorio… e c’è anche una cosa te lo dico normale a me non mi interessa c’è anche spengono il fuoco, un tubo di ferro così lungo… gli idranti… si smonta quello in mezzo alle scale ci sono tre quattro… la cosa si apre fai così con la mano e si apre, quello per ammazzare, se succede qualcosa, è un arma, quella se la vede "Striscia la notizia" va a denunciare il Pagliarelli, per quel fatto!"

 

Il rapporto con i detenuti italiani

 

Il rapporto con i detenuti di nazionalità italiana è uno dei principali indicatori della qualità della vita dei migranti all’interno degli istituti penitenziari e uno dei nodi più importanti di quella rete di relazioni, che costituisce il fulcro della vita carceraria. La presenza degli stranieri al Pagliarelli è un fatto relativamente recente, specie se si considerano le dimensioni del fenomeno. I più "anziani" tra gli intervistati, quelli arrivati intorno al 1999, raccontano che ancora pochi anni fa gli stranieri al Pagliarelli erano pochi e praticamente invisibili, ignorati sia dall’istituzione, incapace di trattarne la specificità, sia dal resto dei detenuti chiusi in un atteggiamento di ostilità e diffidenza: "Prima quando ero venuto qua, vedi gli italiani giocavano da parte, stranieri da parte. Quando sono arrivato qua fino a 2000 gennaio 2000 poi piano piano ha cominciato, diciamo tre italiani mettevano stranieri a giocare con loro e cominciavano a giocare…"

La descrizione della situazione attuale, condivisa da tutti gli intervistati, indica un certo miglioramento rispetto al passato anche se poi ciascuno lo percepisce, e ne gode, in misura diversa.

"Nella maggior parte del carcere a nord dove sono stato io, se entrano in carcere magari vedi delle persone che vengono a confronto, ma non per aiutare, per chiederti dove vieni per sapere qualcosa ossia straniero come sei o italiano, cioè tenta un po’ per sapere la tua… Qui no! non lo so, la diffidenza…".

Come accennato nelle pagine precedenti, l’estrema indigenza e la mancanza quasi totale di beni, a volte anche quelli di prima necessità, condiziona pesantemente le relazioni personali, specie quelle tra stranieri e italiani, che tendono a configurarsi o ad essere percepite dai secondi, soggetti economicamente più forti, come relazioni strumentali; e la pratica del dono, o del "prestito" senza restituzione, divenuta abituale, stringe entrambi i soggetti coinvolti in un meccanismo, almeno psicologicamente, fortemente debitorio e rende quasi impossibile l’amicizia come relazione tra pari: "è poca…confidenza. Poi straniero si vergogna a frequentare la persona perché a un certo punto se frequenta comincia a chiedere un po’ di sigarette, allora non hai più neanche la voglia per scenderlo a salutarlo perché dici "appena lo saluto questo vuole chiedere qualcosa di nuovo", perché sempre entra l’interesse, perché straniero è quello che non ha niente. Frequentarti ogni giorno e chiederti delle cose non è più amicizia per certi pensieri carcerari per un’altra persona come un italiano, dice questo qua mi saluta…ma sempre… magari lo aiuta ma dice "questo qua viene sempre", perché la maggioranza ha bisogno non hanno niente qua gli stranieri, 95% non hanno nulla, niente. Quell’amico che conoscono diciamo, con cui si integrano, siciliano, si scherzano un po’ di confidenza all’aria, qua, eeeh cercano sempre magari di chiederlo qualcosa perché è l’unico con cui scherzano, non è che va da qualcuno che non conosce nemmeno, non sa… dice "scusa dammi questo"".

Non vengono riportati gravi episodi di razzismo o comunque di razzismo esplicito ("tra detenuti certamente esiste, ad es. magari a volte non te lo dicono in faccia ma lo capisci"), e gli atti discriminatori che si racconta di avere subito o di aver visto subire vengono di solito spiegati come il frutto della profonda ignoranza che imperversa nelle carceri meridionali: "e poi c’è un’altra cosa, difficile che qua al carcere di Sicilia, anche se lo vedo poco, ma è difficile per uno straniero che sta qui con ragazzi di qua italiani.

È difficile? È difficilissimo, non se riesce a integrare subito, come si dice è sempre guardato diciamo come un mau mau, là una parola che si usa da voi.

Si usa questa parola? Guardato un po’ un certo livello, che è basso, non è che… e invece sopra non c’è più queste cose qua, io sono stato a La Spezia un anno e quattro mesi in cella con tutti ragazzi tra Genovesi e Spezzini, in mezzo a loro abbiamo fatto.. ed ero quasi anzi altro che paesano, fratello per loro, c’era c’è tanta, più integrazione più complicità di frequentare per es. l’aria del carcere di La Spezia, Genova Marassi, scendi all’aria non trovi la folla di 10 marocchini 10 italiani, a Marassi scendi e trovi sei italiani, 2 albanesi, 3 marocchini che parlano discutono di calcio e trovi la partita mischiata trovi il calcetto che il marocchino con l’italiano che giocano. Non c’è questa differenza di stare qua lontano, o.. che qua esiste purtroppo, c’è questa qua… non è che è razzismo perché la Sicilia non è stata mai razzista e non può esserlo perché non appartiene alla sua storia e dopo 600 anni di dominazione araba non credo che è difficile che la Sicilia… insomma un po’ di ignoranza c’è. La cosa che deve essere che in questa regione un po’ di ignoranza c’è".

"E di più qua in Sicilia pensano sempre, perché hanno sempre percepito che straniero è sempre ignorante, uguale alla ignoranza la fame e la catena va avanti […] Forse perché la maggioranza… e quando anche un altro, un siciliano ne parla, la maggioranza non ha visto altri posti, io mi meraviglio di questo: trovo un giovane di 24 anni, non dico altro paese, ma un’altra parte dell’Italia non l’ha mai vista, quindi quella cultura, penso, è stretta per quello che non riescono a… o io pensavo che da bambini se si studia la carta geografica dell’Europa, sotto vede il Marocco e se uno ti chiede dov’è? In Asia? Io rimango proprio folgorato non… se qualcuna non mi raccontava queste cose non lo credevo. Forse è causato da queste cose, forse non è razzismo ma lo chiamo ignoranza o sono atti di razzismo ma non fatti per razzismo, fatti per ignoranza, ma degli operatori, no non lo percepisco mai.

Sì ci sono ragazzi italiani che convivono con noi stranieri da fratelli, anche qua ci sono tanti ragazzi che aiutano fra di loro anche noi. Ma ci sono anche ragazzi, non diciamo che non sono bravi, ma ci stanno ragazzi ignoranti, perché ogni tanto io, mi chiedono, io sono stato con un italiano da Messina per un mese e mezzo e lui mi chiede ogni tanto quando vediamo il giornale, le cose così e si parlano dell’Afganistan, dopo mi dice "l’Afganistan è vicino a voi?" Io gli dico no, ogni tanto gli faccio vedere che l’Italia e la Tunisia sono vicine. "Ma tu non conosci la Tunisia?" Questa cosa lui la ignora, perché se uno ad es. andato, ha girato Africa Europa, così, così lo sa bene che noi possiamo vivere insieme perché io sono dal mio paese qua non è per entrare dentro il carcere o fare furti, spacciare, no".

"Parlo in generale, la cultura qua non m’è piaciuto per niente io pensavo che c’era una certa solidarietà, però… non è come la immaginavo. [A Genova ndi] sì, solidarietà e non c’è questi comportamenti parlo anche di italiani che sono lì, italiani che la maggioranza sono tutti del sud, palermitani, napoletani, però non si comportano come qua, non lo so; per quello che m’ha fatto arrivare alla conclusione che cambiando e girando si acquisisce più cultura, più, per es. anche qualche siciliani che ho incontrato in Germania.. un’altra cultura veramente […] però qua sono cose arcaiche non so se dovranno esistere nel 2000, io rispetto ogni cultura però, dico è il comportamento tra i detenuti che più mi tocca…"

E l’ingiustificato senso di superiorità manifestato da molti Italiani nei confronti dei detenuti stranieri desta in qualcuno un’ironia feroce e amara: "sei straniero? Sempre straniero sei un schifo, io sono italiano, molto sviluppato, studiato tanto, problema che non sanno scrivere [ridendo] questo è che mi fa infuriare anche se per me non capitano queste cose qua perché io molto riservato io non do tanta confidenza ti rispetto come te, rido con te a un certo limite…"

Secondo qualcun altro gioca un ruolo anche un’atavica abitudine ad essere diffidenti verso l’altro come un portato di una subcultura che distingue tra amici e nemici non solo su base etnica ma persino in relazione alla provenienza da una città siciliana piuttosto che da un’altra: "magari anche pensandolo ma non si dimostra magari, si dimostra solo quelle parti che per es. diciamo nell’inconscio; quando ti lamenti per l’acqua, non come me perché io non arrivo a certe confidenze, non con le guardie ma anche con miei compagni, arriva qualcuno, sente miei paesani che parla per l’acqua o scherza e dice che l’acqua… "ma come, fate la doccia con la sabbia e ti lamenti qua?". Ma su quel livello, quelle parole che sono battute ma un pochino con doppio senso, al limite quello ma in generale non c’è io non la percepisco la differenza degli operatori, magari fra i detenuti sì si percepisce però… […]non solo verso stranieri…per una cultura che a me non mi piace; solo per es. un catanese non è come un palermitano.., quelle cose a me mi danno sui nervi, magari io sono neutrale non è che appartengo a Catania, né a Catania né qua, però quelle cose lo vedo, per es. uno da un posto che… sempre ha torto in confronto all’altro e quelle cose sì non so che la chiamano tecnicamente subcultura carceraria quella a me non mi piace qua, altre cose no".

"Qua la maggior parte sono separati, non solo tra stranieri ma anche tra italiani, tra palermitani, catanesi, sono separati ma non è che hanno qualcosa, solo uno cerca sempre un paesano, maggior parte separati".

Vi è poi la percezione che l’essere sottoposti o meno a processi di esclusione e pratiche discriminatorie dipenda anche dalle proporzioni tra italiani e stranieri in una data sezione: "Quando sono pochi nella sezione sì, per es. io a pallone non gioco però lo vedo se c’è… qua all’est sono 4 piani per es. al terzo piano è metà stranieri e metà italiani io sono al primo e già siamo 11, e io personalmente problemi non ne ho mai avuti, però per es. stando prima al secondo piano, io non gioco a pallone però c’erano 4 3 stranieri che giocano a pallone e c’è qualcuno che gioca benissimo, mio paesano, però non li fanno mai giocare o fino all’ultimo, però anche quelli che fanno la squadra forse io lo capisco ma il mio paesano non lo capisce.. perché anche quello, l’italiano, che fa la squadra è costretto, per es. a fare entrare a far giocare quello che conosce qua, gli altri per es. uno da Catania, accetta quella cultura invece il straniero non lo accetta, si ribella subito, non l’accetta, quelli non so se li chiamerei razzista ma sono episodi che succedono spesso…".

Il viaggio, in molte delle testimonianze appena citate, è considerato un veicolo di arricchimento culturale e uno strumento per accrescere la propria capacità di comprensione dell’altro, dell’estraneo. Non essendosi mai mossi dalla propria città, gli autoctoni vengono giudicati meno capaci di reagire positivamente ai cambiamenti e alle differenze e, padroneggiando solo il proprio dialetto, meno abili alle esigenze della comunicazione in una società multietnica. Specularmente, gli intervistati confidano molto nella propria esperienza di viaggiatori; conoscitori di diverse lingue, rivendicano un ruolo non marginale nella comunità e sono convinti di potere col tempo superare ogni discriminazione. E infatti alcuni di loro, pur notando la situazione critica di altri compagni, dichiarano di avere, a livello personale, un ottimo rapporto con gli italiani: "Noi al quarto piano viviamo come una famiglia palermitani, catanesi, trapanesi, tunisini, algerini non c’è mai manco una differenza fra di noi, tutti siamo in famiglia, faccio io i dolci mangia tutta la sezione, fai tu a pasta manda e mangiamo tutti, diciamo famiglia no? tu fai colloquio e mandami un pezzo di formaggio, l’altro fa colloquio e manda un pezzo di pane, tu fai colloquio e mandi carne di maiale".

Un marocchino, dotato di una buonissima proprietà di linguaggio e di grandi doti comunicative cerca di descrivere il processo attraverso il quale è riuscito a costruire la sua amicizia con italiani e superare una situazione critica creatasi subito dopo l’11 settembre: "il rapporto con gli italiani, all’inizio perché non era tanta confidenza, nel senso … anche io avevo un’altra mentalità loro, ma poi piano, piano non ci sono problemi, non ho problemi, non solo in questo carcere, in qualsiasi carcere perché, dipende dai comportamenti, no? Le cose devono essere reciproco: se tu mi rispetti io ti rispetto, tu scherzi con me, io scherzo con te ma sempre nei limiti, non vado oltre i limiti […] Non è che loro sono avvicinati a me, io che mi sono avvicinato con loro, piano, piano mi sono avvicinato a loro. Non ci sono problema: gioco carte con loro, scherzo con loro faccio di tutto, tutto con loro. Per es. vanno colloquio no? Arriva roba dal colloquio, "assaggia", fanno assaggiare, pasta fanno assaggiare sugo…

E in generale la situazione com’è?

In generale è un po’ critica. È un po’ critica perché io te l’ho detto, no?, dipende dal comportamento no? perché io non posso avvicinare te perché questa è la cultura dominante, nel senso che se io per conoscere la cultura dominante devo io avvicinarmi no? Anche che loro migliorano, non si avvicinano, anche che io miglioro non mi avvicino a loro, così non c’è più dialogo, c’è solo la lontananza, la diffidenza. Successo il fatto dell’11 settembre, no? Ci sono persone che non sanno parlare, per esempio stiamo parlando io e un altro italiano, si parlava di Bin Laden, viene uno e dice: "Bin Laden, se lo faceva a Palermo tu non stavi qua a parlare, non parli con me" "Ma cosa stai dicendo?" gli ho detto "Tu non parli con me, vedi che mi stai lanciando una sfida, una sfida, ma cosa stai dicendo, perché non devo parlarti? "Perché io ci ho famiglia" "E io non ho famiglia, pezzo di merda? Ma cosa mi stai dicendo?" "Ma senti – diceva l’altro – Lascia stare è ignorante" "No, non è ignorante, questo mi sta provocando". Se mi provochi mi trovi. Abbiamo avuto una discussione, no?. Poi l’ho beccato in doccia, e gli ho detto: "adesso come la mettiamo? Perché mi insulti "Arabi di merda" e cose di queste…"

"…Islam di merda, perché io ti ho detto cristiani di merda? Ti ho detto qualcosa, ti ho detto italiano pentito?" "No". "Allora cosa vuoi?" Perché tu generalizzato? Bin laden ha fatto quelle cose, sono affari suoi. Io con te non abbiamo niente, non devi giudicarmi per quello che ha fatto Bin Laden. O io devo giudicarti per quello che ha fatto Totò Riina, o devo giudicarti per quello che ha fatto Buscetta? Io non ti giudico, e lo stesso devi fare con me. "No perché io…la radio…." Tu la radio… Con me non devi fare queste cose, non solo con me con qualsiasi persona, perché se io ad es. dico va bene, io sto con Bin Laden e queste cose, diventiamo due tifosi no, e succede sai in campo, no? Ma se io me ne frego, da Bin laden me ne frego, da Bush me ne frego, me ne frego, Berlusca me ne frego!, io guardo a me, sono già nei miei guai, mi metto a pensare, ma conosci qualcuno? Mai Bin Laden mi ha dato mille lire. A quel punto, allora, da lì abbiamo avuto un ottimo rapporto di amicizia, non ci sono problemi…".

E chi tra gli stranieri ha i rapporti migliori con gli italiani, grazie alla lingua ed alla anzianità di carcerazione diviene spesso una sorta di latore di messaggi tra un gruppo e un altro e mediatore di eventuali conflitti, rivestendo un ruolo strategico nel mantenimento degli equilibri della sezione. Infatti, il numero sempre maggiore di stranieri giovanissimi che capiscono poco l’italiano, che sono alla prima carcerazione, e dunque assolutamente ignari delle più elementari regole della convivenza carceraria, rappresenta un elemento di disordine potenziale non indifferente all’interno del carcere. Da questo punto di vista la presenza di stranieri che godono di confidenza e rispetto presso gli italiani costituisce anche un elemento di protezione per coloro i quali abbiano commesso qualche "sbaglio" o "incomprensione": "…perché io più anziano della sezione [… ] anche degli italiani, e dice *** ma vedi il paesano tuo? Almeno parla con lui, si comporta bene se no lo prendiamo nelle scale e piglia a terapia, parlo con lui e dico cerca a comportare bene…".

"…poi i rapporti, adesso se è successo qualche cosa tra un straniero e un italiano, non si sono capiti, o l’italiano viene da me e dice "guarda il tuo paesano ha fatto questo e questo" vado mettere le cose a posto nel senso "guarda che queste cose non si fanno, tu hai sbagliato con quella persona e lui è venuto a parlare", nel senso faccio spiegare le cose e poi li metto d’accordo; è lo stesso perché la maggior parte non parlano italiano non capiscono. Qualche disguido per es. un dissenso, qualcosa fra italiani e stranieri no? Allora loro dicono che sono più anziano di questi sopra perché ci ho dell’età e perché parlo meglio di loro l’italiano. Per es. "il tuo compagno ha fatto questo cosa…".

Un altro aspetto che influenza la natura della relazione tra italiani e stranieri, sottolineato da alcuni degli intervistati, dipende dal fatto che, a fronte di una teorica uguaglianza di trattamento nell’ambito dell’accesso ai benefici, gli stranieri non godono dello stesso tipo di opportunità degli italiani di usufruire dei benefici previsti dalla cosiddetta "premialità". Ora, il sistema della premialità, come è stato da più parti notato, ha senz’altro contribuito a diffondere nelle carceri un clima di pacificazione e l’attenuarsi di forme estreme di rivendicazione. L’aumento degli stranieri ha tuttavia reintrodotto un elemento di disordine dei rapporti interni ai penitenziari proprio per questa difficoltà di far seguire ad un comportamento esemplare i benefici previsti. Ciò ha contribuito alla idea, condivisa da molti italiani, che la maggior parte degli stranieri, non facendo colloqui, non usufruendo di pene alternative, non avendo in sostanza niente da perdere, possano farsi carico di lanciare rivendicazioni e protestare al posto degli italiani: "poi purtroppo per straniero è sempre difficile, per come lei sa in altre carceri straniero è sempre quello che avanza per primo, se c’è qualche rivolta questi casini li fai tu.. il marocchino, il straniero è sempre quello che va in prima fila perché non facciamo colloqui, non ho niente allora è quello che fa la protesta per primo è quello che finì… io ero a Marassi, ci furono in tutto il carcere le rivolte, appena sono finite io di quelli subito m’hanno transferito in Sicilia. E gli altri ti giuro che hanno fatto cose terribili ma comunque non li hanno proprio toccati stanno ancora là dopo 6 anni 5 anni, stanno ancora a Genova fanno quello che vogliono tranquilli, io che ho una famiglia straniero, non ho nessuno, non sono sposato, addirittura m’hanno mandato qua, non lo so 1.600 km, 1.200 km lontano dalla famiglia ed è una sofferenza".

Nel lungo frammento di intervista che segue, il meccanismo viene descritto in tutti i suoi aspetti: "non c’è un ricompattamento, assolutamente no. Io , ad es., è proprio storia di ieri, nella sezione dei semi-liberi, la televisione non funziona, io da qui ieri ho scritto un’istanza affinché possa sistemare la televisione e ho portato questa istanza ieri sera, là ho detto ai ragazzi di firmare e inoltravo questa cosa al personale affinché… nessuno l’ha firmata. Nessuno, ho firmato soltanto io. Ho chiesto perché, m’hanno detto perché la televisione, loro non sanno chi l’ha rotta, e io ho dovuto fare un messaggio personale… per dirti che non c’è, non è che c’è diciamo così non soltanto gli immigrati, anche tutta la popolazione penitenziaria, parlo dei detenuti, la categoria dei detenuti, non è che c’è un ricompattamento, perché anche la politica gestionale proprio del carcere, fa sì, si sforza comunque a sgretolare ogni meccanismo comunque di ricompattamento dei detenuti perché sa che sicuramente se si mettono insieme se creano un blocco per la difesa dei loro diritti, sicuramente riusciranno a farsi sentire, perciò cosa fa l’amministrazione penitenziaria? Cerca di mettere i detenuti in una situazione di negoziazione, di negoziazione anche attiva, nel senso che ti dice: "se tu sottostai a quello che noi ti proponiamo, in conclusione, diciamo così, c’è una revisione della tua pena", praticamente. Perciò ad es. quelli che usufruiscono dei permessi premi, vengono…sono in una situazione in cui gli viene difficile aderire ad una protesta collettiva, promossa comunque dagli altri detenuti, perché hanno paura di perdere diciamo così, questo privilegio, che è quello dei permessi premi, che non è un diritto acquisito, ma che va dalla discrezionalità dell’amministrazione penitenziaria e della magistratura di sorveglianza, perciò lo possono togliere quando gli pare. Non è che è un diritto tuo. E allora una volta che ti concedono questa possibilità, sei in una situazione in cui se c’è una piccola protesta, hai paura di aderire altrimenti ti tolgono questa cosa. Perciò è difficile un’aggregazione comune… con un fine comune che è quella della difesa dei propri diritti all’interno del carcere.

Evidentemente negli altri carcere, non è così, c’è più, si fa più gruppo. Più che altro perché là il livello… come posso dire, il livello di istruzione dei detenuto è più elevato di quello di qua. Allora, prendiamo gli immigrati ad esempio. Il tasso di analfabetizzazione è molto elevato. Anche tra gli italiani, ecco che diventa difficile, ad esempio, io mi ricordo… il rapporto tra detenuti è un rapporto speculativo, spesso…

Cioè in che termini?

Faccio un esempio: i detenuti italiani fanno colloquio no? E a volte quando gli agenti dicono vabbé, la prossima settimana non c’è colloquio perché c’è mancanza di personale, noi… è meglio che non ci sia colloquio, i detenuti italiani vengono a trovare i detenuti stranieri, per dire che dobbiamo protestare, dobbiamo fare un sciopero della fame generale, per far sì, cercano di rivedere la loro posizione e farci fare quello che… ma i detenuti stranieri non fanno colloquio, ok? E i detenuti stranieri fanno questa cosa, sciopero della fame, premetto che sciopero della fame anche se essendo il sciopero… c’è un diritto a scioperare, subito però c’è un rapporto disciplinare, tutti coloro che fanno un sciopero della fame. I detenuti stranieri lo fanno. Quando i detenuti stranieri c’hanno un problema, dicono agli italiani guarda che… questo dice "ah! Io non posso farlo perché c’ho il permesso… a me mi tolgono il permesso…" Allora la cosa va così, perché io mi ricordo che l’anno scorso c’è stato tra l’altro una discussione molto accesa, tra italiani e stranieri per questo fatto qua.

In che occasione?

Perché per la seconda volta chiedevano agli stranieri di scioperare, per una questione di colloquio saltato.

Cioè loro chiedevano agli stranieri di fare loro lo sciopero non italiani e stranieri insieme?

No, di aderire al loro sciopero, e io personalmente nella sezione, io ho detto agli stranieri di non farlo perché prima noi avevamo chiesto a loro di aderire ad uno sciopero, ad una protesta, per una questione di sussidio, perché avevamo saputo di una organizzazione non governativa aveva dato dei soldi per gli immigrati, cioè per i non abbienti, diciamo, e l’amministrazione in questo senso non riuscivamo a capire come mai l’amministrazione non voleva assolutamente dare nulla agli immigrati allora abbiamo cercato di protestare e gli italiani avevano detto sinceramente, per dirla così non glie ne può frega di meno, in questo senso. Abbiamo fatto lo sciopero con loro per i colloqui e dopo, la seconda volta, quando sono venuti, prima ho detto ai ragazzi, agli stranieri, io vi dico è meglio non fare niente perché quando tocca a noi, loro mica aderiscono, e i ragazzi hanno accettato clamorosamente, tutti si sono compattati, io mi sono reso conto che io l’avevo detto, però loro pensavano già così e pian piano hanno detto: "no, non facciamo niente".

 

La convivenza tra diversi gruppi etnici.

 

Oltre alla principale distinzione tra italiani e non italiani, la comunità carceraria è attraversata da molte altre differenze all’interno del "blocco" solo apparentemente omogeneo degli stranieri: "Dentro il carcere c’è una quasi ubicazione, un sistema di ubicazione soltanto fatto… in una maniera del tutto, tipo una topografia etnica, capito? I magrebini sono con i magrebini…, i nigeriani sono con i nigeriani.

Questo dove lo vedi? Quali sono i luoghi dove puoi vederla questa cosa?

Questo è palese, dentro il carcere, là è così. Ovunque, ovunque. Anche vivono nelle stesse celle ecc. ecc.[…] L’istituzione già lo sa, li mettono così, perciò è molto difficile che in carcere ci possa essere, come si dice, un arricchimento culturale, ad es. Non è che l’altro… cercare di capire la cultura… non c’è questo! Albanese con Albanese. Gli Albanesi sono con gli Albanesi, gli Italiani sono con gli Italiani e i nigeriani… io ad esempio vengo dalla Costa d’avorio, ma però no, con i nigeriani non è che mi mettono con i nigeriani. Io ad es. personalmente, questo è un discorso personale, ho cercato di avvicinare i nigeriani però mi hanno messo fuori.

Perché?

Perché non ero nigeriano. Io guarda, adesso è un discorso soggettivo, io personalmente questi quattro anni li ho passati soltanto a leggere e basta, perché io li ho passati in una maniera, in una solitudine più totale, perché in quattro anni io non ho mai incontrato uno della Costa d’avorio in carcere".

Alle differenze etniche si mescolano anche quelle derivanti dai reati commessi prima di entrare in carcere: "Mah gli Albanesi a noi, ci teniamo una certa distanza, comunque, anche per carattere carcerario. Saluti, salutare, scherzi, giochi al pallone ma una certa distanza, anche guardarli a un certo… punto perché come lei sa, pedofili e sfruttatori di donne, queste cose qua, qua vanno malissimo, solo che la cultura carceraria è cambiata, perché prima se entravano gente come loro che sfrutta le donne, queste cose, prostituzione, venivano picchiati quello che finiva in carcere. Allora è sempre guardato un po’ male, non… perché quel reato è uno dei più brutti, perché non è che vai a rubare, fai qualcosa che non è… vai a prendere una ragazza, vai di là… costringerla a queste cose, noi li guardiamo male".

E c’è chi in ogni caso, intenzionato a trascorrere tranquillo la propria detenzione, decide di limitare al massimo le interazioni con altri: "gli albanesi fino adesso non ho frequentato nessuno loro per i fatti loro io per i fatti miei… ci sono con noi tre, penso, albanesi ma non ci parlo neanche.

Come mai?

Così non è che sono razzista per dirti li odio, è così ci ho qualche paesano mio, ci parlo con loro, basta. Meno amici, meno problemi, meno guai, meno casini… È la regola mia, non del carcere, anche con i paesani miei, c’è uno con noi qua che non mi piace non lo saluto neanche, neanche buongiorno, basta mi giro come non c’è non esiste un casinista che grida sempre, non mi piace non lo saluto".

 

I rapporti con lo staff

 

Interrogati sulla natura delle loro relazioni con il personale del carcere, gli intervistati sono stati assolutamente concordi nel denunciare il proprio stato di abbandono e la difficoltà di riuscire ad essere ascoltati dall’istituzione. Dai racconti emerge invariabilmente un senso di frustrazione, solitudine e impotenza che tra l’altro viene identificato come una delle fonti delle proteste attuate con sempre maggiore frequenza dagli stranieri, del disagio psichico diffuso e dei fenomeni di autolesionismo, anch’essi in aumento.

"Qua non c’è nessuno che si frega di me con chi parlo? chi mi ascolta? gente che ti dicono di sì ma bisogna capire nello stesso momento che significa no, non vogliono interessare dei tuoi problemi, questa è la cosa che esiste qua veramente qua esiste razzismo 100% io considero questo una cosa che io vedo contro di me come sono immigrato di fuori di questo paese io considero razzismo".

"Ci credi certe volte faccio 100 domandine se io calcolo le domandine che faccio per la stessa cosa e non mi risponde nessuno. Queste domandine vengono strappate? non lo so, io giudico così, ma perché io ho fatto tante domandine e non ho avuto risposta per nessuno? O vengono strappate o vengono buttate".

Si lamenta in particolare l’assenza degli educatori e degli assistenti sociali e la difficoltà di incontrare i responsabili della Polizia Penitenziaria. Di fronte a questa situazione, qualcuno mostra di sapere che ad es. il numero degli educatori è probabilmente inadeguato alle necessità di un carcere con più di mille detenuti ("dicono che siamo troppi!") , ma molti altri non riescono a farsi una ragione del proprio stato di abbandono e delle lunghe attese per ottenere un incontro: "Dicono che siamo troppi, qua, e "non possiamo vedere tutti, dovete aspettare" … se uno sa che l’ispettore viene, va bene aspettiamo da lunedì fino a sabato e "sabato mattina ti chiama l’ispettore"… e non ti chiama, sabato prossimo e sabato prossimo e non ti chiama, non ti chiama, non c’è, troppo occupato e passa un mese due mesi così e non ti chiama".

"Non so perché non mi chiama, una volta due volte tre volte non mi chiama, poi la pazienza sai perde e quando perdi la pazienza anche reagisce no?…reagisce in modo negativo no?…cerchi… è un’azione involuta irrazionale sai? Tu non la puoi comandare che viene dal sentimento, a volte viene rabbia dentro sai?, perché ti senti… ti senti…non so perché, cerchi di analizzare perché non ti chiama: non ti chiama perché sei straniero, non ti chiama perché non… sei qualcuno, non ti chiama perché, perché non ti chiama …cerchi di trovare perché e perché non lo trovi mai. Per questo cerco di non prendere troppo sul serio…".

"Non voglio essere chiamato ogni mese, voglio essere chiamato ogni tre, ogni due mesi una volta, mi aspetta nella legge quando sono arrivato, parliamo della legge come è stata fatta, è il mio diritto, io devo la galera ma io aspetto tante cose che io magari no aspetto tutti ma però sono delle cose importanti che non mi fanno sentire umiliato davvero".

Uno degli intervistati, centrando molto lucidamente uno degli aspetti più critici dell’organizzazione interna dell’istituzione penitenziaria, individua il motivo principale della sofferenza degli immigrati nella mancanza di coesione e nei conflitti interni al personale del carcere: "io vivo dentro il carcere, so che il comandante non va d’accordo con la direttrice, la direttrice non va d’accordo con l’agenti, l’agenti non vanno d’accordo con gli educatori e noi stiamo nel mezzo.

Cioè tu questa cosa la percepisci?

Così funziona qua e noi siamo nel mezzo.

E tu da cosa lo vedi che per es. gli educatori non vanno d’accordo con gli agenti, cioè quali sono i segni che tu…?

I segni… magari quando tu spieghi certi problemi ti dice "scriva alla direttrice", cosa significa?

Lui dice scriva alla direttrice, lui chi l’agente o l’educatore?

L’agente. Cosa significa questo? Si vede, non siamo bambini, non siamo nani, bambini appena nati ieri, ma un certa età, certi esperienze, forse di più meglio di tutti quelli che lavorano qua, se io uso mio cervello può arrivare a cento cose più importanti…"

La constatazione che soltanto ricorrendo a proteste più o meno plateali, "facendo casino", si riesca ad ottenere, se non il soddisfacimento delle proprie richieste, almeno di essere ascoltati quando lo si desidera, è condivisa da tutti gli intervistati: "se uno fa sciopero, diciamo così, tira un piatto fuori dalla porta, ti chiamano subito, "ma perché fai sciopero?" e così e così. E l’ispettore c’è allora, c’è; perché in un carcere sempre c’è ispettore. E quando uno fa la domandina, la richiesta per vedere l’ispettore, il personale, gli dicono "non c’è". E questo non lo so perché, non vogliono la responsabilità…".

"Quando abbiamo qualche problema soltanto se facciamo sciopero possiamo incontrarli […] Da quando sono venuto due volte mi sono incontrato con l’educatore, quando mi hanno chiamato loro quando ho chiamato ho chiesto io no, niente".

"Se uno si segna al comandante, non lo chiamano mai, io è da un tempo che ogni venerdì mi segno… udienza, udienza, udienza, ispettore non l’ho mai visto, meno male che qua becco qualche appuntato per parlare, se no… se uno sopra butta il piatto, piglia la lametta, poi sciopero, piglia lametta e lì si taglia, sicuro che lo chiamano…ma perché dobbiamo arrivare a queste cose per avere quello che ci aspetta. "posso parlare col comandante?" ogni venerdì segniamo udienza, "sabato ci chiama", non ci chiama mai nessuno, dimenticati, no? Parcheggiati e dimenticati non abbiamo niente a disposizione, non abbiamo niente, nessun aiuto, non ti chiama né l’educatore, né psicologo né assistente sociale, non ti chiama nessuno… per questo… cosa fa persone per sfogare, no? Prendono con lui l’agente di sopra, uno che non c’entra assolutamente niente, ma diventa uno scudo, no? Uno scudo per arrivare a quelli che stanno dietro a scrivania, l’appuntato non c’entra assolutamente niente, perché dove va, si incontra con un blindato, con muro blindato, no? Non può andare oltre, non può fare telefonare, il capoposto oltre non può fare. Il capoposto sai m’ha detto chiaro e tondo, m’ha detto: "io non ti aiuto" "e perché, non m’aiuti?" "così" "e perché?" il capoposto: "siete assai" "come siamo assai?" " siete assai" come se uno… "e voi che siete disorganizzati, non è noi, voi che siete disorganizzati".

"A Termini Imerese faccio a domandina per corso elettricista, mi dice l’educatore "no, lei non può" "perché non posso" "perché dobbiamo farlo solo per persone che manca un anno per uscire" "ma perché persone che manca un anno per uscire e perché non posso?" "Ma lei ha fatto la terza media" "Sì, c’ho la terza media" "ma lei…?". "Sì, sì". Io ho detto "guarda, si fa un test, siamo in trenta, loro vogliono dodici, vogliono venti, siamo in trenta, si fa un test, quello che ha più punti, più punteggio, quello viene ammesso al corso". Capisci? Se no impazzivo… perché chiedendo le cose pacificamente, no? se ne fregano… se non mi fate inserire nel corso, non mi fate frequentare il corso io faccio un casino della madonna vi brucio a cella… l’indomani ti chiamano e dicono "sei inserito nel corso…" ma perché uno deve arrivare a questo punto, io… fare queste cose nel senso che o devo buttare fuori qualche cosa…".

E invece, per chi ha fatto la scelta di portare a termine una carcerazione tranquilla, e di non ricorrere a gesti estremi per rompere il muro dell’indifferenza, come nel caso di uno detenuto albanese, questo si traduce nella difficoltà per ottenere un lavoro e nell’essere scavalcato dagli altri: "so che tanti per es. sono venuti dopo di me qui in Pagliarelli e hanno lavorato ma loro hanno fatto sciopero, io non faccio sciopero perciò sono ancora senza lavoro, così ho deciso".

Entrando nel merito del lavoro svolto, dagli educatori il giudizio poi, non è sempre negativo, poiché chi tra gli intervistati è riuscito ad essere ascoltato, afferma di avere avuto un buon rapporto e di essere stato aiutato in qualche modo ma il problema è che "è difficile incontrarli, non so perché forse per mancanza di è difficile incontrarli, non so perché forse per mancanza di personale, io non saprei, è molto difficile perché ad es. fai un’istanza comunque con cui solleciti un incontro con l’educatore e passa almeno non lo so un mese, e la non so a che cosa questo è dovuto".

La frustrazione e la sensazione di impotenza che serpeggiano nei brani fin qui riportati sono peraltro complementari al diffuso sentimento di insoddisfazione vissuto a sua volta dal personale dell’area educativa, dagli psicologi e in generale da tutti i soggetti che operano all’interno del carcere: "E il senso di frustrazione per la mancanza di incisività del proprio operare può indurre proprio gli addetti al trattamento, gli educatori in special modo, a perdere fiducia nella possibilità di riabilitazione del detenuto – e quindi nel proprio lavoro – e di conseguenza ad accentuare un approccio di tipo regolativo e burocratico".

Se il giudizio su "chi sta dietro la scrivania" e sull’apparato burocratico che presiede all’area trattamentale è fortemente critico la tradizionale opposizione tra detenuti e agenti ha assunto nelle interviste raccolte toni meno accesi di quanto non mi aspettassi. Nessuno degli intervistati ha mai utilizzato la dicotomia "guardie VS ladri", e non ho notato mai quel disprezzo per lo "sbirro" la cui forza mi era invece capitato di notare in alcune precedenti discussioni con detenuti italiani: "agenti sono bravi, fa parte uno o due, sono bravi. Perché sono stato arrestato a Milano s. Vittore, là erano, ti provocavano.. qui sono bravi, fa parte uno due che, diciamo che sono un po’ stretti non in senso che ti provocano, non abbiamo problemi, agenti, ma quelli che sono un po’ sopra [la burocrazia, quelli più in alto gerarchicamente ndi], mai avuto contatto!".

Tuttavia, come si può immaginare, nelle descrizioni degli intervistati quello tra controllori e controllati è un rapporto non privo di tensioni, specie se si considera che nell’assenza delle altre figure professionali nella vita quotidiana del detenuto straniero, gli agenti sono tuttora, di fatto, gli operatori con i quali i detenuti hanno modo di confrontarsi maggiormente. Essi rappresentano per così dire l’interfaccia tra il "sistema" e il detenuto stesso, il primo punto di contatto e quindi inevitabilmente di attrito tra istituzione e reclusi, per non dire tra reclusi e società, in generale. A ciò si aggiunge, come già accennato, che la polizia penitenziaria attraversa una fase storica di riorganizzazione e di ristrutturazione che non è stata finora in grado di rispondere a importanti questioni di fondo riguardanti l’identità professionale e la fiducia nel proprio ruolo. Un punto estremamente critico è in particolare quelle delle modalità di realizzazione dei nuovi compiti attribuiti al corpo dalla legge 395/90, il cui articolo 5 prevede oltre alla mera funzione di custodia anche la partecipazione attiva alla attività trattamentale dei detenuti. Ma questa nuova richiesta da parte della società si scontra con l’assoluta inadeguatezza dei percorsi formativi rivolti al personale finora attivati e dunque rimane insoddisfatta, come emerge chiaramente da questa testimonianza che identifica nella pura e semplice sorveglianza l’unico compito reale degli agenti: "gli agenti… di questo carcere…io considero gente di nessuna importanza per me, gente che non possono essere utili per niente, soltanto portano certe chiavi: sono polizia penitenziaria che aprono chiudono; loro fanno come stati guidati comandati da parte dei loro superiori: aprono chiudono".

Gli agenti, specie quelli con i gradi inferiori, che sono poi gli operatori front-line del carcere, "quelli che aprono e chiudono", rappresentano dunque un’interfaccia troppo fragile, troppo poco preparata e motivata per rispondere in maniera adeguata alle sollecitazioni derivanti dalla relazione con gruppi di detenuti portatori di differenze linguistiche e culturali e inedite istanze di risocializzazione.

A questo proposito può risultare interessante far riferimento ad una situazione, analoga a quella già citata in precedenza, in cui mi sono trovato casualmente a confrontarmi con due agenti di turno alla rotonda nell’attesa che un loro collega mandasse giù un detenuto da intervistare. Uno di loro mi chiede come mai devo intervistare un detenuto. Credono sia un giornalista e dunque assumono un atteggiamento difensivo, cerco di spiegare di cosa mi occupo e della ricerca in corso, dopodiché il discorso cade ovviamente sulla questione degli stranieri. Uno dei due mi dice: "dovremmo mandarli ai forni crematori", ma nell’affermazione il tono razzista è meno forte di quanto non sembri a prima vista, probabilmente l’intento è semplicemente quello di provocarmi, come di solito tendono a fare con tutti gli operatori esterni, soggetti con i quali il rapporto è di norma molto conflittuale. Mi "spiegano", lui e il suo collega, che il recupero con gli stranieri non serve a niente perché poi quando li mandi fuori non hanno possibilità e tornano dentro, rispondo che appunto per questo bisogna lavorarci e chiederci in quanto operatori a che serve il carcere… Concordiamo sul fatto che bisognerebbe accompagnare gli stranieri fuori, dargli un lavoro e "controllarli", altrimenti il recupero è impossibile… ma poi uno di loro aggiunge "io non credo nel recupero…", il che in fondo equivale a pensare "io non credo nel mio lavoro" oppure "il mio lavoro è soltanto tener chiusi" . Nel frattempo arriva il detenuto che stavo aspettando, interrompiamo la conversazione ma nell’allontanarmi gli dico che mi piacerebbe avere la possibilità di continuare a discutere perché mi interessa la sua opinione. A questo punto il volto del mio interlocutore si illumina, stupito e lusingato dal fatto che i suoi pensieri possano essere oggetto di interesse per un operatore esterno quando di solito, come ha ben notato Pietro Buffa, direttore del carcere Le Vallette di Torino: "nelle occasioni informali spesso si percepisce nettamente il convincimento di non essere conosciuti e considerati dalla società esterna e oggetto di attenzione solo in occasione di errori e manchevolezze vere o presunte".

La reazione di soddisfazione per la mia dimostrazione di interesse nei confronti delle opinioni di quell’agente rivela infatti una sensazione di isolamento e di incomprensione da parte dell’istituzione e del mondo esterno non molto diversa dai sentimenti di abbandono e di impotenza espressi dai detenuti stranieri. Ma qual è lo stato attuale della relazione agenti-detenuti stranieri al Pagliarelli e quali le strategie di comportamento attivate per sopravvivere quotidianamente nell’universo carcerario? Dalle interviste raccolte è possibile ricostruire, almeno a partire dalla prospettiva parziale dei detenuti, gli elementi principali. Innanzitutto tutti gli intervistati dichiarano di essere riusciti "personalmente" a costruire un buon rapporto con gli agenti, scelta in qualche modo obbligata per non avere problemi ed evitare di incorrere in rapporti disciplinari, che appunto gli agenti hanno la facoltà di compilare: "in generale il rapporto tra stranieri e agenti non è che è così idilliaco assolutamente no, perché noi dobbiamo prendere l’agente cioè proprio nell’adempimento delle sue funzioni… la funzione che svolge proprio all’interno del carcere perché la guardia è la più diciamo così sottoposta direttamente… al contatto diretto con i detenuti; e in questo caso vive quotidianamente lo stato di desolazione, e deve gestire questo stato di desolazione dei detenuti e dei detenuti immigrati. Posso dire questo che effettivamente anche la diversità culturale rende difficilmente pacifico questo rapporto. La guardia è già prevenuta nei confronti del detenuto straniero in particolare ed pronto comunque a negargli tutto. […] Io personalmente ho avuto un buonissimo rapporto con gli agenti perché io credo comunque è sempre una questione anche di strategia… di strategia di sopravvivenza…[…] Inizialmente le guardie tendono sempre a provocare… cercano una reazione nel detenuto dal momento in cui loro gli è stato conferiti a loro comunque la discrezionalità, anche sui detenuti, nel senso che possono ad es. Allungare la permanenza di un detenuto dentro il carcere perché le relazioni anche loro collaborano alla elaborazione delle relazioni comportamentali sui detenuti".

Nel rapportarsi agli agenti, con il tempo e l’esperienza si impara la sottile arte della cautela: "È una cosa facile prendere un rapporto, facilissimo. Per la minima cosa ti fa un rapporto, non lo so può darsi perché per avere paura in più ti fa rapporto, è facile, deve solo saper comportarsi, faccio qualche errore anch’io, ma non la faccio diventare grande la cosa, dipende dall’agente: "tu hai fatto questo, ti faccio rapporto", "scusami non lo sapevo, cioè sempre con calma, non è…"; ci sono persone che rispondono un po’… superano un po’ di cose… io salgo in sezione non vado davanti alla mia cella vado davanti a un’altra, l’agente mi chiama diventa arrabbiato e dice ora ti faccio rapporto perché non sei salito davanti alla tua cella, ma dai c’è un altro dice no è una cosa di niente non mi fare rapporto, e allora ti fa il rapporto e ti scrive anche mi hai risposto male e invece io dico "scusa non l’ho fatto apposta", lo faccio con calma".

"Dipende, il rapporto degli agenti dipende da, dalla giornata, a volte c’è l’agente che gli pesa la giornata, pure lui c’ha la famiglia, a volte a noi ci pesa la giornata e facciamo un disastro, ma la maggior parte degli agenti, no? … sopra la sedia non gli va di alzare, non gli va di fare niente, chiamo per a doccia, aspetta, chiamo per fare qualcosa, aspetta, aspetta, sanno solo "aspetta", non si alzano dalla sedia, non hanno voglia di fare niente, ti fanno un favore, no? Ti fanno perdere la calma, la pazienza, hai capito? tanto loro ci hanno sempre il coltello dalla parte del manico. Io me ne frego, perché ho chiesto sempre le cose nel modo giusto, non voglio essere né disturbato né disturbare, non voglio né disturbare né essere disturbato, quello che mi aspetta io cerco di ottenere, pacificamente".

Il rapporto disciplinare viene dunque usato, secondo gli intervistati, come uno strumento di affermazione di autorità e, "dipende dall’agente", a volte in maniera ricattatoria dal momento che avere un rapporto disciplinare equivale a perdere i cosiddetti "giorni" e cioè i benefici previsti dalla legge in caso di buona condotta. Ma se tutti affermano di avere una buona relazione con gli agenti, di "rispettarli ed essere rispettati", i contenuti specifici di questi "buoni rapporti" variano da intervistato ad intervistato. Per alcuni, la scelta strategica principale consiste nel limitare al massimo l’interazione perché in caso di conflitti "nessuno dei detenuti avrà ragione":

"io gli agenti non li cerco, io gli agenti non li cerco mai, cioè sapendo anche se delle volte chiedo qualcosa no non è possibile so che è possibile, solo non ci vuole niente non lo so, chiedo qualunque cosa che è facilmente… io sempre cerco l’appuntato giusto, l’agente giusto per chiedere se c’è un altro non la chiedo, se la chiedo a qualcun altro so che mi dice di no, non cerco, "quando vuole lei", cioè quando chiedo delle volte di andare in doccia e c’è il posto in doccia e dice non adesso, quando vuole lei mi chiama, cerco sempre di stare lontano, perché so che non cambia niente, se io rispondo "no non è così" non avrò mai ragione, nessuno dei detenuti avrà ragione".

In altri casi invece, particolari condizioni - che vanno dalle doti caratteriali ad una buona competenza linguistica – permettono l’instaurarsi di relazioni di "confidenza" impossibili in altri contesti carcerari: "io personalmente pian piano ho avuto un rapporto devo dire impeccabile con loro perché addirittura si confidavano con me dei loro problemi mi parlavano dei loro problemi privati sono riuscito pian piano a conquistare la loro fiducia.

[…] Nel carcere di Viterbo, anche comunque nella sua efficienza etc., non esisteva un rapporto umano con gli agenti e tutto il personale penitenziario: cioè il detenuto fa il detenuto e l’agente fa l’agente, non è che… l’agente ti da del lei e tu gli dai del lei… un rapporto soltanto formale, mentre ad es. Nel carcere di Pagliarelli c’è un rapporto più umano diciamo cosi, con le guardie".

 

La percezione del cambiamento

 

Nel corso delle discussioni a proposito delle relazioni interne al carcere, ritorna spesso, in quasi tutte le interviste, il tema della cosiddetta cultura carceraria e delle regole non scritte che reggono la vita più o meno sotterranea di una istituzione totale. Molti dei miei interlocutori parlano di un cambiamento che con una certa evidenza avrebbe cominciato ad insinuarsi in questa subcultura tradizionale. Tra le ragioni della trasformazione viene senz’altro indicata la riforma della polizia: "il rapporto degli agenti è da un po’ di anni da quando la polizia penitenziaria è entrata a far parte del corpo… si è cambiata radicalmente io mi ricordo invece la differenza tra la vecchia carcerazione che non erano ancora entrati in polizia penitenziaria: c’era un conflitto tra detenuto e l’agente addirittura con l’agente non c’era neanche buongiorno o buonasera se tu dicevi buongiorno all’agente… la cosa era vista diversamente ma la stessa anche da parte dell’agente c’era un conflitto c’era sangue dalla mattina alla sera, delle cose primitivi, poi certo che cambiando la guardia in polizia s’è cambiata anche il sistema, io non lo so per quale motivo penso perché nel corpo della polizia penitenziaria c’era che ne so magari erano tutte persone un livello di cultura medio o molto basso a volte quasi nulla adesso ci sono anche persone laureate che appartengono alla cosa e penso che c’è un dialogo tra detenuto e agente e certamente a favorito la vita perché adesso di può anche parlare con l’agente discutere dire le sue opinioni fermare 5 minuti a parlare dialogare per es. del passato come e perché che una volta non c’era ma io so da questa prigione se due persone convivano strette deve essere un dialogo altrimenti non… ci sarà mai una pace, una pace interna e direi che le cose sono molto migliorate, da Genova a qua posso anche rispondere sì, ma neanche da Genova, dipende …l’agente dipende anche dalla direzione secondo me, la stessa questione anche tra comportamento dall’est a qua, dall’agente dall’est a qua sono diversi. Ad es. ma perché qua gli è stato detto di comportarsi in quel modo e la gli hanno detto di essere meno rigidi. Io secondo me il fatto degli agenti dipende dalla direzione. Dipende dalla direzione. Se la direzione c’è un direttore rigido o vuole determinate cose, nel carcere c’è sempre conflitti, tra agenti e detenuti. Se il direttore dice cerchiamo il dialogo, la cosa, è meno conflitti".

L’importanza del ruolo della direzione, sottolineata nel brano precedente, trova conferma anche in alcune discussioni tenute durante il corso di "introduzione ai temi della mediazione culturale": in quelle occasioni, infatti, si tendeva ad "identificare l’atmosfera del carcere con il direttore".

Tra le ragioni del cambiamento si identifica come abbiamo già visto, anche la legislazione che ha introdotto il sistema premiale:

 

"sta cambiando perché comunque hanno messo delle leggi che hanno permesso a tutti di diventare un po’ meno rigidi un po’ adatti alla carcerazione moderna perché l’ultime regole del 92 93, questi benefici che hanno calmato tutti quanti ormai nessuno vuole perdere quel 3 mesi che sono la speranza per tanti magari quell’affidamento quei Gozzini che non sono applicati per niente, […] pochissimi sono usciti, l’hanno fatta così per tranquillizzare la gente dentro, queste cose qua ormai ci tengono. Questo ha già cambiato talmente il 60% della cultura carceraria…

È cambiata per questa… la premialità diciamo?

Eh sì perché prima non c’erano questi benefici non c’era non c’erano ma come ora permessi ma noi.. è cambiata poco perché permesso io non lo posso ottenere se non ho la famiglia se non ho perché io sono straniero e che mi danno il permesso? qua in Sicilia non lo puoi avere mai!!"

Nel contesto disegnato dalla premialità diventa fondamentale la capacità di esibire un comportamento esemplare, rimuovendo ogni occasione di conflitto: "E per questo che come le ho detto la mentalità è cambiata, ora si ottengono le cose con gentilezza, e devi essere più aperto devi scherzare, devi far vedere che non fai parte di una mentalità che non pretende la cosa, che non… e devi girarli sempre intorno sai, devi essere un po’ più furbo nel senso buono, più capace, più diplomatico, per ottenere le cose, perché ormai le cose sono cambiate e si sei uno che parla troppo che sa tante cose che chiede il sue cose, diventi un fastidioso! Troppo per loro, se tu sai… diventi fastidioso, troppo, perché un detenuto qualsiasi.. non vogliono mai uno che sa! Che conosce i suoi diritti che vuole le sue cose, queste cose loro non le vogliono mai. Che tu devi camminare come diciamo noi, così dicono, tu devi seguire queste regole, perché qua ogni istituto ha sue regole interne. Per es… nessun codice penitenziario, nessun articolo del codice penitenziario dice che qua non puoi avere un maglione col cappello, col cappuccio, questo non entra, non è una legge, o magari non puoi avere 4 cose in più, magari non puoi avere pacchi che viene dal Marocco: non entra".

Tuttavia alcuni manifestano anche la convinzione che non si tratti soltanto di un’evoluzione promossa dalle riforme ma che ci sia un nesso anche con la nuova composizione sociale delle carceri; e affermano che la loro stessa presenza in quanto stranieri, portatori di abitudini e modi di pensare altri, abbia un ruolo importante nel cambiamento in corso, specie a proposito dei rapporti con gli agenti e dei valori condivisi dagli altri detenuti. L’influenza della differenza portata dagli stranieri viene individuata a diversi livelli. Innanzitutto, collegandola al già citato nuovo ruolo degli stranieri nel promuovere azioni di protesta: "è cambiata per tanti stranieri dentro, noi abbiamo cambiato credo mezzo della cultura carceraria. Intanto allora innanzitutto…prima se si faceva qualche cosa.. no rivolta, ma per chiedere qualche cosa al carcere, sciopero (parole incomprensibili) c’erano solo loro. Era difficile… e dovevano tutti adattarsi a quella cosa se no.. ora c’è stranieri, ora tante rivolte le ho viste io nelle carceri poggiano tutte su straniero: straniero unico che non ha niente da perdere. Io uno di quelli che sono stato presente all’ultima quella di Marassi quando il primo carcere che ha iniziato per solidarietà per i compagni di Sassari, se lei ricorda… quel massacro di quei detenuti che ci fu a Sassari… e prima fanno quelle cose le chiedono e straniero più ha tolto il posto, diciamo ha tolto il posto all’italiano perché straniero che ha bisogno delle mutande, straniero che ha bisogno dell’assistente volontario, straniero che ha bisogno di uno come lei che viene magari a parlare, perché io non credo che un italiano ora.. non ha voglia magari non vuole stare un’ora così a parlare con una persona come lei a spiegare.. poverino sta lì in cella viene un po’ a parlare con lei per lui va bene."

In secondo luogo, secondo alcuni intervistati, la voglia di miglioramento della propria posizione sociale manifestata dagli stranieri incide sull’atteggiamento degli italiani rispetto alle opportunità formative: "ora… noi abbiamo cambiato anche politicamente la cultura carceraria perché anche lo stato ha messo delle regole delle leggi anche le direzioni, riguardo a stranieri che hanno cambiato piano piano l’inserimento anche al detenuto italiano.. o no? perché se ora vedi l’italiano che entra e vede un marocchino che parla bene l’italiano, come quelli.. e scrive.. il siciliano che, magari napoletano, che non sa parlare bene l’italiano, solo la sua dialetto, si vergognano, pure lui si fa i scuola eh e si inserisce senza accorgersene".

Ma l’affermarsi graduale di una mentalità diversa che gli intervistati hanno cominciato a scorgere negli ultimi anni dipende sostanzialmente dal modo che gli stranieri hanno di interagire con gli agenti, un comportamento che i detenuti italiani tenderebbero a definire "da infame": "io vedo un’altra mentalità, per es. c’è tanti stranieri che si fermano con le guardie e stanno parlare per mezz’ora anche se guardato male.. gente dice "questo che sta raccontando?", lei mi capisce, ma noi non ci interessa, non è che vado a parlare…, chi conosco io qua? Con chi devo parlare? vengo da un’altra città non conosco nessuno qua non ti danno modo di inserirti di capire perché non hai confidenza con loro, i detenuti di qua, pochi puoi salutare ciao ciao, allora lì per avere anche uno con cui parli diventa la guardia anche un persona quasi un amico a cui parli; perché lì non è che le parli di cose interni se non hai confidenza con questi, solo coi paesani. A delle volte si ferma l’agente per aprire "ciao buongiorno" "buongiorno e "bella la partita del mondiale, come va", e si inizia si esce a fare discorsi e la cultura cambia, l’italiano guarda perché tutto cambia io mi chiamano a fare questo corso.. mi chiamano là e voglio inserirmi, ha cambiato, ha cambiato tanto, io credo che stranieri ha condizionato tutta la cultura carceraria italiana di anni, quella antica rigida fra di loro e credo che è stato veramente un vantaggio anche per loro perché non si può vivere sulle foto come si dice del passato sempre a vivere… io.. gradirei che si cambiasse veramente la mentalità.. soprattutto qua in Sicilia perché la vedo ancora più mantenuta e… conservata, tutti vogliono magari conservarla tenerla proteggerla sta mentalità".

Ciò che colpisce è soprattutto la grande differenza di atteggiamento tra italiani e stranieri nei confronti del ruolo dell’agente. Se per i primi, come mi è capitato più volte di apprendere dalla direttamente voce di detenuti italiani, "il mestiere di sbirro" è un marchio di infamia, traccia quasi di un’attitudine genetica opposta a quella dei "ladri", nati sotto un’altra stella, per gli stranieri molto più pragmaticamente, nonostante le difficoltà incontrate quotidianamente nel rapporto con il personale, il poliziotto penitenziario svolge in fondo un lavoro come un altro "se no, non mangia".

"Sta cambiando… a 360 all’ora. Non c’è più quella mentalità come le dicevo vecchia, del detenuto, detenuto e la guardia, guardia, come esempio ora la guardia scherza col detenuto si mettono a parlare, a delle volte anch’io m’ha successo usciamo fuori, discussione interne no? parliamo quindi anche di cose… addirittura arrivi a parlare cose familiari, lavoro, ti racconta pure la sua sofferenza perché non ha trovato lavoro, non è che diciamo l’agenti di anni fa degli anni 80 70 che… lo fanno diciamo mentalmente perché… il detenuto che vuole comandare dentro. Ora è un’altra mentalità, io grazie a dio ne ho conosciuti abbastanza di alcune guardie, ci sono sempre in qualsiasi categoria di buoni e cattivi, no? Alcuni buoni veramente bravi, anche se quando incontrano un altro.. per forza che ti gira e spalle perché il cane non può lasciare solo il suo fratello come si dice da noi: deve abbaiare pure quando vede che il suo viene minacciato. Perciò alcune guardie so’ bravi e io cerco di.. abbiamo diciamo dialogato, abbiamo avuto delle con.. non confidenze ma confidenze di parlare di come lei si sta interessando di come la trovi qua in Italia, perché venite, qual è la problema più grave per uno straniero che si trova e piano piano diciamo che escono fuori discorsi di straniero; entriamo nella vita diciamo quella dell’essere guardie nella vita e ci sono ragazzi veramente bravi che se non fa questo lavoro non mangia! Ha figli bambini perché lui io primi anni no? che li guardavo malissimo perché uno sempre quello che ti chiude, che ti chiude, porta la chiave, non è un lavoro per il detenuto buono, ma io ero uno di quelli che come si dice è un detenuto modello che ormai li guardo è un lavoro come l’altro, sa perché non è lui che m’ha arrestato.. perché io quando lo guardo dico ma lui non m’ha arrestato a lui m’hanno portato come nell’islam, dice, questa cosa qua la tieni finché ti dico di darla all’altro o magari di lasciarla o buttarla, loro ci hanno portato nelle mani di questa persona qua lui non è andato a cercare e non può lasciarti, aprirti e dirti va! È logico che io se vado, viene punito lui! Allora io li guardo in questo modo oh adesso diciamo da un anno li guardo così".

Affermare che non esistono più il "detenuto, detenuto e la guardia, guardia", equivale ad introdurre un principio che scardina le modalità tradizionali di attribuzione dell’identità all’interno del carcere. In questa prospettiva eterodossa, l’indossare una divisa (sia essa quella, visibile, dell’agente o quella, ormai solo virtuale, del detenuto) non conferisce automaticamente una identità fissa agli abitanti del carcere, che gli intervistati riconoscono attraversati da altre ben più rilevanti differenze.

Al contrario, in moltissime occasioni, durante il mio impegno come tutor o docente in percorsi formativi presso il Pagliarelli, mi era capitato di affrontare il tema della "divisa" con detenuti italiani, irremovibili nel considerarla come barriera insormontabile che impedisce un rapporto umano con gli agenti e, parallelamente, nell’accettare come normale il fatto che esistesse una invisibile divisa che conferiva l’identità di detenuto ai reclusi, definendo così l’indiscutibile opposizione tra i due gruppi. Questo atteggiamento non trova alcun riscontro nelle testimonianze fin qui riportate, dove prevale invece la tendenza a considerare la componente di umanità dietro la divisa, "quella dell’essere guardie nella vita". Obiettivi principali di un processi di generalizzazione, stigmatizzazione ed esclusione sociale, gli intervistati non compiono mai l’errore analogo quando parlano degli agenti, e nemmeno quando si discute di figure ancora più stigmatizzate come quella del "pentito":

"straniero non si frega niente, perché non è che siamo noi mafiosi, siamo gente che hanno commesso le cose per sopravvivenza per cambiare loro condizioni di vita magari per pagare l’affitto o per mangiare, noi non siamo assassini.. va bene chiamiamo che uno porta la droga, magari per guadagnare 1 milione per risolvere i suoi problemi ha portato un male, una cosa dannosa a un’altra persona, però non ho nessuna intenzione per ucciderlo".

"L’altra volta alla Vivicittà [corsa podistica cittadina che da alcuni anni vede la partecipazione di detenuti ndi] uno del reparto pentiti ha corso con noi, tutto normale. Eh le cose stanno cambiando. Ma perché uno non fa affari suoi? Ma che mi frega se uno a fatto pentito per altri? Magari ha ce l’ha i suoi problemi che lo hanno portato a fare il pentito. Questo è uno sbaglio bisogna sapere quali motivi hanno portato queste persone a fare queste cose qua o a diventare pentiti o magari per certe persone che vengono giudicate male che entrano in carcere: che ha successo a tante persone per violenza; questa è una cosa inaccettabile io picchio uno senza sapere qual è la verità. Magari l’ho sentito in televisione "questo ha fatto violenza", ma cazzo! Questa la chiamo ignoranza, ignoranza senza discutere come sappiamo se quello è innocente o colpevole? Comunque la cosa più importante è che un pentito scende a correre con i comuni, questo è un miracolo di padre pio!".

 

Maltrattamenti, abusi e autolesionismo

 

Maltrattamenti e abusi

 

Coerentemente con quanto visto sopra, tutti gli intervistati affermano senza esitazione di aver trovato al Pagliarelli un’atmosfera non viziata da alcun atto di violenza eclatante. A questo proposito il confronto con altre carceri sorge spontaneo: "gli agenti qua sono più bravi a S. Vittore tante volte ti provocano, ti vengono a provocare pure in cella".

"In questi anni ormai stanno diminuendo, sono pochi a parte gli altri carceri che hanno ancora la squadretta queste cose che picchiano. Ma questa qua è dove entra la difficoltà del straniero, perché straniero che non sa parlare la lingua, non ha diciamo come si dice non trovo neanche… non ha una preparazione d’esperienza carceraria qualcosa che magari gli risolve il problema in un minuto dialogando, basta saper dire le frasi adatte, giuste per solvere il problema, che non sa parlare e viene tante volte danneggiato, è chiaro… i suoi diritti non chiede mai cose che chiede per che non sa…

Qua succede? Sinceramente qua a Palermo, rarissimo che picchiano, io sinceramente non ho mai visto uno picchiato, altre carceri di più, io uno di quelli che sono stati picchiati veramente di brutto..

A te è capitato di essere stato picchiato? Sì altre carceri, ma io mi sono difeso grazie a Dio perché so difendermi e anche… siccome sono uno di quelli che cerca sempre di capire quali sono i miei diritti io dove posso arrivare, per ottenere una cosa, no e questo codice penale penitenziario queste cose le ho avute sempre con me le leggevo citavo sempre gli articoli, perché l’art. 30, 31 per uno che protesta è un suo diritto, contestare è un diritto, c’è modo e modo però, no? c’è chi alza la voce eh, aggressivo.. ma contestare qualsiasi cosa è un diritto e tante cose qua non funzionano.. tanti stranieri anzi la maggioranza, 99%, non sanno che è un diritto, contestare qualsiasi cosa che non ti va."

Nella testimonianza che segue troviamo ancora il medesimo atteggiamento di comprensione per la figura professionale dell’agente e uno sforzo di contestualizzare eventuali tensioni, cercando di guardare "con un’altra vista ": "No, io dico la verità, io mai visto violenza dagli agenti ai detenuti, no mai. Al contrario, e la maggioranza degli agenti sono bravi anche ti sentono quando vuoi una cosa, ma il problema è che loro non possono fare di più del loro limite, capito? È quella la cosa, ma se vediamo con un’altra vista l’agente, quando da noi detenuti, siamo chiusi dentro la cella, anche noi ogni tanto sbagliamo, e buttiamo i nostri problemi addosso a loro no? e diciamo "siete così, così, cattivi, siete così, siete razzisti, siete così" e loro diciamo è quello il loro lavoro, no? Non possono, se io chiedo per esempio, agente, io voglio andare alla cella 10 per chiedere una sigaretta, lui non può aprire la cella per io vado lì, non può, ci sono agenti bravi, che se ne fregano e ti aprono "vai e torna, io vado, prendo le sigarette e torno. Violenze, io non ne ho mai visto".

Tuttavia casi di trattamenti non regolari ad opera dei poliziotti, sono segnalati da alcuni intervistati. Si tratterebbe di percosse, "schiaffi", somministrate in funzione punitiva. L’uso del verbo somministrare non è casuale dal momento che tutti i detenuti che vi accennano definiscono queste pratiche illegali "terapia": "no non ci sono… però una persona diciamo tocca l’onore di un agente o farlo sentire qualcosa che non è buono, per questo fanno rapporto se no lo portano giù a pigliare un po’ di terapia e [sorridendo ndi] lo fanno salire sopra, ma loro portano rispetto.

che vuol dire terapia.. bastonate? Bastonate. Ma succede spesso? Da quando ero qua è successo due volte [in tre anni ndi] un italiano e un straniero, ma solo un po’ schiaffi per farlo sentire… Però una persona che porta rispetto per lui stesso non c’è nessuno che lo tocca… portano negli uffici, qualche schiaffo, ma io non posso giudicare, dipende dalla persona cosa ha fatto, a me non m’ha capitato mai, io mai ho toccato qualche agente mai, questo a me non è capitato mai, altri non lo so può darsi che sbagliano anche loro [i detenuti ndi]".

Questi casi si verificano dunque, secondo le testimonianze, quando qualcuno "offende" l’agente o avanza una richiesta in maniera troppo insistente, quando cioè si va oltre quei limiti superati i quali l’agente non si sente più "rispettato", quando un detenuto "sbaglia a comportarsi". Il trattamento in questione si configura quindi come il ristabilimento dell’autorità, non tanto attraverso il dolore, quanto attraverso l’umiliazione provata da chi vi incappa: "gli agenti…eh per esempio c’è quello che se io chiedo per la prima seconda volta una cosa "commissario lo straniero mi sta scassando", no se ne fregano; ti guarda; dopo ti dice me ne frego poi si lamenta ti fanno scendere giù a pigliarti le scarpe, io non voglio dare l’opportunità a nessuno di prendermi a schiaffi, perché quando una persona…

Scusa in che senso prenderti a schiaffi? Se uno sbaglia no? Sì. Per esempio io sbaglio a litigare non che litigare, una parolaccia o parole… Ad un agente… A un agente, no? Lui telefona sotto, a me fanno scendere e mi pigliano a schiaffi. Io non voglio dare… In isolamento dici? Eh? In isolamento? No, dopo fanno rapporto, dopo la direttrice o il direttore quello che c’è decide su cosa ti fa consiglio disciplinare, rapporto, denuncia, isolamento, dipende… io no, non ho questa intenzione, nel senso di dare soddisfazione ad una persona, prendermi a schiaffi non posso meglio evitare, no? tu non mi pigli a schiaffi io non ti… Cioè di solito se tu diciamo offendi un agente…

C’è l’agente che per es. c’era un appuntato, no? che se ne frega, dice: "tu ce l’hai con me adesso testa a testa adesso io non ti faccio ne rapporto né niente, e allora comportati da uomo io mi sto comportando da uomo io me ne frego di quello che hai fatto o che mestiere facevi, io qua sono qua per lavorare io faccio il mio lavoro tu qua sei un detenuto, fai il detenuto e altro non voglio sapere, se c’è qualcosa la tiriamo su", sai nel senso quella da strada e non c’è né denuncia né rapporto, né ispettore né niente, c’è chi ti istiga, no? ti provocano apposta, ti provocano ti istigano così loro gli piace scrivere come se prendono soldi. Dipende dagli appuntato e dalla giornata, c’è la giornata che gli pesa: non ha dormito bene o qualcosa, no? se allora guai a chi sbaglia o chi, se uno viene preso di mira è già.. spacciato. Allora l’appuntato telefona sotto ti fa scendere sotto a prendere schiaffi.

Ma quando dici sotto che cosa intendi, "scendere sotto"?

Ah sotto dove ci sono gli uffici. Per es. io mi trovo secondo terzo piano quarto piano no? e la maggior parte dei carceri no? gli uffici sono sempre in basso. Allora quando scendi sotto, quando scendi dicono scendi alla rotonda, scendi al piano basso, scendi al piano terra, ognuno… e lì ci sono gli uffici, li trovi che stanno aspettando, no? Io non voglio dare questa soddisfazione, o farli sentire una cosa realizzati a prendermi a schiaffi io non permetto a nessuno no? io non ho fatto niente; ho sbagliato di parlare col suo collega, il suo collega che ha sbagliato pure lui a parlare, va bene non c’è niente, lei faccia rapporto, faccia rapporto, faccia rapporto quello che è stato detto fra noi lo lasci alla direttrice quello che può a decidere. Perché mi fa scendere giù a pigliare schiaffi? Io non permetto, per questo non voglio a che fare nel senso di lamentarmi, gridare, buttare piatti fare questo. No, No, No queste cose non le faccio, non voglio. Chiedere gentilmente, se è possibile, se non è possibile, riprovo. Insisto, no? domani, pomeriggio, perché prima o poi becco qualcuno che si interessa a al fatto, uno che ha il coraggio di telefonare".

Un altro caso di abuso è riportato da un detenuto che racconta anche di essere riuscito ad uscirne segnalandolo ad un ispettore, infrangendo cioè il tradizionale comportamento omertoso e di rifiuto della denuncia: "io personalmente ho avuto un buon rapporto con gli agenti; vabbé con uno soltanto ho auto un certo contrasto perché mi ha cercato in ogni modo di incastrami nel senso… di farmi perdere praticamente le staffe.

Quali sono i modi? Quali sono i modi… che la mattina presto veniva verso le cinque di mattina e mentre dormivo continuava ad urlare "oh sporco negro torni in Africa non vogliamo e così e così…" Vabbé io non dicevo niente e quando si è stancato è passato ad un altro modo, perché quando tu scrivi quando scrivevo le lettere, le mie lettere dovevo spedirle, in carcere funziona che le lettere le lasci davanti al blindato e gli agenti vengono a prenderle, l’agente di turno che sta in sezione viene a prenderla. Quando c’era questa persona, mi prendeva le lettere e poi davanti a me mi strappava le lettere.

E tu? Io che cosa ho fatto? Mi ha strappato due lettere e io tranquillamente sono andato a farlo presente all’ispettore e questa persona è stata richiamata e basta… e da quella volta ho avuto soltanto un rapporto molto formale e ha cercato … perché io ho parlato con l’ispettore che lui è stato richiamato e allora ha cercato in tutti i modi di farmi un rapporto disciplinare e ad es. perché avevo fatto la doccia, magari ci mettevo… ho fatto ad es. un quarto d’ora sotto la doccia perché "troppo, esagerato", ma io sapevo che cercava questo. Tutte le volte che c’era lui intorno. Rimanevo nella cella, prendevo un libro, leggevo e l’evitavo praticamente e non è riuscito comunque ad incastrarmi in questo senso".

Ma se nella percezione di molti degli stranieri intervistati la nozione dell’infamia come stigma morale non è così forte come presso gli italiani, anche gli stranieri sono convinti che i comportamenti omertosi facciano in qualche modo parte del "kit di sopravvivenza" che ogni detenuto deve portarsi appresso come nel caso sopraccitato della violenza ad un albanese, un caso che, non avendo nessuno denunciato i colpevoli, ha suscitato una risposta ferma da parte della Direzione del carcere attraverso un rapporto collettivo e la sospensione per qualche tempo dei permessi ad un’intera sezione. Emblematica questa testimonianza: "vengono a chiedere chi è stato, io non te lo dico mai chi è stato; nessuno te lo dice in qualsiasi carcere ti dice chi è stato perché se io lo dico all’agente chi è stato io la vita in carcere la passo più schifosa che… cosa mi fanno mi mandano in un altro carcere? Ci sono le lettere, ci sono le persone che vengono trasferite, poi mi vedono in un altro carcere, allora bene che cosa devo fare? Nessuno può dire, nessuno perché questo là sopra lo sanno, pure loro, la legge del carcere è questa: io non ho mai visto niente, non ho sentito niente, non lo so; è questo che c’è in tutti i carceri, ma siamo folli? Sappiamo… io se lo so te lo dico? Io non te lo dico se lo so! Un rapporto collettivo, mi chiama la direttrice, mi dice: "io la ritengo responsabile", "ma responsabile di che cosa?" "dell’accaduto". L’accaduto? Ma se una persona giorno dei colloqui… c’erano queste scale dove salgono gli agenti, sempre aperte, io per es. adesso vado sopra, scendo e arrivo di colpo, vado al quarto piano, guarda, posso andare al terzo, posso andare al secondo o al primo, dove voglio andare, vado. Era il giorno di colloqui per tutta la sezione, non si sa chi è stato perché quando scendiamo giù all’aria, allora io saluto uno, saluto un amico, tu saluti l’altro lato, tu saluti quando esci l’altro ragazzo, se c’è un caos e tutti parliamo è difficilissimo che uno sente se al piano…"

Un altro degli intervistati, invitato a discutere sull’argomento mi risponde che sapendolo non avrebbe rivelato chi era il colpevole, ma avrebbe senz’altro preferito caricarsi della responsabilità in prima persona: "se ero io con quelle persone che hanno fatto quella cosa lì subito non facevo parlare nessuno e dicevo sono stato io senza farla diventare grande, prendere cinquanta persone a rapporto c’è chi aspetta dei giorni di 10 anni, c’è chi aspetta l’affidamento, sono stati tolti tutti queste cose. A me se mi succedeva nella sezione impazzisco perché non lo so come adesso io aspetto i giorni per uscire e succede questo fatto mi fanno rapporto, non dirò niente ma me la prendo con quelli che sono stati a fare questa cosa, ma se ero per es. dicevo subito che sono stato io".

 

Autolesionismo

 

Come già accennato nel capitolo primo, uno dei fenomeni che con sempre maggiore frequenza riguardano gli immigrati è quello della violenza autoinferta, comunemente definita autolesionismo. Attribuire la responsabilità degli atti di violenza contro se stessi compiuti dagli stranieri a presunte tradizioni culturali altre oltre ad essere un peccato di ingenuità dal punto di vista antropologico è anche – come ha correttamente notato Adriano Sofri- un grave errore storico perché significa dimenticare che in altri periodi e circostanze, l’abitudine di tagliarsi era diffusissima anche presso gli Italiani. Detto questo, non resta che riconoscere nell’atto lesionistico degli stranieri all’interno delle carceri la denuncia di condizioni materiali e psicologiche sempre più difficili da tollerare. Da questo punto di vista, il numero di atti di autolesionismo è certamente uno dei termometri della temperatura interna del carcere. Tralasciando le cifre per altro mai del tutto affidabili sul fenomeno vale la pena concentrarsi sul resoconto e le spiegazioni che del fenomeno stesso danno gli intervistati, testimoni privilegiati in quanto alcuni di essi raccontano esperienze vissute personalmente. La prima storia riguarda un cittadino tunisino costretto a tagliarsi nel tentativo disperato di attirare l’attenzione dei responsabili del carcere sul proprio compagno di cella: "ho vissuto con un ragazzo marocchino per un anno e tre mesi, qua. In cella un anno e tre mesi. Ma come lui era un po’, diciamo, fuori di testa perché lui si è stato anche in un’altra… come si chiama quello carcere… carcere con i pazzi, a Barcellona… Ospedale psichiatrico? Sì. È stato lì e qua gli danno sempre la terapia, mattina, sera, pomeriggio pastiglie, poi gocce, per metterlo a dormire, io, ogni tanto… tagli con le lamette così, io come io ho vissuto con questo ragazzo, un anno ed più io ho visto che lui, quel ragazzo invece di essere lì, dentro quella cella, quello deve essere dentro clinica curato perché lui si fa dieci undici giorni tranquillo e dopo si cambia e si taglia qua e qua e qua e lo portano loro in isolamento per due giorni tre giorni e dopo lo fanno salire di nuovo. Io un giorno, ho chiesto ho scritto anche alla direttrice, ho visto venti venticinque richieste anche all’ispettore e ho detto "oh vedete che io qua in questa cella non posso stare, non è che io, io non posso stare in questa cella sto diventando anch’io pazzo lo sai che io sto diventando matto". Loro quando mi rispondono, mi dicono "ma che è successo ce l’hai con lui qualche problema?" Ma quale problema, ma voi avete un problema, non io! Quello ragazzo deve essere curato non deve essere vicino a me. Voi lo sapete, dottori lo sanno già che questo ragazzo al massimo deve essere da solo nella cella… […] Dopo un giorno ho tagliato anche io! Loro sono saliti, l’ispettore, è salito l’agente così mi hanno detto "perché?" Io voglio cambiare cella! Voglio cambiare cella, non voglio stare qui o io o lui, cambiare. "E perché" dice "io non ce l’ho con lui, non ce l’ho problemi, non ce l’ho problemi, non ce l’ho problemi, ma che io non posso stare dentro quella cella e io sto diventando matto piano piano sto diventando matto, io per un anno intero, sto qua, mai hanno successo queste cose adesso io non posso più fare il piantone per lui eh!!" Loro niente.

E dopo che ti sei tagliato? Mi hanno messo 15 giorni in isolamento. 15 giorni, senza motivo, perché io voglio cambiare cella, basta, niente, io voglio cambiare cella. 15 giorni, dopo mi hanno fatto salire e il dottore mi dice a me "a posto? Sei calmo?", "Io sono calmo!! Io sono calmo! Voi, Voi state sbagliando!!" …e quello ragazzo ce l’ha, in infermeria i dottori lo sanno, la direttrice lo sa! tutti lo sanno che lui è stato a Barcellona per sei mesi, lui non si ragiona con la testa, va bene? Non si ragiona con la testa. E questo ragazzo deve essere curato, deve essere curato, ma perché lo mettete lì, perché io sto dentro, cambiate. Solo quando a lui manca un mese, un giorno, io pensavo "è morto", pensavo un giorno: si è spaccato la testa dentro un muro, e c’era sangue e tagliato qua… è arrivato l’ispettore e i dottori, tutti e l’hanno portato giù. E da quel momento io ho detto a loro "avete visto adesso? Se lui muore qua dentro la cella, la colpa di chi è? A voi o mia? Eh?". Da quel punto lo hanno portato da un’altra parte".

La violenza contro se stessi è vista come atto estremo quando nessun altra strada appare praticabile, quando l’alternativa sarebbe l’attacco agli operatori con conseguenze ancora più gravi per la propria posizione giuridica: "Straniero non sa parlare lingua, guarda tutti e nessuno che lo difende allora… si tiene tutto dentro e per questo la maggior… certi ragazzi si tagliano, perché si dice che stranieri hanno l’abitudine di tagliare, non è vero. Innanzitutto è un sfogo, è un sfogo totale perché il 60 anzi il 75% lo sfoghi sopra di te perché come le avevo detto se uno va a ferire una guardia o qualcuno dei componenti direzionali ma è logico che finirà male, sarà picchiato di brutto, se questo ha una condanna sopra i tre anni che lo faranno restare di più magari lo butteranno in un carcere più brutto, dove si soffre e magari può arrivare anche al suicidio. Allora lì uno dice non devo toccarlo perché delle volte sono gente che ti fanno arrivare… alla fine… a delle volte io sono arrivato a guardare buio non vedo più niente".

Il tagliarsi è in ultima analisi, paradossalmente, un mezzo di comunicazione, che entra in gioco quando tutti gli altri codici sono stati utilizzati, tutti gli altri messaggi già lanciati, quando viene meno ogni altra possibilità: "… a un certo punto straniero entra in cella con tutto accumulato dentro e che fa? Bruciare la cella non può, e arriva sempre a quel momento, o magari un pugno al muro, magari sul vetro o delle volte siccome piano piano è diventato un’abitudine sfogarsi sul suo corpo, e si taglia, mah.

Io come le ho detto, è sempre, c’è chi lo fa per.. come un ricatto, come se, ma non è un ricatto, per ottenere qualcosa.. qua entriamo anche nell’ignoranza perché.. il 50% è ignoranza perché nello stesso momento fai male a te stesso anche se quello che ti darebbero, ti danno, ti danno ma non è che ti toglie quelle ferite, quelle tracce che ti rimarranno perché già la gente mai… io mi sono pentito..."

Nell’atto autolesionistico si mescolano la disperazione e l’impotenza, il senso di colpa e la consapevolezza del proprio corpo come oggetto estremo di contrattazione e di ricatto. L’ultimo vero territorio autonomo sul quale esercitare la propria giurisdizione. Il brano che segue coglie questo nesso sintetizzandolo con una similitudine che paragona il corpo del detenuto alla sua ultima spiaggia: "ho sempre consigliato addirittura qualcuno ho cercato […] cerco sempre di far capire alle persone che determinate cose anzi non è che… perché loro poveracci pensano di autolesionarsi ottenendo magari che ne so qualcuno provvederà per la loro situazione che ne so l’unica spiaggia che gli è rimasta è questo corpo arrivato alla disperazione e quello che ti rimane questo corpo che t’ha fatto allora le tagliamo le sfregiamo e invece ho cercato sempre un po’ di fargli capire che tutto ciò non li privilegia non è il termine giusto non li favorisce, ma addirittura li danneggia, poi la natura o il dio ci ha dato un corpo da conservare da rispettare e così sfregiarlo è una cosa terribile una cosa inaccettabile però è la disperazione".

Vi sono poi altri gradi di disperazione che conducono a cercare una risposta istituzionale o almeno un palliativo in forme di autolesionismo meno eclatanti, più striscianti ma altrettanto dannose per la salute di chi sta in carcere, anche se di fatto ratificate dall’amministrazione. Per chi ha alle spalle storie di tossicodipendenza, l’abuso di psicofarmaci e alcool sostituisce l’uso di droghe, per gli altri è un modo per tirare avanti e sopportare la reclusione: "C’è gente che le prende; io le pillole, anche a me, quando ero in terapia, così bruttissimo, poi grazie a dio… sono stato un tossicodipendente per quasi due anni ho sniffato eroina, mi sono fatto rovinare, bevevo l’alcool di brutto… ma c’è gente che prende queste tavor, ste cose qua, valium, tutti i giorni per passare la giornata. Miei paesani li vedo.

E glieli danno diciamo… Perché va a marcare, va a chiederle dallo psicanalista perché dice io non mi sento tranquillo ma non è la soluzione giusta! Adatta per solvere quella problema, perché se non ti confronti con i problemi non risolvi niente un giorno ti da quelli così, già sono passati degli anni senza che hai capito niente.

"Per due mesi per un mese prendo terapia per rilassarmi per non arrivare a un certo punto da pensarci alle cose brutte, danneggio il mio corpo io so questa cosa che cosa contiene, che cosa fa, quali danni porta al mio corpo, io lo uso lo stesso perché? Per cercare di resistere per non fare niente di…"

 

Una giornata particolare. Il ruolo delle attività trattamentali

 

L’unica alternativa al trascorrere le ore in cella, oltre alle ore di aria e di socialità consiste nel frequentare un corso o nell’andare a scuola ma i posti a disposizione nei corsi scolastici e in quelli professionali sono al Pagliarelli come in molte altre realtà italiane una risorsa scarsa e preziosissima. Negli ultimi anni l’offerta di alternative alla permanenza in cella è andata gradualmente aumentando grazie ad alcuni progetti promossi dalla direzione del carcere in collaborazione con gli enti locali (tra questi vi è l’esperienza della compagnia teatrale) ed all’attività del CRESM, una organizzazione non profit attiva nel campo dello sviluppo locale che ha promosso attività formative e di socializzazione con finanziamenti del Fondo Sociale Europeo. Infine nel 2001 è partito il corso promosso dall’associazione NEXT al quale si riferiscono la maggior parte delle testimonianze che seguono. Le attività del CRESM e di NEXT, infatti, sono state i primi percorsi formativi a prevedere la partecipazione di un ampio numero di partecipanti stranieri e il corso di NEXT, dedicato ai temi della mediazione culturale, era esclusivamente riservato ai detenuti stranieri. Queste esperienze hanno prodotto un evidente ricaduta positiva innanzitutto per lo spazio dato alla componente straniera di solito solo marginalmente coinvolta nelle attività trattamentali, in secondo luogo perché hanno attivato tra i detenuti stranieri una fitta rete di scambi e di informazioni sui temi relativi alla propria condizione civile e giuridica, motivando coloro i quali non avevano partecipato a richiedere di essere inseriti in futuri progetti e attivando così un interesse che ha retroagito positivamente sugli educatori, stimolati alla ricerca di idee e di fondi per l’avvio di nuovi programmi.

Nel corso delle interviste i miei interlocutori hanno spiegato il senso della partecipazione alle esperienze formative nell’economia delle loro giornate, le principali differenze tra i corsi scolastici e le altre iniziative e il modo in cui hanno visto agire i contenuti dei corsi oltre le pareti in cui si tenevano.

"Io ti dico la verità, ho passato il primo anno senza fare scuola senza fare impegni, scuola corso, queste cose no? Ho passato un anno un po’ pesante, ho avuto anche rapporti, due rapporti per liti dentro la cella. L’ultimi sei mesi, questi, ho visto un po’ di cambiamento, abbiamo fatto un corso… una cosa buona, sì. Per uno almeno si rilassa un po’ anche vedi altre persone si scende per due ore tre ore dentro il corso, si dimentica che noi sta dentro il carcere si parla si dice quello che sente lui, e altre cose da fuori, perché quando ce l’hai … e durante il corso abbiamo contatto con gli insegnanti che sono da fuori, noi almeno parliamo così, di cosa c’è o non c’è da fuori e si cambia anche la mentalità di noi e ci sono scuola corsi …ma è così… uno si rilassa un po’ si sente che manca… non è come uno libero… ma almeno… speriamo che faranno corsi, tra due tre mesi cominciamo questo corso, così…"

Il primo brano mette a fuoco la differenza tra la monotonia delle giornate precedenti al corso e la sensazione di poter dimenticare il carcere una volta all’interno dell’aula. Un altro elemento importante, specie se visto in relazione alle questioni trattate nel paragrafo precedente, è quello del relax derivante dalla partecipazione ad un’attività di formazione. Anche nei frammenti che seguono il valore primario del corso è individuato nella rottura di quel ritmo quotidiano che viene descritto come pesante e monotono: "nella mia mente quando abbiamo praticato il primo corso mi sento libero… perché mi alzo la mattina mi vestivo, no? Faccio colazione, non vedi l’ora che arriva l’una per andare al corso, primo corso che abbiamo fatto di 500 ore, la giornata mia quelli 5 mesi non lo so hanno passato come una settimana…

la cosa più bella quando lavoravo, frequentavo un corso, esci dalla cella no? ti senti libero la giornata non ti senti proprio come passa e allora quando sei chiuso, si sente a galera, si sente a giornata".

"Ho visto come hanno studiato gli altri ho visto anche perché sono stati tre ragazzi con me alla cella siamo stati insieme che fanno il corso con voi, mi raccontano, vivaci, contenti come un rilassamento anche, rilassati, gente piace parlare piace discutere magari spiegare i suoi problemi […] ho visto perché io non ho fatto il corso con loro, io noto perché quello che può giudicare.. ti do un esempio quando uno si veste non si veste con il suo gusto, si veste col gusto degli altri, chi nota l’altro, se io faccio una cosa non posso giudicare come è la cosa ma l’altro può giudicare, questo il fatto ho giudicato ragazzi che hanno fatto un sviluppo anche, gente che ha cominciato a leggere, portare libri dalla biblioteca che si riferiscono al corso e ai suoi argomenti…"

La formazione diventa quindi prima ancora che una possibilità di qualificazione professionale, un sostegno psicologico potentissimo, senza effetti collaterali sgradevoli, se non la mancanza di continuità propria di iniziative il cui finanziamento è agganciato a progetti specifici: "almeno quello è un aiuto, è un sostegno morale anche allo straniero perché non si parla più delle solite cose interne, varie, si parla di cultura, di cose internazionali, di spiegare anche la lingua, queste cose che come lei crede sono poche, vede voi l’avete fatte per un paio di mesi, vede, è sparito. Ora, il straniero non ha niente da fare e noiosissima la giornata perché vai all’aria, sali dall’aria, entra in cella".

"…m’ha dato un appoggio morale… anche se la verità qualche volta disturbavo entravo nel discorso per i fatti miei parlavo di altre cose, mi ha aiutato… trovando le persone giuste come voi… perché se erano altre persone può darsi che non mi trovavo bene e anche il corso mi piace ma quelle persone responsabili del corso se erano altre, cioè non venivo più… ho trovato… ho trovato quello che volevo… uno sfogo.

Ma in questo c’è una differenza con la scuola?

Sì c’è un enorme differenza tra il corso e la scuola il corso, potevi spiegare potevi parlare di cose tue cioè cose che ti interessano di più, la scuola è un’altra cosa. Infatti il corso ti dava la possibilità di parlare di capire qualcosa, avendo un problema ci parli di quello che hai e hai spiegazioni un aiuto, qualcosa, la scuola è diversa tutta un’altra cosa".

Chi ha partecipato sia ad attività scolastiche che ai corsi di animazione sociale e di mediazione, individua la differenza in una maggiore libertà di espressione all’interno dei corsi, meno vincolati ad un programma standard e veicolanti contenuti più adatti alle esigenze di comunicazione e di integrazione proprie di un’utenza straniera: "queste cose, queste cose qua di cultura per gli stranieri che sarebbero belle e importanti anche per inserire l’immigrazione, integrarsi, non ci sono perché come vede c’è la scuola normale.. che non credo che aiuta tanto perché a scuola arrivare, studiare direttamente è difficile […]. Uno come quel vostro corso era, io mi sono presentato, se lei ricorda qualche 3, 4 volte […] uno cercava di esprimersi tranquillamente, rilassato e tira quello che ha dentro, fa domande, per es. perché la mia scuola se la maestra fa qualche domanda sopra un argomento che non c’entra niente con l’altro; non puoi fare una domanda fuori dal discorso perché porti tutti la classe fuori discussione e invece in quel programma che facevate voi si parlava, uno si alzava si chiedeva altre cose che gli passavano per la testa e aveva sempre avuto delle risposte, perché c’era più pazienza ma anche allo stesso momento diciamo… un corso ma allo stesso momento era un’assemblea di amici che si parlava, si discuteva, si spiegava, delle cose importanti e meno importanti, ma si dava retta, risposte a tutti i domandi degli altri , perché se in scuola scendo oggi e si parla solo diciamo di matematica e non so, l’altra cosa, ci sarà solo quello, invece corsi culturali puoi chiedere di questo, come si fa a frequentare, come presento per es. per andare a presentare qualche documentazione, quale le parole che posso usare, questo non lo puoi chiedere alla maestra, se si va in scuola perché a scuola devi studiare alcune cose, studiare gli alfabeti, la grammatica, queste cose qui, per imparare ad usarli come parole e invece i corsi culturali di già ti fanno la parola, già intera, la frase.. […] perché non è che puoi parlare della grammatica, della geografia, perché parli con una persona e servono delle frasi complete, per dialogare discutere con l’altro".

Secondo la percezione di alcuni intervistati i corsi creano uno spazio in cui si comunica più facilmente, anche perché i rapporti instaurati con i docenti seguono regole diverse da quelle consuete fuori dall’aula. C’è una sensazione diffusa di poter essere più spontanei, di potere esporre le proprie critiche senza paura di rapporti disciplinari: "un po’ di libertà non di quella fisica magari un’altra libertà…

In che senso un’altra libertà? Un’altra libertà che tu senti che non si interessano.. magari tu te li immagini non interessano più di te, le guardie, già sedendo all’aula sei.. diciamo sotto a un’altra custodia forse quel sentimento…

Cioè tu ti senti sotto la custodia degli insegnanti? No ho usato questo termine perché ti senti non so sotto la tutela diciamo più precisamente però in quella, dentro l’aula c’ho un altro sentimento non è come fuori però i limiti, la differenza non è tanta però c’è una differenza dentro l’aula dentro l’aula ti senti anche libero perché o magari anche qualche volta avendo delle discussioni si esprime diciamo sinceramente, non è che con loro [gli agenti e gli educatori ndi] si esprime dicendo bugie però facendo delle differenze sulle cose, quando si discute si fanno dei freni, quando parlo con loro, si fanno delle differenze sapendo che non puoi andare a criticare altri loro colleghi, loro le sanno queste cose tu le fai capire eh e poi ti tieni in freno, perché sapendo se arriviamo a un certo punto non puoi più tornare, devi andare avanti con le critiche. A scuola no, se si discute di qualcosa si discute più spontaneo, e quello in quel senso la libertà si…non è che loro ti costringono ma tu sapendo, evitando per essere mal compreso , tu eviti anche quel genere di discussioni, perché tantissimi chiedono magari da un discorso di domandina, aspettando una risposta, una telefonata ti chiedono sulla cultura o su quelle cose no? io personalmente evito di discutere, perché anche quando discuto non mi piace dire la cosa che non penso, evito queste discussioni, invece a scuola le esprimo".

Oltre a sottolineare la maggiore "autenticità" dei rapporti tra detenuti e docenti e il minore formalismo rispetto a quelli con il personale del carcere, il brano che segue esplicita anche il fatto che la presenza dei docenti e degli operatori impegnati nelle attività formative, portando all’interno delle sezioni esigenze eterogenee rispetto a quelle della custodia contribuisce all’aumento di complessità della rete di relazioni all’interno delle carceri innescando a volte anche dei conflitti tra ambiti di intervento e ruoli professionali: "Ma loro sono sicuramente tra i docenti e tutti, diciamo così che gli operatori che entrano, che non sono vincolati a diciamo così…dal sistema proprio, non fanno parte da quel tessuto penitenziario, devo dire entrano con … i detenuti loro a volte col detenuto hanno un rapporto basato sulla solidarietà soprattutto, sull’umanità…, perché il detenuto li vede come…, in quel momento specifico, come un’ancora di salvezza, come un ponte tra lui e esterno, là comunque subentra… vede là nel rapporto, nella vicinanza nel calore una certa autenticità. Perché il rapporto con le guardie, con l’amministrazione sono rapporti totalmente formali, fatti comunque di, basati sul controllo, sulla sorveglianza repressiva mentre con gli operatori esterni che vengono da fuori c’è un rapporto di solidarietà di autenticità che fa sì che il detenuto in quel momento non viene in qualche maniera la sua personalità non viene inibita è una persona reale in quel momento. Perché il rapporto nella sua originalità fa sì che anche il detenuto è se stesso in quel momento emotivamente e in tutti i sensi e spesso questo crea, rende un pochino precaria la posizione stessa del docente o dell’operatore esterno all’interno al carcere. Ecco perché spesso per gli occhi che vengono da fuori è un pochino difficile dargli l’accesso al sistema penitenziario perché spesso loro si erigono a tutela dei diritti dei detenuti mentre è molto difficile far conciliare solidarietà umana con normative comunque così restrittive all’interno del sistema penitenziario. Perché i docenti e l’amministrazione penitenziaria spesso… non è che il rapporto è così semplice. Sono rapporti contrastanti: docenti e detenuti il rapporto è tipo umano, docenti e guardie, meno".

Vista in un’altra prospettiva, l’esperienza formativa diventa un laboratorio in cui si confrontano le differenze e si sperimentano consapevolmente modelli di convivenza più avanzati della semplice giustapposizione di gruppi etnici che i detenuti vivono quotidianamente in sezione: "la scuola è meglio anche per diciamo imparare a convivere con tipi diversi da noi no?, perché per esempio nella nostra aula siamo marocchini albanesi italiani senegalesi, tunisini, siamo mischiati, parliamo lingue diverse abbiamo culture diverse, meglio che impari qualche cose della cultura del loro paese, nel nostro paese dicono fino che vivi è meglio imparare".

"Bisogna farci coinvolgere con gli altri, fai un corso dove mettere dentro anche italiani sotto pressione magari mettere un’occasione dove c’è qualche attività dove tu la fai meglio e lui non riesce, lì capirà che c’ha questa gente qualcosa… non è che è scema è straniera mau mau mau, ha qualcosa in più".

 

 

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