Corsa ai nuovi manicomi

 

Corsa ai nuovi manicomi

di Franco Corleone

 

Manifesto, 9 marzo 2004

 

Nonostante le ultime inchieste compiute mostrino l’assurdità e l’ingiustizia degli ospedali psichiatrici giudiziari esistenti, il governo punta a crearne di nuovi, precostituendo la rinascita dei manicomi ordinari.

Recentemente è stata presentata a Roma una ricerca del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria intitolata "Anatomia degli ospedali psichiatrici giudiziari" curata da Vittorino Andreoli. Se qualcuno si mostrasse stupito di una iniziativa che potrebbe apparire in contraddizione con le linee dominanti del ministero della giustizia, preciso che si tratta del frutto di una delle tante iniziative lasciate in eredità: e infatti nella presentazione il dottor Giovanni Tamburino, direttore dell’Ufficio studi e ricerche del Dap, ricorda l’origine della ricerca, nata dalla volontà di effettuare uno screening degli internati negli Opg per verificare la durata dell’internamento, la diagnosi clinica e la tipologia della pericolosità sociale, per dare un motivato parere allo schema di disegno di legge da me trasmesso nell’ottobre 2000 in qualità di sottosegretario alla giustizia e il cui testo risultava raccordato con quello della Commissione di riforma della parte generale del codice penale, presieduta dal prof. Carlo Federico Grosso. E aggiunge sempre Tamburino: "Lo schema era ispirato a una filosofia radicalmente innovativa perché sopprimeva la nozione di pericolosità sociale con riferimento ai soggetti non imputabili, prevedeva la soppressione non soltanto delle case di cura e custodia, ma anche degli Opg, introduceva ex novo istituti di ricovero per soggetti non imputabili, prevedeva una misura di sicurezza non detentiva, chiamata "affidamento in prova al servizio sociale", con denominazione identica a quella della misura alternativa alla pena detentiva prevista dall’art. 47 dell’ordinamento penitenziario".

La ricerca offre una fotografia dei 1282 pazienti presenti in un giorno del marzo 2001; è un lavoro di carattere quantitativo e non qualitativo e offre, pur con molti limiti metodologici e di analisi, una serie di dati che senza dubbio possono aiutare la riflessione sul che fare. Perché proprio questo è il punto, che 1195 uomini 87 donne continuano a rimanere in una inquietante zona d’ombra, nella colpevole distrazione di una società civile e politica sensibile alle sole sirene della sicurezza.

I dati sulla bassa scolarità e sulla non occupazione dei soggetti esaminati non costituiscono una particolare novità. Interessante il numero delle contenzioni, ben 816 in un anno, relative a 488 pazienti; e il tempo di permanenza, che per il 6,6% degli internati supera i dieci anni. I reati commessi vedono la prevalenza di quelli contro la persona (75%) rispetto al 25% contro la proprietà. Permangono dei casi anomali assolutamente sproporzionati con il manicomio giudiziario. Ancora più paradossale appare la considerazione di Andreoli sull’assenza di alcun legame tra reato e permanenza nell’Istituto. Grave risulta essere la mancanza di diagnosi in un numero significativo di casi: è il segno evidente della non risoluzione del rapporto tra psichiatria e giustizia che trovava una perfetta simmetria nella legge del 1904 (l’incapacità di intendere e volere si saldava con la pericolosità sociale), mentre appare in conflitto insanabile dopo l’approvazione della legge 180 del 1978.

Per risolvere alla radice una realtà ambigua e scabrosa avevo presentato nelle scorse legislature una proposta di legge che incideva sul principio della non imputabilità. Questa soluzione non nega la specificità di una particolare condizione umana e personale, ma elimina le ipocrisie e sancisce il diritto al giudizio e quindi la possibilità di elaborare le vicende anche drammatiche di cui il soggetto è stato protagonista. In altri termini esalto la riconquista della dignità civile e della responsabilità rispetto ad una soluzione equivoca e pietistica; ovviamente l’esecuzione della pena non deve coincidere con il carcere e vanno previste in aggiunta a quelle esistenti, diverse possibilità alternative e terapeutiche.

La mia proposta ha ottenuto consensi negli ambienti psichiatrici e dissensi in una parte della scienza penalistica, ma fu condivisa da Michele Coiro che definiva le altre ipotesi come palliativi che avrebbero lasciata immutata la situazione. Le conclusioni di Vittorino Andreoli invece sono assai preoccupanti non tanto per la stantìa accusa di ideologia a chi faccia riferimento ai principi della 180, quanto per la proposta di sostituire gli attuali sei istituti con venti strutture di cinquanta posti. Queste strutture su base regionale sarebbero gestite da una doppia direzione espressa da un primario medico e da un rappresentante della polizia penitenziaria. Altro che superamento degli Opg! Cadremmo proprio dalla pentola nella brace.

La scorciatoia di voler riformare, senza una modifica legislativa coerente, produrrebbe vere mostruosità. Oltretutto si correrebbe davvero il rischio di ridare legittimità alla riapertura dei manicomi civili con l’alibi della prevenzione della reiterazione del reato. In questo senso d’altronde si muove la proposta Burani Procaccini di revisione della 180, in discussione alla camera dei deputati che ha lo scopo di ricreare un contenitore del disagio, non solo psichico: è un segno preoccupante delle pulsioni di controriforma, verso le quali non è sufficiente la denuncia o la resistenza. Paghiamo così l’errore del centrosinistra di non avere portato a coronamento il progetto del pensiero critico e riformatore in occasione della celebrazione dei venti anni della legge Basaglia. La battaglia per la chiusura degli Opg costituirebbe una risposta avanzata capace di riproporre un’egemonia sul terreno del welfare e dell’inclusione sociale.

Vittorino Andreoli ha sostenuto che dai dati della ricerca non emerge la conferma dello stereotipo dell’Opg come luogo di abbandono e di sepolti vivi; se ciò è parzialmente vero, è però accaduto per la capacità e la passione degli operatori, ma niente garantisce che non si possa tornare agli anni bui se dovesse prevalere la stanchezza o il senso comune più incarognito. Affidarsi alla buone pratiche conservando fisicamente e giuridicamente lo stesso luogo è una presunzione di ottimismo della volontà. Gli otri vecchi rovinano il vino nuovo. Ricordo un dibattito a Reggio Emilia con Sergio Cofferati su questo tema che riguarda poche persone (ma l’ingiustizia non si misura dalla quantità) e mi auguro che la sorte di una estrema minoranza sia affrontata nella riflessione di un programma di governo innovativo.

Durante la discussione della ricerca, il direttore di Montelupo, dottor Scarpa, ha segnalato che in questa legislatura nessun parlamentare ha presentato proposte di riforma per gli ospedali psichiatrici giudiziari: conto che questa distrazione non sia un’ennesima rimozione del problema. Spero che ci sia qualcuno a cui passare il testimone, offrendo i testi che ho elaborato negli anni, sia quello "radicale" che quello governativo, per continuare anche nelle istituzioni una battaglia umanistica e di civiltà. Mi auguro che anche regioni come l’Emilia-Romagna e la Toscana che avevano presentato la proposta della Fondazione Michelucci elaborata da Sandro Margara, riprendano l’iniziativa. E’ una frontiera del diritto e dei diritti.

 

 

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