Salute e legge penitenziaria

 

          La tutela della salute nella legge penitenziaria

 

Il sottoporre delle persone malate ad una pena detentiva comporta la difficile ricerca di un punto di equilibrio tra il diritto alla salute del condannato e il diritto – dovere dello Stato a fargli espiare la pena. Da un lato i principi sanciti dagli articoli 27 e 32 della Costituzione "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" e "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo"; dall’altro, l’articolo 3 della stessa, che stabilisce: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge" (quindi tutti, se subiscono una condanna, devono scontarla).

Chi conosce la realtà del carcere (come detenuto, ma anche come operatore) sa bene che queste indicazioni rappresentano ancora un modello, un obiettivo da rincorrere, nonostante che nel corso degli anni siano stati introdotti vari strumenti normativi per dare loro una maggiore effettività.

Va pure detto che la legge italiana è tra le poche nel mondo che, per motivi di salute, prevede la possibilità del rinvio della pena e dell’ammissione a misure restrittive diverse dalla detenzione in carcere (fanno eccezione le misure alternative per i tossicodipendenti, introdotte in diversi paesi).

 

Il rinvio (o differimento) della pena

 

Alla base di tutte le agevolazioni giuridiche, riservate ai condannati in precarie condizioni di salute, ci sono due articoli del codice penale, il 146 (modificato dalla legge 231/99, che disciplina la compatibilità tra detenzione e H.I.V./A.I.D.S.) e il 147.

 

L’articolo 146 prevede il "rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena" quando il condannato è affetto da A.I.D.S. conclamata, o da grave deficienza immunitaria, o da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione.

L’incompatibilità si verifica quando la persona è in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più (secondo le certificazioni del Servizio sanitario penitenziario o di quello esterno) ai trattamenti terapeutici praticati in carcere.

 

L’articolo 147 prevede il "rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena" per "chi si trova in condizioni di grave infermità fisica".

La legge non dice nulla per definire meglio il concetto di "grave infermità fisica" e per saperne di più dobbiamo guardare alla giurisprudenza che, peraltro, contiene anche elementi contraddittori.

Viene riconosciuta nel caso in cui la malattia conduca la persona alla morte senza che vi sia alcuna possibilità di cura; non è sufficiente, però, essere affetti da una malattia cronica irreversibile, bisogna che le condizioni fisiche del malato siano tali da poterne escludere la pericolosità.

Tuttavia alcune sentenze hanno vincolato la concessione del differimento alla possibilità della regressione della malattia (quale effetto di trattamenti terapeutici praticati in stato di libertà), quindi contraddicendo la prima interpretazione.

In altre sentenze ancora troviamo letture della legge improntate a una maggiore umanità: al rischio di morte, quale elemento per determinare l’effettiva gravità delle condizioni fisiche, si aggiunge quello che la malattia "cagioni altre rilevanti conseguenze dannose" (Cass. Pen. Sez. VI – 1986 – Celentano). Ma l’interpretazione di maggior favore la troviamo in questa pronuncia: "La guaribilità o reversibilità della malattia non sono requisiti richiesti dalla normativa vigente in tema di differimento dell’esecuzione della pena, per la cui concessione è sufficiente che l’infermità sia di tale rilevanza da far apparire l’espiazione in contrasto con il senso di umanità cui fa riferimento l’articolo 27 della Costituzione". (Cass. Pen. Sez. I – 1994 – Conti).

 

Da segnalare come l’infermità psichica non rientri tra i motivi del possibile differimento della pena. Quando l’infermità è accertata nel processo l’imputato viene prosciolto per vizio di mente e, invece della condanna, subisce l’internamento nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario; se un condannato impazzisce durante la detenzione (o rende manifesta una malattia mentale preesistente) l’aspetta comunque il "ricovero" forzato in un O.P.G.. Questa differenza deriva dalla presunzione che la malattia fisica, indebolendo una persona, la renda meno pericolosa per la sicurezza sociale e che, invece, la malattia mentale rappresenti un elemento di maggior pericolo: quindi il "criminale pazzo" va sorvegliato meglio del "criminale sano di mente"…

 

La richiesta di rinvio obbligatorio o facoltativo della pena va rivolta al Tribunale di Sorveglianza, il cui successivo provvedimento (di concessione o rigetto) è impugnabile in Cassazione.

 

La cura e il ricovero dei detenuti in strutture esterne al carcere

 

Questa possibilità è prevista dall’articolo 11 dell’Ordinamento Penitenziario che dispone: "Ove siano necessari cura o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del magistrato di sorveglianza, in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura".

Non si tratta, quindi, di una concessione eventuale e discrezionale ma di un preciso diritto, peraltro riconosciuto anche agli imputati, sul cui trasferimento è competente il giudice che procede nei loro confronti. Se il trasferimento deve essere disposto con urgenza (nel caso di malesseri improvvisi o altre situazioni di rischio) è il direttore a provvedervi, informandone subito il magistrato competente, il D.A.P. e il provveditore regionale alle carceri (art. 17 R.E.).

Contro la decisione del giudice non è previsto alcun mezzo d’impugnazione. In giurisprudenza troviamo poche pronunce al riguardo e tutte di inammissibilità del ricorso (Cass. Pen. Sez. I – 1991 – Mascellino; 1993 – Mortafà). Le motivazioni, sostanzialmente, coincidono: "La legge non prevede alcun mezzo di impugnazione avverso le ordinanze del magistrato di sorveglianza di rigetto o di ricovero in ospedale… non essendo detti provvedimenti annoverabili tra quelli concernenti la libertà personale, bensì tra quelli che regolano il regime carcerario".

 

L’istanza per il ricovero o le cure in una struttura esterna al carcere va rivolta al Magistrato di Sorveglianza per i condannati, al giudice che procede per gli imputati.

 

La detenzione domiciliare

 

Si tratta di una misura alternativa alla detenzione in carcere, fu introdotta nell’Ordinamento Penitenziario dalla legge Gozzini nel 1986 e la sua disciplina è stata sensibilmente modificata, nel 1998, dalla legge Simeone – Saraceni.

Alla detenzione domiciliare possono essere ammessi i condannati con una pena (anche residua) non superiore a quattro anni, nel caso in cui si trovino "in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali". La pena può essere scontata presso l’abitazione del condannato, ma anche "in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza": la formulazione, particolarmente ampia, consente anche a coloro che non hanno una residenza in Italia di essere ammessi a questa misura alternativa.

Chi ha una pena superiore a quattro anni può essere ugualmente ammesso alla detenzione domiciliare, ma solo nel caso in cui "potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della pena, ai sensi degli art. 146 e 147 del codice penale". Questo caso può verificarsi quanto le condizioni di salute del condannato sono incompatibili con la permanenza in carcere, ma il Tribunale di Sorveglianza ritiene di dovergli imporre ugualmente una forma di controllo.

 

L’istanza per chiedere la detenzione domiciliare va rivolta al Tribunale di Sorveglianza, contro la cui decisione del Tribunale è eventualmente possibile presentare ricorso in Cassazione.

 

Le misure alternative alla detenzione per i malati di A.I.D.S.

 

La legge 231/99 ha introdotto nell’Ordinamento Penitenziario l’articolo 47 quater, che stabilisce come nei confronti delle persone condannate che sono affette da A.I.D.S. conclamata, o da grave deficienza immunitaria, e hanno in corso o intendono intraprendere un programma di cura o assistenza all’esterno del carcere, il Tribunale di Sorveglianza possa disporre le misure previste dall’articolo 47 (affidamento in prova al servizio sociale) e 47 ter (detenzione domiciliare).

A queste misure è possibile essere ammessi indipendentemente dalla durata della pena da espiare. Possono essere revocate nel caso in cui il condannato risulti imputato per reati commessi dopo la concessione e, in caso di revoca, per un anno non potranno essere nuovamente concesse.

Nei casi in cui il Tribunale di Sorveglianza ritenga di non applicare, o di revocare, le misure alternative ordina che la persona sia detenuta in un carcere dotato di un reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie.

In questo quadro emerge con evidenza la grande discrezione concessa al Tribunale di Sorveglianza, in merito al giudizio sulla compatibilità tra condizioni di salute e stato di detenzione, ma anche sul tipo di misura alternativa da disporre.

L’istanza deve essere corredata da certificato medico rilasciato dal servizio sanitario pubblico competente (o dal servizio sanitario penitenziario) che attesti le condizioni di salute e l’attuabilità del programma di cura e assistenza presso strutture ospedaliere o altre strutture impegnate (secondo i piani regionali) nell’assistenza ai casi di AIDS.

 

L’istanza per chiedere la detenzione domiciliare va rivolta al Tribunale di Sorveglianza, contro la cui decisione del Tribunale è eventualmente possibile presentare ricorso in Cassazione.

 

La sospensione della pena per i condannati tossicodipendenti

 

Questa possibilità è stabilita dall’articolo 90 del Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza (D.P.R. 309/90).

La sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, per un periodo di cinque anni, può essere chiesta da quanti hanno una condanna, non superiore ai quattro anni (anche residua), per un reato commesso in relazione al proprio stato di tossicodipendenza e si siano sottoposti (o abbiano in corso) a un programma terapeutico e socio-riabilitativo.

Può essere concessa una sola volta e non comporta il condono delle pene accessorie (multe) né delle obbligazioni civili derivanti dal reato (risarcimenti, etc.).

La pena si estingue se la persona condannata porta a termine il programma terapeutico e, nei cinque anni successivi al provvedimento di sospensione, non commette un altro reato doloso punibile con la reclusione.

 

L’istanza per chiedere la sospensione della pena va rivolta al Tribunale di Sorveglianza, contro la cui decisione del Tribunale è eventualmente possibile presentare ricorso in Cassazione.

 

L’affidamento in prova in casi particolari

 

Dal 1998 questa misura alternativa è disciplinata solo dall’articolo 94 del D.P.R. 309/90, poiché la legge Simeone – Saraceni ha abrogato l’art. 47 bis dell’Ordinamento Penitenziario, che prevedeva la medesima possibilità per i condannati tossicodipendenti o alcooldipendenti.

Il limite di pena (anche residua) per esservi ammessi è di quattro anni; la misura non può essere concessa più di due volte nel corso della vita e, se revocata, per tre anni non è possibile accedervi nuovamente.

Requisito fondamentale per ottenere l’affidamento è che la persona condannata abbia in corso un programma di recupero o intenda intraprenderlo. Il "programma" deve consistere in attività terapeutiche, che l’interessato concorda con le strutture sociosanitarie, pubbliche o private.

È importante sapere che le modalità del programma non possono essere "imposte" ma devono essere realmente "concordate", quindi la persona condannata non è obbligata ad accettare delle condizioni che non le aggradano.

Il giudice, prima di valutare l’istanza di affidamento, dispone accertamenti sul programma terapeutico concordato e deve anche accertare che lo stato di tossicodipendenza (o alcooldipendenza) o l’esecuzione del programma di recupero non siano preordinati al conseguimento del beneficio.

 

L’istanza per chiedere la sospensione della pena va rivolta al Tribunale di Sorveglianza, contro la cui decisione del Tribunale è eventualmente possibile presentare ricorso in Cassazione.