La vita dentro gli Opg

 

La mia vita dentro gli Opg, intervista a Maria Rosaria Bianchi

 

Itaca, 3 gennaio 2005

 

"Tu che vu fa, a psichiatra o a ‘mministrativa?". Così si sentì chiedere la dottoressa Maria Rosaria Bianchi il 30 dicembre del 1996. Era appena arrivata ad Aversa, l’antivigilia di Capodanno, una laurea in medicina e chirurgia ed un tirocinio in psichiatria alle spalle. In più il superamento del primo concorso pubblico per direttore di Opg. Ad una domanda così diretta la risposta non poteva essere che una: "Voglio lavorare con i rei folli". Detto, fatto.

E la Bianchi fu subito sottoposta alla prova del nove: direzione medica della "staccata". Con questa denominazione ad Aversa si intende qualcosa di tremendo. Una parola quasi banale, apparentemente da gergo motociclistico, che si riferisce invece all’ubicazione del padiglione rispetto al resto dell’Istituto: è, appunto, staccato. Lontano.

Di più: è il reparto di segregazione dura, dove ci sono i letti di contenzione (non sempre legali). È il posto dove gli "ospiti" non si possono allontanare dai propri giacigli, al centro dei quali c’è un buco, con sottostante secchio, dove vengono convogliate le feci. Per non esserne ricoperti. "Una mia collega mi disse di non andare - racconta la psichiatra - perché era convinta che sarei fuggita dopo una settimana. Come accadde a lei. Io però avevo un’arma in più: ero forte degli insegnamenti del mio maestro, il professor Massimo Fagioli. Così, sono rimasta due anni, arrivando a vivere anche all’interno dell’Opg".

 

Perché scelse la prima possibilità? E perché avrei dovuto rispondere di no?

Era il compimento di una lunga gavetta, un banco di prova formidabile. Poi, non potevo sbagliare, non essendoci lesioni organiche nei miei pazienti. Oltretutto, erano proprio loro ad aiutarmi.

 

Due anni tra i morti viventi. Non è stata dura?

In effetti la cosa più sconvolgente è l’assenza del tempo. Si vive in un senso di assoluta rassegnazione. L’unico riferimento alla realtà me lo davano i miei colleghi: quando mi chiedevano se avevo già presentato domanda di trasferimento.

 

Come si aiuta un condannato, oltre ad abbondanti dosi di psicofarmaci?

Veramente io di prescrizioni mediche ne ho rilasciate molto poche. Lungi da me ogni senso di onnipotenza, ma credo che qualche risultato sia possibile ottenerlo con il lavoro in gruppo, soprattutto con quei soggetti che erano veramente psichiatrici. Non si può dunque parlare di guarigione, ma di curabilità sì. E la dimostrazione è tangibile anche con i trasferimenti nei reparti di custodia attenuata o nelle residenze protette di molti dei soggetti sottoposti a trattamento.

 

Lei spesso si trovava di fronte dei serial killer, uxoricidi, stupratori, piromani e quant’altro. Mai avuto paura?

Veramente nei nostri gruppi mi sentivo protetta proprio dalle persone con cui stavo in contatto.

 

E cosa le raccontavano i suoi pazienti?

Questo non lo dirò neppure sotto tortura.

 

Neppure un piccolo ricordo?

Ce ne sono moltissimi, ma non posso rivelarli. Le dico solo che una delle più grandi soddisfazioni l’ho provata quando uno dei partecipanti alle sedute mi disse di aver sognato. Lui aveva oltre 40 anni, non ricordava attività onirica da quando era quattordicenne. In fondo erano solo persone che chiedevano una cosa: essere ascoltati. Negli argomenti più disparati: donne, cinema, spettacoli…

 

Non sempre è facile capire chi sono coloro che si trovano dietro a quelle sbarre. Ci potrebbe descriverne qualcuno?

Mi viene in mente un carabiniere. Un uomo alto, distinto, di aspetto gradevole. Vestiva sempre in tuta. Pulito ed ordinato. Un giorno si avvicinò e mi disse che aveva fatto tutto per quella donna, anche la dieta. Ma lei non apprezzò la cosa e così la uccise insieme ad altre sei persone, con la pistola d’ordinanza. Al processo fu riconosciuto capace di intendere e di volere e quindi condannato. Poi, con l’art. 148, trasferito all’Opg. La sua condizione appariva chiara sin dall’inizio. Così come quella della donna che aveva scambiato la propria figlia per un tovagliolo rosso e l’aveva messa dentro la lavatrice.

 

La sua giornata come era organizzata?

La mattina dialogavo con gli psicotici cronici. Preparavo le relazioni per il magistrato di sorveglianza. Nel pomeriggio mi chiudevo nell’ufficio matricola, dove cercavo di conoscere la storia, anche processuale, di ognuno degli ospiti dell’Opg. In una delle mie lunghe ricerche trovai anche il fascicolo di una bambina di 11 anni che ad inizio secolo fu chiusa in quelle stanze. La sua unica colpa fu quella di aver subito uno stupro. Nel faldone c’era anche la sua foto. Non fu facile dimenticare il terrore dipinto nei suoi occhi.

 

Insomma, tanti poveri disgraziati?

Non sempre. È vero il degrado è spesso la provenienza più comune, ma anche persone benestanti sono toccate da queste tragedie. Io ricordo, ad esempio, un caso di un soggetto che aveva portato a termine gli studi universitari. Ed anche in maniera brillante.

 

Qual è il problema più grave per queste persone?

Forse la poca collaborazione con le unità sanitarie. Nelle liste degli reclusi (fonte Ministero della giustizia, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) si evince che i reati più comuni non sono gravi. La tipologia più diffusa è quella dei maltrattamenti in famiglia, dell’estorsione o del furto. Situazioni che non andrebbero confuse con chi commette un uxoricidio.

 

Il futuro degli Opg?

Credo che siano state formulate delle proposte di legge molto interessanti. Più che il futuro però, è necessario partire dal presente: la negazione della malattia mentale, come diceva il professor Fagioli, è il vero problema da risolvere.

 

 

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