Detenuti e disabili

 

"Persone in detenzione, risorse ed 

esperienze di vita con persone disabili"

di Antonino Saia e Bruno Cappelli

Convegno "Persone con disabilità: risorse e valori da scoprire"

(23 marzo 2002, Torino)

 

Bruno Cappelli

 

Qualcuno si sarà già chiesto o si starà chiedendo quale attinenza possa avere la voce del detenuto in un contesto come questo, il cui interesse è rivolto al mondo della disabilità. Quanto desidero raccontarvi è in realtà un’esperienza unica, da quanto c’è dato a sapere, che coinvolge la realtà del carcere e quella delle persone disabili.

Prima ancora però di entrare nel vivo dell’esposizione, desidero richiamare per un momento la vostra attenzione su una piccola riflessione che riguarda un aspetto forse un po’ trascurato rispetto alla possibilità di estensione del concetto di disabilità ed emarginazione.

Se consideriamo senza preconcetti l’origine del termine di disabilità, come ha suggerito l’amico Toschi in una sua nota, riportata sul retro del programma, risulterà sicuramente più agevole comprendere quanto ampio sia lo spazio che raggruppa le categorie definibili come disabili.
Si pensi poi ancora alla definizione con la quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità che sancisce l’handicap: una condizione di svantaggio sociale derivato, in ultima analisi, dall’impossibilità d’accesso a molti settori della vita sociale.

Se questo è, non possono sfuggire le similitudini che, fatti i debiti distinguo, avvicinano la persona in detenzione, ad altre categorie di emarginati, quali i portatori di handicap fisici, molti anziani o pensionati ancora attivi, i disoccupati involontari.

Tutte queste categorie, delle quali si registra da anni un incremento numerico costante, vengono, in qualche modo, accomunate da un’identica esclusione, quella che collocando al margine di una società improntata alla produzione e al consumo, condiziona possibilità di crescita e di sviluppo, possibilità di espressione del proprio spirito, delle proprie volontà ed il diritto ad una piena cittadinanza.
Venendo a noi, circa due anni fa un piccolo gruppo di detenuti delle Vallette, al quale appartengo e di cui mi faccio qui portavoce, decise di promuovere, al proprio interno, un percorso autogestito di riflessione critica, coinvolgendo più voci e presenze anche esterne, sull’attuale senso della detenzione, sull’assunzione delle nostre passate responsabilità negative, sulle possibilità di riparazione e di concreto reinserimento sociale.

Ciò che animò allora quell’ambito - via via accresciutosi - fu una maturata convinzione, sommessamente espressa, ma fondata, che la sola inflizione di una pena più o meno lunga da scontare in ristretti spazi fisici e con pochissime opportunità di recupero, non risponda, né alle indicazioni più qualificate degli esperti del settore, né alle esigenze proprie, di chi si trova a vivere, in questi termini, un lungo, a volte lunghissimo tempo nel degrado. Ciò non significa negare gli sforzi perseguiti dalle Istituzioni per migliorare ed umanizzare la condizione della detenzione, bensì offrire, la propria positiva collaborazione in direzione del recupero attraverso l’impegno diretto.

A corroborare i nostri ragionamenti fu il desiderio di verificare il possibile superamento di una cultura meramente custodialistica e retribuzionista per una nuova cultura di ripacificazione, di restituzione e di reinserimento sociale.

Per altri aspetti, rendere più efficacie il tempo vissuto nella marginalità migliorando l’apporto che questo tempo potrebbe e dovrebbe, invece, recare a beneficio della persona detenuta e della società.
Il progetto "La pietra scartata…" rappresenta, per quanto ci è dato a sapere, il primo esperimento, che si realizza in Italia e che prevede l’incontro tra il mondo della disabilità e il mondo della reclusione. Due realtà che ciascuna a modo suo, vivono tutt’oggi il disagio della marginalità sociale.

Il fondamento teorico su cui si basa è la convinzione (da noi già in parte verificata) dell’utilità reciproca che queste due realtà possono promuovere nella direzione dell’auto-aiuto finalizzato alla rispettiva crescita formativa. Un auto aiuto finalizzato all’apprendimento di nuove cognizioni relazionali, al superamento di alcuni aspetti di quella marginalità con la quale, seppur per circostanze enormemente diverse tra loro, si trovano quotidianamente costrette a fare i conti.

Nel nostro progetto, che prevede due pomeriggi alla settimana dedicati alla preparazione ed alla pratica del volontariato, la persona disabile si trova, forse per la prima volta, nonostante la presenza anche di rilevante disabilità fisica, (pensiamo al cieco, al sordo - cieco e al sordomuto con handicap mentale), ad offrirsi volontariamente per dare qualcosa di unicamente proprio ad un’altra persona. Diviene di fatto promotrice di umanità e attraverso questa esperienza, sperimenta il valore ed il significato dell’offrirsi e del dare all’altro, di sentirsi utile e, forse, un po’ meno dis-abile.

Al detenuto viene offerta un’opportunità, quanto mai importante, di uscire da uno stato di più o meno forzata quiescenza, di incontrare persone nuove (oltre ai disabili vi è sempre qualche volontario accompagnatore, che porta con sé l’esperienza di una scelta di profonda umanità) e ciò gli consente, infine, di poter impegnare le proprie energie in direzione positiva.
Trovandosi poi a confrontarsi con una realtà difficile, quale quella della persona disabile, la persona detenuta non può non sentirsi sollecitata nei suoi sentimenti migliori; spinta a riconsiderare la propria sventura alla luce di altre certamente più gravose ed indubbiamente immeritate; stimolata a mettere in discussione quelle forme di egoismo spesso facilitate dalle percezioni di isolamento e dalla difficoltà di individuare possibili sistemi di appartenenza; incentivata a superare gli effetti perversi di un’etichettatura sociale che ripropone del detenuto un’immagine solo negativa e non sempre aggiornata.

Ciò che abbiamo prodotto, non è per ora che un’esperienza di poche persone che, pur nel disagio della propria condizione, hanno trovato risorse positive da offrire nella direzione di un possibile ripristino del dialogo con la società, bruscamente interrotto.

Per due anni abbiamo operato, nell’incertezza dei possibili risultati, animati solamente dalla ferma convinzione di alcuni di noi, che non basti un’etichetta per offuscare definitivamente e incontrovertibilmente le potenzialità positive che giacciono nel profondo di ogni essere umano.

Indipendentemente dai pur buoni risultati osservabili nell’esperienza avviata con i nostri amici del Cottolengo (di cui vi illustrerà più accuratamente il mio compagno), a noi sembra una concreta alternativa di considerare il tempo della reclusione. Un modo che per i responsabili di reato può significare una nuova presa di coscienza, di responsabilizzazione, di attenzione verso l’altro; una concreta riappropriazione di valori, un’opportunità di riscatto morale. Per tutta la comunità, verso la quale si riconosce un debito, ci pare possa rappresentare una valida opportunità di riconsiderazione, di risarcimento più che simbolico, uno stimolo alla ri-accettazione e al re-inserimento.

Se ne parliamo qui oggi, sollecitati dall’invito di questi nostri amici, non è per farle tardiva pubblicità, ma soltanto perché pensiamo che questa esperienza meriti, a questo punto, quelle maggiori attenzioni, verifiche e critiche, che consentano poi una sua possibile estensione.
Vorrei concludere questa introduzione, citando a proposito di fiducia e riconoscimento, un documento estremamente attinente che può aiutare ad esprimere, in modo ancor più chiaro, la necessità di rinnovare una dialettica fra il bisogno di fiducia da parte di certe categorie, (in questo caso il detenuto) e la legittima diffidenza dei cittadini liberi e osservanti le leggi.

Sono parole espresse in una lettera pubblica inviata dal Dott. Fassone, (già Presidente di Corte d’Assise e attualmente membro della Commissione Giustizia del Senato della Repubblica) a un detenuto da egli stesso condannato che esprimeva, appunto, una richiesta di fiducia a fronte di un progetto collettivo da sviluppare.

Cito testualmente:

Caro…, voi dite di avere bisogno della fiducia per avere speranza, e della speranza per poter dare un senso ai vostri giorni. Gli altri (la società) hanno forse desiderio di accordare questa fiducia, ma hanno insieme il timore di vederla tradita, la paura dell’abuso che annulla la fiducia e la speranza.
(continua più avanti)… D’altro canto, il rifiuto di fiducia verso chi ha deciso di rompere con il suo passato rischia di mandare a vuoto lo sforzo di costruirsi un futuro diverso, se tanto il trattamento rimane uguale per tutti, per chi ha maturato scelte nuove e per chi insiste nelle scelte vecchie. Questo incrocio di tensioni contrapposte produce un conflitto che la legge è in grado di risolvere solo in minima parte e che solo un surplus di moralità può comporre.
Il detenuto deve dedicarsi alla costruzione di una sua vita migliore, anche a rischio che il suo sforzo non sia riconosciuto. E la collettività deve accordare una chance al detenuto, anche a rischio che il detenuto ne abusi. L’una e l’altra, insomma, devono agire a rischio, a fondo perduto, mettendo in conto di non ottenere ciò che cercano. …Chi debba rischiare per primo è difficile dire… la collettività chiede al detenuto che sia lui a incominciare per primo a dimostrare il suo cambiamento, perché si sente in credito, perché il detenuto ha mancato per primo e sembra giusto che sia lui a mettere la prima pietra di un nuovo patto. Per far questo non bastano i gesti di fiducia occasionale e sporadica che già sono possibili, con un permesso accordato con qualche coraggio, o un rientro effettuato vincendo la tentazione di non rientrare. Questo è importante ma è poco. Per uscire dalla posizione di stallo bisogna offrire al detenuto delle occasioni vere e reali di dimostrare la serietà dei suoi propositi e chiedere al detenuto di dimostrarla senza oscillazioni. Se con il delitto egli ha contratto un debito con i suoi simili, questo debito va pagato, non con una sofferenza inerte e degradante ma con uno sforzo positivo e costruttivo, non male per male, ma bene per male. Il debito, la mancanza verso i doveri di solidarietà vanno risarciti non con il sacrificio della libertà, ma con un buon impiego di questa libertà, con una prestazione a favore della comunità ferita.
I servizi di pubblica utilità sono, a mio giudizio, la pena di domani, la risposta di una collettività che non pratica né la vendetta, né l’abbandono. E dall’altra parte, possono essere la risposta di un detenuto che offre non solo un proposito più o meno credibile, ma la disponibilità ad essere messo alla prova: la realtà di un impegno, di un lavoro, di una fatica.

Noi detenuti, in questa circostanza, fiduciosi, abbiamo fatto i nostri primi passi assumendoci i nostri rischi; qualcuno ha deciso di andare a vedere, assumendosi i propri. Le risorse si sono trovate e si stanno cominciando a vedere i frutti. Altri ancora più importanti se ne potranno realizzare.

Nessun essere umano è senza risorse; è però necessario che vengano riconosciute e nella difficoltà incoraggiate.
Siamo entrati in un mondo che non conoscevamo. Abbiamo iniziato a capirne e ad assumerne le tante e complesse problematiche che questo comporta, disposti ad affiancare e condividere le tante fatiche e difficoltà che ci accomunano.

Per questo, riconoscenti, ringraziamo tutte le persone che hanno creduto in noi e ci hanno offerto il loro personale contributo. Un contributo prezioso, grazie al quale ci è stato possibile avanzare nel nostro cammino di crescita e realizzazione umana. Lascio ora la parola al mio compagno. Un grazie sincero, a tutti.


Antonino Saia

 

Descrivere un’esperienza non è mai semplice, descrivere quanto sta avvenendo nell’incontro tra persone recluse, volontari e ospiti della Piccola Casa della Divina Provvidenza che stanno collaborando su un progetto piuttosto "fuori dal comune", risulta ancora più difficile, perlomeno da parte di chi, come noi, vi si trova coinvolto in prima persona.

Ci siamo accorti subito che ogni tentativo di spiegare con parole e su un piano "teorico" l’intensità e le motivazioni a monte di questa esperienza poco aiuta, in realtà, a comprendere l’essenza profonda di ciò che stiamo vivendo, facendoci anzi correre il rischio di trovarci un passo indietro rispetto a dove siamo oggi giunti.

I bei discorsi e l’enunciazione dei migliori principi a poco servono fin tanto che tali rimangono: noi abbiamo capito che soltanto vivendole e sperimentandole in prima persona certe questioni si possono intendere e recepire pienamente.

Siamo partiti, negli anni scorsi, elaborando in carcere una serie di riflessioni che, pur orientate a rivedere criticamente le nostre passate esperienze di devianza, registravano comunque il limite della mancanza di un riscontro tangibile con la realtà sociale esterna.

La ricerca di un possibile confronto concreto fra le nostre esigenze di recupero e la necessità di "riparazione", di "sdebitamento" verso la società, ci ha spinto a rivolgere l’attenzione verso quelle realtà che ritenevamo più bisognose e a cui favore potesse risultare più utile dare l’umile apporto delle nostre limitate energie.

Grazie ad alcune persone "illuminate" e forse un po’ "visionarie" come Don Piero, Cesare Cremona, Suor Liliana e Fratel Marco è stato possibile organizzare alcuni importanti incontri in carcere, che hanno consentito un primo avvicinamento fra "mondi" lontani ma non estranei.
Ciò ha creato i presupposti e le condizioni da cui si è in seguito potuto sviluppare un progetto come quello de "La pietra scartata…". Il vero passaggio quindi da una dimensione di intenti ad una di fattività concreta è avvenuto nel momento in cui, lasciati da parte dubbi, pregiudizi e teoremi "specialistici", ci è stata offerta la possibilità di toccare con mano la realtà della condivisione, mettendo in campo la nostra umanità a fianco di quella di chi ha voluto riconoscere la buona volontà che ci animava.

Costruire relazioni e impegnarsi su un progetto comune con persone che, portatrici a loro volta di problemi e sofferenza, non hanno avuto difficoltà a darci la loro fiducia, crediamo proprio che si stia rivelando una formidabile esperienza di crescita ed autovalorizzazione reciproca.

La conoscenza di Virginio, Antonio, Sergio, Giuseppino, Olivasio, e degli altri nostri amici, i momenti di comunanza e mutua solidarietà sperimentati, ci hanno dimostrato, più di tante altre circostanze, quanto sia riduttiva ogni classificazione dell’uomo per categorie astratte.

Sordomuti, ciechi, disabili, allo stesso modo di detenuti e tanti altri "disabili sociali", sono persone che, indipendentemente da tutto, hanno un loro nome, una loro storia e, spesso, un patrimonio di esperienze significative da scoprire e non ignorare.

Incontrandoci ed iniziando a comunicare, pur con tutti i limiti delle nostre rispettive condizioni, abbiamo scoperto quanto (e quanto più di molti esperti…) possa essere in grado una persona "disabile" di divenire Promotrice di Umanità.

Nonostante lo scetticismo iniziale presente, oltre che tra alcuni di noi, anche tra diversi esperti ed operatori penitenziari, possiamo oggi dire che grazie a questo "contagio di umanità" siamo riusciti a coinvolgere, infine, un po’ tutti in questa avventura.

Vedere oggi con quale spontanea naturalezza trascorriamo insieme certi pomeriggi, ci dedichiamo ad attività comuni, compartecipiamo dei nostri problemi… è già di per sé il raggiungimento di un primo importante obiettivo: è diventato per tutti "normale" ciò che in un principio sembrava quasi "inopportuno", "fuori luogo" e forse anche un po’ "fastidioso", soprattutto in un ambito così "ristretto" come quello carcerario.

A distanza di due anni siamo riusciti a passare ad una seconda fase di sviluppo del progetto. Completato infatti un primo percorso "formativo" sull’apprendimento dei linguaggi specialistici e sperimentati i primi momenti di attività in comune è stato possibile impostare uno sviluppo del lavoro su un piano decisamente più "personalizzato".

Per valorizzare in tal senso la qualità delle relazioni individuali si sono organizzati distinti livelli di operatività comune. Ognuno di noi, per esempio (in base anche alle proprie personali attitudini), si fa carico, attualmente, di "guidare" uno dei nostri ospiti in una specifica attività di quelle che è stato possibile strutturare negli spazi della sezione penitenziaria in cui siamo ristretti. Dalla preparazione di alcuni cibi semplici, che vengono poi consumati insieme, ad alcune pratiche di giardinaggio, dalla realizzazione di oggetti e disegni artistici alla presa di contatto con i computer e l’informatica…

Il risultato che si sta apprezzando è quello di aver accresciuto il livello di empatia reciproca, consentendo una significativa interazione sul piano dello scambio umano, interazione che spesso supera le possibilità comuni consentite dalle forme più convenzionali di linguaggio strutturato. Occorre naturalmente dedicare parecchio tempo all’organizzazione, al confronto e alla verifica dei passi che, a uno a uno, si stanno dando. Provvediamo infatti a tenere parallelamente una serie di incontri nei quali, con regolarità, discutiamo e analizziamo con il responsabile del progetto (fratel Marco) le singole esperienze, i problemi e le idee che sorgono, oltre che i significati che vanno assumendo.

In questo senso, anche il momento della verifica ha assunto una certa importanza. Alcuni dei partecipanti alla prima fase, per esempio, al momento di passare a quella successiva, considerarono la possibilità di approfondimento di questo impegno eccessivamente gravosa, ed esaurita la spinta iniziale decisero di non proseguire. Attualmente, trascorsi i primi due anni, risulta essere impegnato, in forma stabile e formale, un gruppo di dieci detenuti sui venti che compongono la sezione. Colgo l’occasione, tra l’altro, per ricordare proprio quelli di loro che ci avrebbero tenuto molto a presenziare a questo incontro ma che, purtroppo, non ne hanno avuto la possibilità. Le mie parole li rappresentano tutti e vi trasmetto il loro più caloroso saluto.

È doveroso infine ricordare che questo "esperimento" si è reso possibile anche grazie al sensibile coinvolgimento della Direzione del carcere e di quegli Agenti di Polizia penitenziaria che, pur nel pieno rispetto dei propri ruoli e responsabilità, non hanno mai fatto mancare la loro disponibilità e la loro partecipazione alla crescita del progetto. Tutto ciò lascia ben sperare rispetto alla possibilità che la nostra piccola esperienza possa in futuro estendersi, con le modalità più opportune, al resto della realtà penitenziaria.

Concludo con la convinzione che qualcosa di buono si sia fatto e si stia facendo; con un messaggio quindi di vicinanza ed adesione a quelli che oggi riteniamo obiettivi imprescindibili (ci aspetta una scadenza importante: il 2003 sarà l’anno europeo delle persone disabili); e con una richiesta di considerazione e valorizzazione della particolare esperienza che stiamo vivendo. Grazie e alla prossima.

 

 

Precedente Home Su Successiva