Psichiatria e carcere

 

Osservazione e trattamento penitenziario

 

L'Ordinamento Penitenziario vigente è stato concepito e voluto dal legislatore in funzione non della sola custodia del detenuto e neppure del mero riconoscimento del suo diritto elementare ad un trattamento conforme alla sua qualità di persona, ma -in ossequio all'art. 27 della Costituzione- in funzione del recupero sociale del condannato. Anche da norme regolamentari (art. 2 D.P.R. 431/76) si ha conferma del superamento definitivo della finalità custodialistica, là dove si dispone che "la sicurezza, l'ordine e la disciplina degli Istituti penitenziari" e cioè gli elementi essenziali della custodia, "costituiscono la condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento". La privazione della libertà, aspetto afflittivo della pena, è diventata in sostanza il mezzo per tendere al recupero sociale del condannato mediante il suo trattamento individualizzato.

Le linee fondamentali del sistema prevedono che il condannato, appena ricevuto nell'istituto penitenziario di prima assegnazione e sottoposto a visita medica non oltre il giorno successivo, abbia un primo colloquio con il direttore dell'istituto, o con un operatore penitenziario da lui designato, anche al fine di individuare eventuali problemi personali e familiari che richiedono interventi immediati.

L'art. 80, 4ºcomma della legge 354/75 prevede inoltre che, per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l'Amministrazione Penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica.

La legge fa pertanto richiamo a figure professionali differenti tra di loro sia per il tipo di studi e di esperienze che per le implicite diversità di prospettive sotto le quali ognuna di queste branche del sapere scientifico guarda al fenomeno criminale. "Il richiamo alle molteplici figure di specialisti, se su un piano puramente teorico può essere considerato positivo in termini di pluralità delle prospettive ammesse, in concreto comporta il rischio reale di inserire in ambiente penitenziario esperti di discipline soltanto collaterali, con conoscenze che riguardano aspetti parziali del vasto campo della criminologia e del trattamento, ma mai l'intero complesso dei fenomeni relativi e anzi di regola con vastissime lacune a questo riguardo".

Tali categorie di specialisti indicate nell'art. 80 rappresentano, almeno in parte, doppioni di figure già presenti ad altro titolo entro le strutture penitenziarie. Il medico psichiatra ha fatto parte fin dal secolo scorso del personale sanitario degli istituti, e non soltanto degli specialistici ospedali psichiatrici giudiziari, creati dal regolamento del 1891. L'educatore che sotto certi profili deve essere considerato un "esperto" di problemi pedagogici, è entrato stabilmente tra le figure operanti negli istituti per minorenni nel 1907, ed è presente ora tra il personale di ruolo anche degli istituti per adulti. Operatori del servizio sociale fanno parte già da molto tempo del personale di ruolo presso gli Uffici del servizio sociale. Pertanto, le figure di esperti che non rappresentano doppioni di altre figure di personale di ruolo (anche se naturalmente nel termine "esperti" dovrebbe in ogni caso essere implicito il richiamo ad una professionalità particolare) sono costituite dallo psicologo e dal criminologo. Queste considerazioni devono probabilmente esser state fatte anche dall'Amministrazione, dal momento che sinora, come afferma Solivetti, sono stati selezionati per l'attività di specialista soltanto persone esperte in psicologia e criminologia. Tanto che Solivetti ritiene naturale chiedersi se, nel caso concreto, non era meglio dare la preferenza alla lettera della legge che alle considerazioni qui fatte.

Ma in che modo questi esperti dovrebbero dare concretamente il loro contributo nelle attività di osservazione e trattamento? E, soprattutto, che ruolo riveste in tale attività lo psichiatra?

Innanzitutto, l'opera degli esperti si rivolge ad un trattamento "individualizzato", cioè basato sulla valutazione delle specifiche condizioni del soggetto. In questa prospettiva di individualizzazione è previsto che venga compiuta nei confronti dei condannati e degli internati l'osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale (art. 13, Ord. Penit.). Tale osservazione è compiuta dall'inizio e nel corso dell'esecuzione della pena. Per ogni soggetto, in base ai risultati dell'osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell'esecuzione, in vista del futuro reinserimento sociale del soggetto e "per procedere ad una adeguata opera di profilassi della recidiva".

È proprio nell'osservazione scientifica della personalità che l'opera dello psichiatra è più pregnante. "Essa si rivolge a definire la personalità del soggetto rilevandone, sia direttamente che, all'occorrenza, psicometricamente, l'attuale struttura psichica e gli aspetti salienti del suo funzionamento sotto il profilo intellettuale, affettivo, caratterologico e attitudinale".

Nell'osservazione scientifica della personalità lo psichiatra (come esperto ex art. 80) è affiancato, per espressa menzione della legge, da altre figure: il direttore dell'istituto, l'educatore, l'assistente sociale, più talvolta altre figure non espressamente indicate dalla legge, come il medico e un responsabile del personale di custodia.

L'art. 28 del Regolamento di esecuzione prevede che l'osservazione scientifica della personalità è espletata, di regola, presso gli stessi istituti dove si eseguono le pene e le misure di sicurezza. Quando si ravvisa la necessità di procedere a particolari approfondimenti, i soggetti da osservare sono assegnati, su motivata proposta della direzione, ai centri di osservazione. Questi Centri, sviluppo ideale dell'esperienza del centro-pilota di Rebibbia, dovrebbero svolgere direttamente attività di osservazione e prestare consulenze per le analoghe attività svolte nei singoli istituti (art. 63, Ord. Penit.).

L'attività di osservazione svolta dall'équipe è finalizzata oltreché alla preparazione del programma di trattamento e di verifica del medesimo, ai seguenti obiettivi: assegnazione dei condannati e degli internati ai differenti istituti e, all'interno di questi, alle differenti sezioni con particolare riguardo alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all'esigenza di evitare influenze nocive reciproche (art. 14, Ord. Penit.); determinazione delle priorità e/o delle preferenze e delle modalità da seguire nella utilizzazione degli elementi del trattamento, che sono costituiti principalmente dall'istruzione, dal lavoro, dalla religione, dalle attività culturali, ricreative, sportive, dai contatti con il mondo esterno e dai rapporti con la famiglia (art. 15, Ord. Penit.).

Tutto ciò nella prospettiva globale del reinserimento sociale attraverso un trattamento rieducativo che prevede un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale (art. 1 Reg. Esec.). Cantele e Sirianni fanno notare che, se questo è il substrato fondamentale di ogni osservazione scientifica e conseguentemente di ogni trattamento rieducativo, non si capisce come esso possa essere raggiunto da figure professionali diverse dallo psichiatra.

Nella realtà invece, stando a quanto affermano gli psichiatri del carcere di Sollicciano, l'esperto in psichiatria partecipa all'équipe di osservazione e trattamento soltanto (e comunque non obbligatoriamente) quando essa si riunisce per discutere la situazione di un detenuto che sta svolgendo un trattamento psicoterapico o che comunque è seguito da uno psichiatra. In questo caso viene considerato anche il parere di chi ha in corso con quel detenuto una relazione terapeutica, altrimenti la partecipazione dello psichiatra al gruppo di osservazione e trattamento rimane esclusivamente teorica. Al contrario, molto presenti nella suddetta équipe sembrano essere gli psicologi, i quali per esempio si occupano della verifica del programma di trattamento.

L'opera dello psichiatra è poi richiesta, almeno nella lettera della legge, al fine dell'applicazione delle misure alternative alla detenzione. Per la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale è espressamente previsto che il provvedimento relativo è adottato sulla base dei risultati di un periodo di almeno 1 mese di osservazione, condotta in istituto.

Per quanto riguarda i casi di ammissione alla semilibertà, non è espressamente prevista un'osservazione simile (art. 48, Ord. Penit.), ma la si può senz'altro ritenere necessaria anche per via del richiamo implicito dell'art. 50, secondo cui l'ammissione a questa misura "è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento", progressi che non possono essere valutati che da personale specializzato.

Se è vero che gli esperti previsti dalla riforma del 1975 si sono trovati a svolgere un ruolo di fondamentale importanza, è anche vero che essi hanno dovuto comunque affrontare una serie di problemi pratici non indifferenti.

"La previsione del rapporto di 1:250 tra numero degli esperti e numero dei detenuti dà un'idea dei limiti pratici posti ad una efficace attività da parte degli esperti". Se si pensa al tipo e alla durata degli interventi richiesti, si capisce bene come i problemi di applicazione sono spesso sufficienti a vanificare il senso anche delle migliori intenzioni teoriche. Entro i limiti ferrei di queste proporzioni numeriche non è possibile una corretta applicazione delle previsioni della legge: attività di osservazione, formulazione di programmi di trattamento, applicazione di questi, valutazione e correzione dei medesimi, raccolta dei dati per l'applicazione delle misure alternative, ecc., rimangono e rimarranno sostanzialmente sulla carta se non si arriva a rapporti numerici meno proibitivi.

Il carattere scientifico dell'osservazione e del trattamento richiamato dall'art. 13 dell'Ord. Penit. non si vede come potrebbe essere difeso da quell'unico esperto di fronte ad una massa di 250 detenuti circa.

Il problema del rapporto numerico però non esaurisce il quadro delle difficoltà con cui si devono confrontare gli esperti: un punto di fondamentale importanza, che investe soprattutto la figura dello psichiatra, riguarda la contraddizione tra detenzione nel carcere e trattamento rieducativo. Non si tratta qui soltanto dell'antinomia teorica tra la segregazione e la afflizione, connesse necessariamente alla pena del carcere, e il concetto di rieducazione, ma degli innumerevoli ostacoli che il carcere pone concretamente sulla strada della rieducazione. Tutta una serie di privazioni sostanziali sono inseparabili dalla pena detentiva: la perdita di status, di indipendenza, di libertà di scelta, di responsabilità, di relazioni sociali, e ancora, la perdita di interessi, la regressione psicologica e culturale, la crescita della frustrazione congiurano tutte contro il successo del tentativo di rieducazione cui dovrebbe dare il suo contributo essenziale l'esperto psichiatra.

Non solo: ci sono anche problemi quali il "contagio criminale" e l'etichettamento negativo; l'estrema difficoltà a realizzare, all'interno dell'istituzione detentiva, strutture efficaci per l'addestramento al lavoro dei reclusi e per la loro istruzione, aspetti non secondari di qualsiasi trattamento rieducativo. Riemerge insomma la contraddizione tra le prospettive della rieducazione, espresse a livello formale, e la realtà di strutture materiali e organizzative che ostacolano l'applicazione di quelle.

Inoltre, i rapporti tra psichiatra e detenuto, e più in generale, tutta l'attività dell'esperto nella prospettiva della rieducazione, tendono ad essere paralizzati dalla ragnatela delle domandine (termine italiano famoso per essere il primo che gli stranieri imparano in carcere), dei permessi, delle autorizzazioni formali, delle verbalizzazioni degli interventi, mentre pochi sembrano ricordare il fine di tutta l'attività di trattamento, cioè il recupero sociale del detenuto.

È significativo notare, in questo travisamento di tutto il senso stesso del recupero sociale, che non raramente i due aspetti osservazione-trattamento risultano, nella realtà dei fatti, scissi, lasciando lo spazio per un'osservazione burocratizzata che si esaurisce in sé, senza dar luogo a nient'altro che un trattamento di carta rappresentato da indicazioni ed ipotesi di trattamento a cui segue assai poco, se non addirittura il silenzio.

"Da molti anni è stata dimostrata l'inutilità dell'osservazione proprio perché non risponde ai bisogni dei detenuti ma solo alle esigenze burocratico-amministrative dell'istituzione". La compilazione delle cartelle personali, per esempio, serve unicamente a giustificare la presenza dei tecnici e a conferire una patina di scientificità alle istituzioni. Tali cartelle, infatti, non vengono utilizzate in alcun modo, benché esse quasi sempre terminino con consigli o suggerimenti che però risultano irrealizzabili a causa delle carenze delle strutture e del personale. Così l'osservazione finisce per essere utile solo al magistrato al fine di valutare l'opportunità della concessione di una misura alternativa.

A questo punto però si pongono due delicati problemi:

 

  1. Come può l'esperto svolgere in modo serio e completo un'attività di osservazione (arrivando ad esprimere un parere circa la personalità di un detenuto, la possibilità che questo compia un nuovo reato, a dare parere positivo o negativo riguardo alla concessione della misura alternativa) che viene effettuata, sostanzialmente, nell'ambito di un'unica visita? Come può l'osservazione scientifica della personalità essere effettuata al di fuori di una qualsivoglia relazione, sia essa terapeutica o di altra natura? Esprimere un giudizio su di una persona, presuppone una conoscenza sufficientemente approfondita dei molteplici aspetti che la caratterizzano: non solo delle reazioni comportamentali immediate, ma anche degli elementi della sua vita passata e dei rapporti che lo legano con l'ambiente esterno.

  2. Come ho già detto nel paragrafo precedente affrontando il problema del ruolo dello psichiatra penitenziario, poiché la valutazione dell'esperto può influire sulle decisioni del magistrato e può quindi essere importante per l'uscita o meno del soggetto dal carcere, essa determina l'alterazione dei rapporti tra detenuto e tecnico, facendo assumere al detenuto un comportamento finalizzato ad ottenere benefici e spingendolo ad un atteggiamento "ultra-conformistico", che egli ritiene sia valutato positivamente. Tutto ciò condiziona, naturalmente, anche il rapporto detenuto-psichiatra, essendo quest'ultimo una delle figure professionali che può partecipare all'équipe di osservazione e trattamento a titolo di esperto.

Secondo alcuni psichiatri penitenziari sarebbe opportuno, quindi, che a decidere le sorti del detenuto non fosse lo stesso psichiatra che ha in corso con lui una relazione psicoterapeutica, ma un'altra figura professionale cui però sia data la possibilità di instaurare con il recluso un rapporto il più possibile stabile.

Alcuni ritengono oltre che inutile anche pericoloso effettuare un'osservazione della personalità sganciata da una qualsivoglia relazione, altri disconoscono l'applicabilità del trattamento, considerandolo manipolatorio e coazione supplementare alla già subita privazione della libertà; sarebbe, dunque, contrario ai diritti umani.

Il problema dal trattamento non va confuso con quello più generale della pena, del suo tradizionale valore retributivo, della sua proporzionalità, dei suoi significati, specifici o generali. "È il trattamento in sé che va legittimato e posto in modo tale da non divenire qualcosa di aggiuntivo, in forma più o meno mascherata, rispetto alla pena edittale prevista dai codici e irrogata dai collegi giudicanti".

La legittimità del trattamento, prima ancora di essere colta nel quadro della normativa, viene posta in discussione come possibile violazione della personalità. Dai sostenitori della sua legittimità si oppone che "l'antinomia tra i diritti umani e di personalità e ogni possibile intervento risocializzante si ricompone, nel momento tetico della confluenza della volontà individuale liberamente espressa dal soggetto, con l'interesse collettivo o volontà sociale".

La chiave giustificativa di esso, insomma, sembra consistere in un'offerta di strumenti e terapie risocializzative che però devono essere liberamente e non obbligatoriamente accettati dal detenuto. Non tutti i condannati sono disposti, soprattutto all'inizio, ad usufruire dell'offerta di interventi.

La letteratura parla di "cliente suo malgrado" (unwilling client), con ciò indicando la specificità dell'azione penitenziaria che deve essere, quindi, particolarmente attenta nel suscitare adeguate motivazioni negli individui a disporsi ad usufruire di quanto viene loro offerto. La motivazione del soggetto perché divenga "cliente volontario" postula la realizzazione di tre condizioni soggettive: la consapevolezza del proprio stato di bisogno, il desiderio di porvi rimedio, la fiducia negli interventi offerti. La realizzazione delle prime due condizioni può notevolmente avvantaggiarsi delle metodologie psicopedagogiche delle quali il personale penitenziario, soprattutto psichiatrico, deve essere adeguatamente in possesso; la terza dipende in gran parte dal livello di capacità organizzativa dell'Amministrazione Penitenziaria in genere e della singola struttura.

In altri termini, da parte dell'Amministrazione Penitenziaria si ha il dovere di organizzare strutture ed operatori idonei all'applicazione del trattamento, mentre il detenuto ha soltanto il diritto di usufruirne. L'azione dovrebbe essere, dunque, sempre e comunque non obbligatoria; il diniego di fruirne privo in ogni caso di conseguenze disciplinari e del rischio di non godere di eventuali benefici.

L'obbligatorietà o meno di sottostare all'osservazione non può nemmeno esser presa come ciò che distingue il trattamento dei detenuti condannati e degli internati da quello degli imputati. Non è accettabile, infatti, che l'osservazione e il trattamento (elementi inscindibili della rieducazione) debbano essere obbligatori per i condannati e per gli internati, e facoltativi invece per gli imputati, valendo per tutti i detenuti il principio della non obbligatorietà. Anche perché un trattamento imposto non ha nessuna possibilità di riuscire.

L'art. 1 Ord. Penit. parla distintamente di trattamento penitenziario, o più brevemente, ma con analogo significato, solo di trattamento, e di trattamento rieducativo. Si legge, infatti, al Iº comma: "il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona". Il II comma poi parla solo di trattamento dicendo che esso deve essere improntato ad assoluta imparzialità. Al IV comma inoltre è scritto "il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva". Infine il V comma parla di trattamento rieducativo ma solo nei confronti dei condannati ed internati sostenendo che esso tende al reinserimento sociale.

La diversità terminologica ha un suo preciso e non secondario valore. Infatti, il legislatore ha voluto con ciò significare che, in aderenza al precetto costituzionale contenuto nel secondo comma dell'art. 27, l'imputato non deve essere "trattato" sino alla condanna definitiva.

Sarebbe stato, quindi, illegittimo prevedere la rieducazione nei confronti degli imputati. Tuttavia, non era nemmeno pensabile che nel periodo della carcerazione preventiva l'individuo restasse privo di ogni opportunità utile, quantomeno, a contrastare gli effetti negativi della detenzione e comunque in vista del suo eventuale ritorno alla vita libera.

Pertanto era necessario prevedere un trattamento anche per gli imputati per i quali, come chiarisce il primo comma dell'art. 1 del Reg. Esec., che è rivolto alla generalità dei detenuti, l'obiettivo è limitato "a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali"; mentre l'obiettivo da proporsi per i condannati e gli internati consiste nella formulazione e nella revisione di un programma inteso ad un'azione rieducativa incentrata sulla modificazione degli atteggiamenti di vita.

L'idea di rieducazione che contrasta con quella di irrecuperabilità ed incorreggibilità, presuppone l'accantonamento di ogni implicazione ideologica e di ogni scelta di "valori". D'altra parte, è chiaro come sia difficile concepire una rieducazione neutrale, essendo implicito al concetto, il riferimento a modelli o a valori ritenuti in qualche modo preferibili rispetto ad altri. La neutralità di ogni azione rieducativa è, dunque, impossibile.

La stessa identificazione della rieducazione con l'osservazione e il trattamento del soggetto non può non dar luogo ad ambiguità ed equivoci. Il terzo comma dell'art. 27 Cost. diventa esso stesso ambiguo laddove recita: "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato", e l'ambiguità non è certo dissolta dai programmi individualizzati proposti nella legge di riforma del '75, con i riferimenti alla personalità di ciascun soggetto, alle sue carenze fisio-psichiche e alle altre cause del disadattamento sociale (art. 13).

La pena detentiva si pone quindi, non più come retribuzione "uguale", ma come trattamento "differenziato" (individualizzato) che, a parte le incerte e discutibili funzioni pedagogiche, non può non avere come quadro di riferimento obiettivi integrazionistici e di omologazione obbligatoria a modelli di conformità e normalità sociale.

Sul significato e sul valore da attribuire all'art. 27 Cost. si è molto discusso. Dal '74 al '93 si sono succedute varie sentenze della Corte Costituzionale, la quale afferma (sent. 204/74), sulla base del precetto dell'art. 27, comma 3, che

"sorge il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo", diritto che "deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale".

Questa sentenza, che non ebbe molte occasioni di ulteriori sviluppi negli anni successivi, li trovò invece subito dopo la cosiddetta legge Gozzini (L. 10/10/86 n. 663). Le sentenze 343/87, 282/89, 313/90, 125/92 e 306/93, contengono una vera e propria costituzionalizzazione della flessibilità dell'esecuzione della pena, cioè dell'intervento in sede esecutiva di un giudice in ordine alla pena detentiva per adeguarla al percorso di risocializzazione che il condannato ha compiuto.

Il principio informatore che sta alla base di tali sentenze sembra essere quello per cui una volta giunti alla "rieducazione", una volta cioè che il detenuto appaia rieducato, ciò dà diritto alla riduzione ed all'attenuazione della pena, e non che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato.

Lo stesso art. 27 della Costituzione può essere valutato in modo difforme dal prevalente, ove venga posto in relazione con l'art. 2 Cost., che parla dei diritti inviolabili della persona umana.

"La rieducazione non è solo istruzione in termini tecnici, ma è inserimento della coscienza del condannato nel quadro di determinati valori culturali".

Riaffiora così il problema della scelta dei valori e della educazione coatta, qual è in ogni caso quella impartita nelle carceri, che colpisce la libertà di orientamento e di coscienza del detenuto.

Ma allora, quanto può essere considerata valida l'ipotesi di una positività del trattamento rieducativo in termini di effettivo reinserimento del soggetto "trattato" nella comunità?

Se questa positività fosse inesistente, l'opera dell'esperto e dello psichiatra in particolare (e tutta la prospettiva del trattamento) finirebbe per essere limitata a soli compiti di passiva difesa sociale, attraverso una differenziazione della durata e del tipo di intervento sull'autore del reato, in relazione alla sua pericolosità sociale accertata: cadrebbe l'ipotesi ben più ambiziosa di una difesa sociale attiva, in cui il trattamento rieducativo è contemporaneamente "recupero" sociale del reo e protezione della società.

Esistono vari studi che concludono nel senso di una non diversa efficacia dei trattamenti rieducativi, in termini di recidivismo, rispetto alle classiche misure semplicemente punitive.

Tuttavia, non si può parlare, sulla sola base di questi dati, di una crisi generalizzata dei modelli rieducativi e del ruolo degli esperti del trattamento, e questo per diversi motivi:

 

  1. i dati che indicano in generale aumento di criminalità e alto recidivismo in paesi che adottano politiche rieducative, non prendono di regola in considerazione il fatto che l'ipotesi di rieducazione coinvolge sempre una piccola parte dei detenuti anche nei paesi più avanzati sotto questo profilo;

  2. il presunto fallimento delle ipotesi rieducative riguarda molto di più certi tipi di trattamento rispetto ad altri: in particolare, risultano dare risultati positivi molti trattamenti in condizioni non detentive, mentre i livelli più bassi di successo si sperimentano con forme molto vicine alla tradizionale pena restrittivo-afflittiva;

  3. i maggiori fallimenti sono venuti da ipotesi di trattamento su basi scientifiche "arretrate", come quelle relative a convinzioni post-lombrosiane sul collegamento tra delinquenza e "diversità" bio-psichiche, o da forme di indiscriminata e pertanto del tutto a-scientifica applicazione dei trattamenti rieducativi;

  4. infine, quasi sempre i programmi di trattamento rieducativo e in primo luogo quelli applicati a soggetti detenuti, sono stati sostanzialmente paralizzati dalle note contraddizioni del carcerario, di cui ho fin qui parlato: dalla scarsità di personale specializzato, di strutture, di spazi, dalla serie di privazioni sostanziali connesse alla condizione detentiva, dalle condizioni psicologiche e sociali (contagio criminale) proprie di una certa organizzazione detentiva, dalla cultura del carcere.

Quello che illogicamente è stato chiesto agli esperti e al concetto di rieducazione in sé, è stato un successo eclatante contro il recidivismo, che avrebbe dovuto essere raggiunto malgrado le condizioni obiettive del tutto contrarie all'ipotesi di rieducazione. Gli esperti e gli altri operatori del trattamento avrebbero dovuto dimostrare l'efficacia della rieducazione malgrado la persistenza di condizioni sostanzialmente molto più consone ad una pena retributivo-afflittiva. Del tutto illegittimamente si è poi concluso che, in mancanza di successi eclatanti, si doveva tornare a quel concetto di pena retributivo-afflittiva la cui sostanziale persistenza era stata causa dei mancati successi. La vicenda italiana dell'istituto dei permessi è, a questo proposito esemplare. Partendo dal fatto che i permessi davano luogo in alcuni casi (che corrispondono ad una percentuale, per altro, minima) a delle fughe, se ne è dedotto che questo istituto -dalle importanti caratteristiche rieducative- era più che inefficace, nocivo e il suo insuccesso mostrava l'inefficacia dell'intera concezione rieducativa. Tutto ciò senza che fosse fatto praticamente nulla per eliminare gli ostacoli al funzionamento dell'istituto, senza che fosse predisposto un intervento degli esperti al fine di stabilire, ad esempio, la pericolosità sociale e l'indice di rischio per ciascuno dei candidati alla misura. In presenza di questo modo di procedere e di queste realtà strutturali, anche l'esistenza di un significativo numero di studi sul trattamento rieducativo che indicano risultati positivi, sembra passare in secondo piano.

Esiste quindi un pericolo grave che dal contrasto tra il riflusso verso una concezione retributiva da una parte, e il dogmatismo di contestazioni ideologicamente predeterminate, dall'altra, non nasca nulla che non sia la rinunzia ad ogni effettiva forma di trattamento rieducativo.

Questo arretramento è tanto più grave se si tiene conto del fatto che la situazione italiana precedente la riforma del '75 non era quella di un paese che aveva sperimentato un sistema qualsiasi di trattamento rieducativo, ma quella di un paese le cui strutture penitenziarie erano paralizzate da un'ideologia anacronistica rivolta essenzialmente a finalità di segregazione e di afflittività: nessuno dei critici ben informati che discutono oggi nel mondo occidentale l'efficacia delle attuali forme di trattamento ritiene sinceramente possibile ed auspicabile un ritorno a tali forme.

L'intervento degli esperti nel carcere non è solo rivolto alla rivalutazione della dignità del detenuto o al recupero della scientificità del metodo, ma a qualcosa di più: se la criminalità è una patologia sociale, questo intervento è rivolto soprattutto al superamento della barriera tra istituto e società e alla partecipazione di questa ultima al trattamento dei problemi nati da essa.

 

 

Precedente Home Su Successiva