Stranieri esclusi anche in carcere

 

Migranti, "esclusi" anche dietro le sbarre

Rieducazione, concetto fuori della realtà per i detenuti stranieri

di Bruno Desi avvocato, coordinamento nazionale Giuristi democratici

 

Liberazione, 5 settembre 2002

 

Il carcere l'aumento dei casi di suicidio, di malati di Aids, la protesta dei detenuti sottoposti al regime "duro" dell'art. 41 bis. Nei dibattiti e negli interventi sul tema si continua a parlare di rieducazione, di finalità costituzionale della pena, di recupero ed integrazione, della necessità o meno di ampliare le misure alternative al carcere.

Eppure sarebbe bene fermarsi e guardare a quel "fuori" dal carcere a cui tutti, a favore o contro, si richiamano. Nel nostro paese è presente una massa crescente di persone detenute - circa il 30%, vale a dire, secondo i dati più aggiornati, 16.892 su 56. 012 reclusi al luglio 2002 - per le quali la pena rieducativa, a prescindere da quello che ciascuno di noi può pensare sulla validità dell'opzione ideologica che la sottende, appare un concetto fuori dalla realtà.

Si tratta, è evidente, della popolazione straniera, quasi tutta irregolare, priva di radicamento legale con il territorio, destinata, una volta espiata la pena, ad essere espulsa, comunque, e a prescindere dal percorso maturato nel corso della detenzione.

E' noto che il dato relativo alla presenza di stranieri è destinato ad aumentare: l'inarrestabile flusso migratorio, le difficoltà di ingresso ed inserimento nel paese di arrivo, i meccanismi di repressione sempre più marcati (da ultimo la legge Bossi-Fini da noi, ma così è in tutta Europa), la precarietà socio-economica che sottende tutto ciò.

A questo si aggiunge che i periodi di detenzione per molti stranieri sono più lunghi, per mancanza di una adeguata difesa, perché spesso i magistrati basano il giudizio di pericolosità sociale sulla condizione di clandestino - senza documenti - casa - lavoro - a volte per difetto di comprensione di quello che sta succedendo (vogliamo dire che non ci sono interpreti nelle carceri italiane e che il nuovo regolamento penitenziario favorisce solo la presenza di mediatori culturali?).

Ora, se vale la finalità rieducativa della pena, e deve valere è ovvio per tutti, bisogna constatare che per un numero crescente e assai considerevole di persone quella finalità non può essere perseguita o, nella migliore delle ipotesi, può esserlo in modo differente.

Le misure alternative al carcere, semilibertà, affidamento, detenzione domiciliare, lavoro esterno presuppongono relazioni sociali, un lavoro (e quindi un regolare permesso di soggiorno), una casa, con qualche eccezione nella normativa che aiuta fiscalmente le imprese che assumono detenuti in corso di esecuzione pena, anche stranieri, per i quali, per il tempo del contratto, si deroga alla regolarità della permanenza sul territorio. Strumento poco utilizzato, che però non salva dall'esito scontato dell'espulsione.

Rendiamoci conto di essere davanti ad un nuovo scenario, impensabile ai tempi della nascita nel 1975 dell'ordinamento penitenziario e ancora lontano nel 1986 ai tempi della legge Gozzini.

E questa realtà ci impone di ripensare oggi il senso politico e le forme di attuazione del principio costituzionale che vuole una pena rieducativa, capace di reimmettere nel circuito sociale, forse oggi da riferire anche alle società di provenienza verso cui gli stranieri vengono poi rimandati.

E' possibile oggi ipotizzare la rieducazione di chi verrà poi espulso? E quali forme differenziate di trattamento si possono utilizzare, atteso che l'elemento centrale, per chi è in carcere, dovrebbe essere quel lavoro che non c'è, che diventa meta sospirata, anche per un periodo brevissimo, da parte di molti poveri della terra?

Ed ancora: che significato avrà, comunque, parlare di rieducazione con riferimento a persone che approderanno al carcere, con l'entrata in vigore della legge Bossi-Fini, per il solo fatto di non avere il permesso di soggiorno, senza avere commesso alcun reato, neppure il più modesto, per avere magari tentato con tenacia di affermare il proprio diritto ad una esistenza libera dal bisogno e dall'oppressione e che solo per questo sconteranno pene via via più severe?

E quando si dice, anche a sinistra, che bisogna ridurre il sovraffollamento, sembra ignorarsi che si è formato, da tempo, un doppio binario anche nella esecuzione della pena, e che la possibilità di contenere il numero dei detenuti non può riguardare, se non in minima percentuale, gli stranieri, a meno che già residenti e socialmente inseriti.

Questo è il dato oggettivo, da cui bisogna partire per un ragionamento complessivo sul significato e ruolo della penalità, oggi, che tenga conto del mutamento strutturale dell'universo "carcere" nel rapporto con l'esterno.

Con ogni probabilità alcune delle categorie socio-giuridiche sino ad oggi utilizzate appaiono più in parte svuotate di significato (rieducazione, reinserimento, etc.), mentre sullo sfondo si profila il progetto governativo, o meglio del ministro competente, ancora solo abbozzato, della privatizzazione delle carceri (in sintonia con il più complessivo disegno di privatizzazione della giustizia), pensato, dice Castelli - guarda caso - come soluzione anche per dare dignità e lavoro ai reclusi.

Il tema è complesso, e non basta essere contro, dimenticando i dati di realtà.

Dobbiamo imparare a non lasciare ad altri il dibattito su argomenti anche difficili, forse laceranti. E il carcere è uno di questi.

 

 

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