Cassazione n° 1051/2000

 

Cassazione: deontologia giudiziaria e suicidio del detenuto

Sezioni Unite Civili n° 1051 del 3 ottobre 2000

 

Da tempo la giurisprudenza disciplinare della magistratura ordinaria mostra particolare attenzione e severità quando le vicende giudiziarie coinvolgano valori fondamentali della persona umana. Ed in questo quadro si colloca la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 1051, 3 ottobre 2000 (Presidente Grossi - Relatore: Altieri), pronunciata su un caso ove l’attenzione dei magistrati (che non erano stati inerti) non è apparsa sufficiente a garantire la salute fisica e mentale di un detenuto.

Il 26 gennaio del 1998 si suicidava in carcere mediante impiccagione la detenuta Patrizia Rossi, arrestata il 27 settembre 1997 dalla polizia perché, dopo aver dato fuoco alla propria abitazione, aveva opposto resistenza, brandendo un coltello da cucina, ai vigili del fuoco che erano intervenuti, commettendo, cosi, i delitti di cui agli articoli 423, 337, 339 cod. pen. (incendio e resistenza aggravata).

Su richiesta del pubblico ministero, il GIP convalidava l’arresto ed emetteva ordinanza di custodia cautelare motivata con la grave pericolosità della donna, che avrebbe potuto, messa in libertà, commettere altri analoghi gesti ponendo in pericolo la vita dei terzi.

La direzione del carcere segnalava la grave agitazione della donna e le sue crisi persecutorie e ne chiedeva il trasferimento in manicomio giudiziario, la conforme richiesta del pubblico ministero veniva però respinta dal GIP, con la considerazione che la custodia in manicomio non potesse essere disposta in corso di detenzione, e suggeriva il trasferimento su ordine del pm della detenuta in un carcere psichiatrico giudiziario.

Solo dopo la morte della Rossi veniva depositata relazione peritale (su consulenza disposta dal 7 ottobre) che la riteneva incapace di intendere e volere e curabile. Il Ministro promuove azione disciplinare contro il pubblico ministero e contro il gip, il gip viene prosciolto ed il pm condannato per aver concesso un termine troppo lungo al perito d’ufficio per il deposito della relazione, per non aver disposto il trasferimento della donna in carcere psichiatrico o casa di cura, per non aver in alternativa impugnato il provvedimento del gip. La condanna viene confermata dalle Sezioni Unite.

Il giudice disciplinare, spinto dalla gravità del caso, sindaca di merito la attività giudiziaria ritenendo il magistrato responsabile per non essersi adeguatamente adoperato, di fronte ad una gravissima situazione d’instabilità mentale di una persona che aveva già manifestato segni di pericolosità per se stessa e per gli altri, onde fronteggiare tale situazione nel modo più idoneo, e cioè (stabilisce il giudice disciplinare implicitamente scagionando la direzione del carcere da un possibile addebito di scarsa vigilanza) attraverso il trasferimento, da attuarsi con gli appropriati strumenti processuali, in ambiente psichiatrico. Inoltre il giudice disciplinare addebita al magistrato il rilevante ritardo con cui ebbe ad ottenere l’ accertamento sulle condizioni mentali della donna (pur avendo sollecitamente conferito l’incarico). Né può il giudice invocare la discrezionalità conferitagli dalla legge perché anche l’esercizio di un potere discrezionale incontra precisi limiti nei doveri di assicurare il migliore perseguimento degli interessi in gioco: nel caso di specie, quello di una rapida definizione dell’indagine e di garanzia che la privazione della libertà personale di un soggetto le cui condizioni di salute mentale appaiano manifestamente incompatibili con la detenzione carceraria avvenga nelle condizioni più idonee a tutelare la salute del soggetto detenuto.

In sostanza il Giudice disciplinare giunge alla conclusione che il mantenimento della custodia cautelare in carcere nei confronti di persona le cui condizioni erano manifestamente incompatibili con tale stato si era protratto per un tempo eccessivo, e che tale protrazione non poteva in alcun modo essere giustificata, ancorché in tale periodo il magistrato non si fosse disinteressato della vicenda ma vi fosse intervenuto con provvedimenti inadeguati.

Le Sezioni Unite confermano questa valutazione della Sezione Disciplinare ed inoltre sottolineano che, sebbene le notizie diffuse attraverso i mezzi d’informazione non contenessero il nome del magistrato, correttamente la Sezione Disciplinare ha ritenuto la sussistenza della responsabilità. Infatti, l’evento esterno che, unicamente alla violazione di una norma di condotta e all’elemento soggettivo, condiziona tale responsabilità consiste nel fatto che la violazione incida sulla credibilità del singolo magistrato o, in alternativa, sul prestigio dell’ordine giudiziario. Evento verificato attraverso l’ampia diffusione nella stampa della vicenda del suicidio della Rossi.

Sul piano procedurale le Sezioni Unite ribadiscono che ove al magistrato, si contesti una sua condotta di tipo continuativo, articolatisi in una pluralità di episodi, l’enunciazione dell’addebito nel decreto di fissazione dell’udienza in termini sintetici, senza la specificazione di ciascuno di detti episodi, non determina invalidità dell’atto qualora siano indicate elementi e circostanze idonee a porre l’incolpato in grado di conoscere con completezza le accuse, e quindi di svolgere ogni opportuna difesa. Ed in particolare è consentito al giudice disciplinare utilizzare argomentazioni che poggino su fatti diversi da quelli specificamente enunciati, in via esemplificativa, nel capo di incolpazione.

 

 

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