Sistema penale e tutela della salute

 

Sistema penale e altre situazioni di incompatibilità

 

Gravidanza, puerperio e maternità paternità

Evoluzione storica del rapporto tra Hiv - Aids e compatibilità carceraria

Diffusione del virus in ambiente carcerario e atteggiamento dei detenuti

Accertamento dell’infezione da HIV e conseguenze penitenziarie

 

Gravidanza, puerperio e maternità/paternità

 

La Legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), ha apportato significative modifiche ai principali istituti previsti dall’ordinamento giuridico e volti a consentire la continuità del rapporto madre condannata e figli minori compatibilmente con le esigenze dell’esecuzione penale.

L’art. 146 c.p. (Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena) stabilisce in proposito che l’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita se deve aver luogo contro donna incinta, o contro madre di infante di età inferiore a tre anni, salvo che sia stato affidato ad altri. Il differimento è revocato se la gravidanza si interrompe, se la madre è dichiarata decaduta dalla potestà sul figlio ai sensi dell’art. 330 c.c., se il figlio muore, se viene abbandonato o affidato ad altri, sempreche l’interruzione di gravidanza o il parto siano avvenuti da oltre due mesi.

L’art. 147 c. I, n. 3 c.p. afferma invece la possibilità del differimento dell’esecuzione della pena nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni; provvedimento soggetto a re

voca qualora la madre sia dichiarata decaduta dalla potestà sul figlio ex art. 330 c.c., il figlio muoia, venga abbandonato ovvero affidato ad altri. All’art. 47 ter (Detenzione domiciliare) comma I, della Legge 26 luglio 1975, n. 354, le lettere a) e b) risultano oggi cosi formulate: "donna incinta, o madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente", o "padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole".

L’art. 47 quinquies (Detenzione domiciliare speciale) prevede inoltre che: "Quando non ricorrono le condizioni di cui all’art. 47-ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena, ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo" (comma I); "Per la condannata nei cui confronti è disposta la detenzione domiciliare speciale, nessun onere grava sull’amministrazione penitenziaria per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica della condannata oche si trovi in detenzione domiciliare speciale" (comma II); "La detenzione domiciliare speciale può essere concessa, alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre" (comma VII); "Al compimento del decimo anno di età del figlio, su domanda del soggetto già ammesso alla detenzione domiciliare speciale, il tribunale di sorveglianza può: disporre la proroga del beneficio, se ricorrono i requisiti per l’applicazione della semilibertà di cui all’art. 50, II, III e V O.P.; disporre l’ammissione all’assistenza all’esterno dei figli minori di cui all’art. 21 bis, tenuto conto del comportamento dell’interessato nel corso della misura, desunto dalle relazioni redatte dal servizio sociale, ai sensi del comma V, nonché della durata della misura e dell’entità della pena residua" (comma VIII).

Non appena il provvedimento di concessione della detenzione domiciliare speciale è esecutivo, la cancelleria del Tribunale rinvia l’ordinanza egli atti relativi alla cancelleria dell’ufficio di sorveglianza competente e copia alla direzione dell’istituto nel quale la condannata si trova e al centro di servizio sociale del luogo di domicilio ove resta in stato di detenzione.

L’istituto della detenzione domiciliare consente alle donne madri di espiare la pena presso il proprio domicilio e di prendersi cura della prole in ambiente familiare.

Dopo l’art. 47-quinquies, è inserito il seguente art. 47-sexies (Allontanamento dal domicilio senza giustificato motivo): "La condannata ammessa al regime della detenzione domiciliare speciale che rimane assente dal proprio domicilio, senza giustificato motivo, per non più di dodici ore, può essere proposta per la revoca della misura" (comma I); "Se l’assenza si protrae per un tempo maggiore la condannata è punibile ai sensi dell’art. 385 I comma c.p., ed è applicabile la disposizione dell’ultimo comma dello stesso articolo" (comma II).

Dopo l’art. 21 della Legge 26 luglio 1975, n. 354, è inserito il seguente art. 21-bis (Assistenza all’esterno dei figli minori): "Le condannate e le internate possono essere ammesse alla cura e all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni otto, alle condizioni previste dall’art. 21." (comma I); "La misura dell’assistenza all’esterno può essere concessa, alle stesse condizioni, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre" (comma III).

Nella ipotesi della detenzione domiciliare "speciale", il Tribunale di Sorveglianza può dunque ammettere l’espiazione della pena presso il domicilio della madre (o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza), al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli minori di anni dieci, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena, ovvero dopo l’espiazione di almeno 15 anni nel caso di ergastolo, qualora non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti evi sia la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Al compimento del decimo anno di età del figlio, il beneficio può essere prorogato quando sussistano i requisiti per l’applicazione della semilibertà; altrimenti la donna potrà - in considerazione del comportamento tenuto, nonché della durata della misura e dell’entità della pena residua - essere ammessa all’assistenza all’esterno dei figli minori.

Questa norma concerne donne condannate a scontare pene lunghe, superiori ai quattro anni; viene applicata, infatti, qualora non sussistano le condizioni previste dall’art. 47 ter dell’ordinamento penitenziario (detenzione domiciliare), ovvero la condanna ad una pena inflitta, o anche residuo di pena non superiore a quattro anni. La detenzione domiciliare "generica", dunque, unita a quella speciale prende in considerazione una fascia molto ampia di detenute madri.

Nel caso dell’assistenza esterna dei figli minori, viene invece estesa la portata applicativa dell’art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario riguardante il lavoro esterno, prevedendo che le detenute possano essere ammesse alla cura e all’assistenza all’esterno di figli di età non superiore a dieci anni. In tal modo i figli minori avrebbero la possibilità di avere la madre accanto quasi tutti i giorni senza dover aspettare i pochi colloqui mensili che non soddisfano le loro esigenze, non consentendo la continuazione del ruolo educativo della madre e dello stretto legame che lega madre e figlio. "La misura dell’assistenza all’esterno può essere concessa, alle stesse condizioni, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre".

La tutela della figura paterna nel suo ruolo genitoriale appare essere un problema imprescindibile nello studio dello sviluppo dell’affettività del bambino in quanto raramente viene contemplata con pari opportunità rispetto alla madre. L’ordinamento penitenziario "non considerava, e non lo considera tuttora, il problema della paternità come un problema a se stante, ma solo come problema secondario rispetto a quello della maternità": la nuova legge, infatti, viene applicata anche ai padri solo nel caso in cui la madre sia morta o sia nell’impossibilità di assistere i figli. Se anche il padre del bambino è detenuto, ad esempio, non vi è alcuna possibilità che si possa occupare del figlio o abbia contatti con lui, se non in caso di permessi - premio. Questo contribuisce a rafforzare l’impressione che, secondo la normativa carceraria, lo sviluppo di un bambino dovrebbe essere compito esclusivo delle donne, nei confronti delle quali tuttavia l’istituzione non prevede ancora nemmeno oggi, nonostante i notevoli passi in avanti, strumenti di sostegno adeguati alla particolarità della situazione.

In tempi recenti sono stati condotti numerosi studi sul rapporto padre-figlio che hanno evidenziato una nuova tendenza all’affermazione del ruolo paterno nei primi tre anni di vita del figlio: "Il padre non è soltanto un modesto sostituto della madre; egli fornisce un contributo ben preciso alla cura e allo sviluppo di neonati e bambini piccoli.

Il padre, quando gli viene offerta l’opportunità, diventa attivamente coinvolto con il suo neonato. Anche se padre e madre sono ugualmente coinvolti con il loro bambino, lo sono in modo diverso fin dall’inizio. Entrambi i genitori contribuiscono allo sviluppo intellettuale del bambino, seppur diversamente. La possibilità di poter vedere la figura paterna in carcere, solo saltuariamente, non soddisfa i bisogni inespressi e manifestati dei bambini. I bambini che possono instaurare durante l’infanzia forti legami con entrambi i genitori, come è noto, sviluppano doti positive nelle relazioni interpersonali. L’assenza della figura paterna, nei primi quattro o cinque anni, sembra produrre effetti destabilizzanti sullo sviluppo della personalità del bambino assai più che in età successiva. Sia la tutela della maternità che quella della paternità hanno comunque subito numerose resistenze da parte di chi sostiene che tali condizioni possano divenire surrogati dell’impunità. La concessione delle misure è sottoposta ad alcune condizioni che rischiano però di decarcerizzare, di fatto, solo poche madri-detenute. Tra tali condizioni figura la non sussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e la concreta possibilità di ripristinare la convivenza con i figli; tali esigenze mal si adattano ai reati connessi all’abuso di sostanze stupefacenti e alla prostituzione, che costituiscono il back-ground prevalente delle donne detenute e madri.

Competente per la concessione dei benefici è il Tribunale di Sorveglianza, che dovrà stabilire il periodo di tempo che la madre potrà trascorrere all’esterno della propria abitazione: nei casi in cui, senza giustificato motivo, il genitore si assenti per più di dodici ore (art. 4), i benefici potranno essere revocati, originando il reato di evasione nel caso di un’assenza più prolungata.

La Legge 40/2001 stabilisce inoltre anche i limiti di applicabilità (art. 6) per i benefici contemplati, disponendo che essi non si applichino a coloro che sono stati dichiarati decaduti dalla potestà sui figli, e prevedendo, qualora la decadenza intervenga nel corso dell’esecuzione della misura, che questa sia immediatamente revocata. L’art. 7 prevede infine che l’applicazione di uno dei benefici previsti dalla presente legge determini, per il tempo in cui il beneficio è applicato, la sospensione delle pene accessorie della decadenza dalla potestà dei genitori e della sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori. La ratio di questa legge appare evidente: favorire l’implementazione del rapporto tra madri detenute e i propri figli. La presenza di bambini in carcere, del resto, si rivela una pratica contraria ai diritti umani prioritari dei bambini e dei genitori.

La dispersione dell’unità famigliare è oltremodo dannosa per il bambino, specialmente se iniziata in età neonatale e protratta per più anni. Nel nuovo Regolamento Penitenziario (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) troviamo in proposito l’art. 19 (Assistenza particolare alle gestanti e alle madri con bambini. Asili nido), dedicato all’assistenza alle gestanti e alle madri con bambini, che presenta alcune modifiche giustificate dalla volontà di migliorare le condizioni generali della maternità in carcere. Tale articolo prevede, anzitutto, che il parto sia preferibilmente effettuato in luogo esterno di cura e che le gestanti, le madri e i bambini siano rispettivamente assistiti da specialisti in ostetricia e ginecologia e da professionisti specialisti in pediatria. La norma prevede poi che presso gli istituti o le sezioni in cui sono ospitati gestanti e madri con bambini siano organizzati reparti ostetrici e asili nido, e che "le camere dove sono ospitati le gestanti e madri con i bambini non devono essere chiuse, affinché gli stessi possano spostarsi all’interno del reparto o della sezione"; il comma V garantisce che ai bambini che si trovano all’interno degli istituti siano assicurate attività ricreative e formative oltre ad un collegamento con i servizi pubblici territoriali e del volontariato.

Per quanto riguarda la situazione attuale, bisogna considerare che gli asili consistono per lo più in camerate prive dei più elementari requisiti di igiene e privacy necessari per un sereno svolgimento del rapporto materno, che la collocazione all’interno del carcere riduce drasticamente gli orizzonti spaziali e relazionali del bambino, incidendo in maniera assai grave sulla regolarità del suo sviluppo, per il quale i fattori ambientali e affettivi sono di vitale importanza, e che l’istituto della detenzione domiciliare per il momento si è rilevato del tutto fallimentare, oltre che per motivi di difficile applicabilità (spesso infatti le possibili destinatarie sono prive di una dimora), perché affidato ad un organo decidente profondamente estraneo al rapporto madre-figlio, e perché non validamente supportato da altre misure che rendano l’intero sistema più articolato e graduale.

Se l’obiettivo è la tutela della crescita e dello sviluppo psicofisico dei bambini che hanno la madre detenuta in carcere, pare indispensabile, come primo intervento, allontanare il bambino che rimane con la madre dalla realtà strettamente carceraria, nella quale ogni tipo di provvedimento finalizzato ad assicurargli un sereno sviluppo risulterebbe inefficace. Allo scopo una soluzione potrebbe essere rappresentata da appositi istituti di accoglienza delle madri con figli, dotati delle caratteristiche idonee per svolgere tale funzione nonché di personale specializzato ad affrontare tali situazioni; ciò da un lato risponderebbe appieno all’obiettivo prefissato, e dall’altro ben si concilierebbe con i problemi di sicurezza della collettività.

La creazione di istituti di tale genere offrirebbe certamente la possibilità di affiancare alla madre un valido e permanente sostegno per la cura del bambino ad opera di personale specializzato, che potrebbe anche divenire referente privilegiato del Tribunale di Sorveglianza nelle decisioni i cui effetti si potrebbero ripercuotere sul rapporto tra madre e figli. L’organizzazione di strutture che assicurino il soggiorno in un ambiente adeguato e di servizi che permettano al minore di avere solidi contatti con il mondo esterno consentirebbe inoltre di elevare il limite di età consentito alla permanenza del bambino con la madre.

Come visto, l’art. 146 c.p. prevede il differimento obbligatorio dell’esecuzione della pena, che non sia pecuniaria, qualora debba avvenire nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno; all’art. 147 del medesimo codice si prevede invece il differimento facoltativo qualora una pena restrittiva della libertà personale debba essere eseguita nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni: le due tipologie di rinvio prescindono dall’entità della pena inflitta, rilevando la prevalenza che è accordata al rapporto madre-figlio rispetto all’interesse statuale all’esecuzione della pena. Il differimento non opera quando il figlio è stato affidato ad altri; per evitare abusi è inoltre prevista la revoca del differimento quando la gravidanza si interrompe, il figlio muore, viene abbandonato ovvero affidato ad altri ed il parto è avvenuto da oltre due mesi.

L’importanza del rapporto madre/figlio è ribadita all’art. 275 comma IV c.p.p. che, salvo esigenze cautelari eccezionali, vieta la misura cautelare della custodia in carcere quando l’imputato sia donna incinta o madre di prole di età inferiore ai tre anni con lei convivente, ovvero padre qualora la madre sia deceduta o sia assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.

L’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario prevede che sia assicurata l’assistenza sanitaria necessaria alle gestanti e alle madri e che, a queste, sia consentito tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni, in appositi asili nido organizzati all’interno dell’istituto penitenziario. L’art. 18 del regolamento penitenziario, all’ultimo comma, prevede la separazione del bambino, che abbia superato i tre anni, dalla madre; nel caso in cui non esistano persone cui la madre possa affidarlo, del minore si occuperanno gli enti per l’assistenza all’infanzia. Ove non sussistano le condizioni per l’applicazione degli istituti citati si esegue la pena detentiva nei confronti della madre: in tal caso il figlio o la figlia possono seguire la madre in carcere e rimanere con lei fino al compimento dei tre anni.

Successivamente, quando il minore deve abbandonare l’istituto penitenziario, la sua relazione con la madre viene interrotta, poiché la scarsa frequenza e le modalità di visita non consentono lo svolgimento di alcun significativo rapporto affettivo ed educativo: fatta eccezione per alcuni casi, il sistema attuale conduce quindi inevitabilmente, prima o poi, all’interruzione della funzione materna nell’età evolutiva del bambino. La rottura della relazione madre-figlio è sempre drammatica e si rivela particolarmente dannosa nei casi di pene lunghe, quando l’eventuale ripristino di un rapporto significativo è necessariamente rimandato a un momento assai lontano nel tempo.

L’ingresso del minore di tre anni in carcere, secondo l’esperienza ormai acquisita, non solo non è risolutivo del problema, poiché comunque non fa che differire il distacco rendendolo semmai ancor più traumatico, ma è addirittura dannoso per lo sviluppo psicofisico del bambino, il quale viene incolpevolmente istituzionalizzato in un contesto punitivo, povero di stimoli e connotato dalla privazione di autorevolezza della figura genitoriale. Un miglioramento del sistema può realizzarsi essenzialmente sotto due profili: garanzia compiuta della tutela dell’infanzia e della fase preadolescenziale, assicurando alla prole delle condannate l’assistenza materna in modo continuativo e in ambiente familiare; abolizione della "carcerazione" degli infanti.

Per realizzare tali obiettivi si è ritenuto opportuno operare in varie direzioni, sia ampliando l’ambito applicativo degli istituti del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare, sia introducendo i due nuovi istituti citati: la detenzione domiciliare speciale e l’assistenza all’esterno dei figli minori.

In relazione al necessario bilanciamento tra la protezione della relazione madre-figli e le esigenze di tutela sociale, la possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione è stata diversificata, graduata e soprattutto, nel caso di pene lunghe, vincolata ai parametri trattamentali e sottoposta al vaglio della magistratura di sorveglianza. L’applicazione di sanzioni alternative alle detenute madri non suscita allarme sociale, ne vi ostano significative esigenze di sicurezza, innanzi tutto in ragione della loro esiguità numerica. Al 31 dicembre 2001 le donne detenute erano 2.369, e dunque rappresentavano appena il 4.29% della popolazione carceraria. Di esse 1.068 erano imputate, 1.229 condannate e 72 internate. I dati sulla delinquenza femminile sono tendenzialmente stabili; infatti il numero delle donne entrate ogni anno negli istituti di pena, nel quinquennio 1997 - 2001, è addirittura diminuito, seppur di poche unità, passando da 6.518 a 6.129.

Le detenute, oltre ad essere poco numerose, presentano inoltre caratteristiche di modesta pericolosità sociale, come risulta innanzi tutto dai dati relativi alla tipologia dei reati commessi: a titolo esemplificativo, ricordiamo sempre il rapporto di Antigone, per il quale nel 2001 solo lo 0.78% delle detenute giunte negli istituti erano state condannate per il reato di associazione di stampo mafioso.

Se il totale delle detenute è esiguo, la realtà delle donne con figli è ancor più limitata, seppur purtroppo ancora presente nonostante le raccomandazioni del Consiglio d’Europa. Al 31.12.2000 risultavano detenute 70 madri con prole, e 78 bambini con esse.

Un ultimo aspetto infine da sottolineare è che né la normativa penitenziaria precedente, né le novità introdotte dalla Legge 40/2001, affrontano il discorso della maternità come potenzialità futura. Lo stato di detenzione e l’interdizione dei rapporti sessuali che questo comporta, per le donne che hanno superato i trenta anni e debbono scontare una pena non breve, significa la negazione anche della possibilità di scegliere se avere figli, condizione peraltro analoga a quella dei detenuti uomini.

 

Evoluzione storica del rapporto tra Hiv - Aids e compatibilità carceraria

 

In tema di Aids - Hiv, una prima circolare del 25 novembre 1985 conteneva l’indicazione delle misure di prevenzione della diffusione del virus tra i tossicodipendenti e le indicazioni per l’attuazione di una campagna d’informazione sull’epidemia; ai tossicodipendenti era garantito l’anonimato. L’AIDS fu inserito ufficialmente nell’elenco delle malattie diffusive ed infettive, con il D.M. 28 novembre 1986; dal 1987 il Ministero di Grazia e Giustizia iniziò la rilevazione dei dati relativi alla diffusione del virus HIV all’interno delle carceri (in quell’anno furono segnalati 3686 detenuti con affezione). La Commissione Nazionale per la lotta all’AIDS nel 1989 espresse un giudizio di totale incompatibilità tra i soggetti in malattia conclamata e lo stato di detenzione perché "tali soggetti necessitano di periodici e complessi accertamenti, sia per fornire un’idonea terapia farmacologica, sia per diagnosticare e trattare con tempestività le infezioni "opportunistiche" che, nei soggetti con scarse difese immunitarie, costituiscono un elevato rischio quando ci si trova in ambienti, quale appunto quello penitenziario, che si caratterizzano per le condizioni di vita disagiate e per la promiscuità".

La Legge n. 135 del 5 giugno 1990 affrontò per la prima volta la questione dei diritti dei soggetti affetti da HIV e i diritti della comunità, individuando carattere prioritario nei primi. Con il Decreto Interministeriale 8 giugno 1991 il governo previde in ordine al problema dei detenuti affetti da HIV "una stretta e convinta collaborazione delle strutture sanitarie esterne, in particolare delle USL e, nella particolare materia, dei presidi ospedalieri specializzati in malattie infettive. Per la realizzazione del presente programma è necessario ristrutturare le infermerie delle carceri cosi da creare in molti istituti quanto meno una camera sterile attrezzata per i primi interventi di urgenza su detenuti in AIDS o comunque affetti da gravi infezioni intercorrenti in attesa del loro trasferimento in luogo esterno di cura.

È necessario predisporre un nucleo di pronto intervento sanitario e psicologico presso ogni Istituto, salvo, poi, in quello di minori dimensioni, attivarlo, quando effettivamente se ne presenti la concreta necessità". Tale previsione non risultò facilmente attuabile; di fatto restava aperto il problema delle modalità di intervento nei confronti dei detenuti affetti da AIDS conclamato. Di fronte alla crescente diffusione dell’AIDS nelle carceri (che erano divenute il luogo con la concentrazione più alta della malattia, soprattutto legata ai soggetti tossicodipendenti) il legislatore si trovò costretto a dettare una disciplina nell’intento di sfoltirle per ridurre le possibilità di trasmissione dell’infezione.

Al 31 dicembre 1992 risultavano in carcere 3.530 detenuti HIV positivi, corrispondenti al 7.46% della popolazione carceraria e di essi il 93% erano tossicodipendenti; 86 erano affetti da AIDS. corrispondenti al 2.5% dei detenuti HIV positivi. Numerosi decreti-legge si susseguirono: dapprima il D.L. n. 335 del 13 luglio 1992 ("Disposizioni urgenti concernenti l’incremento del corpo di polizia penitenziaria ed il trattamento di persone detenute affette da infezione da HIV") previde un rigido automatismo tra accertamento della malattia, divieto di custodia cautelare in carcere e differimento dell’esecuzione, facendo salva la possibilità di applicare gli arresti domiciliari dopo il ricovero per esigenze diagnostiche o terapeutiche. In proposito non tardarono ad arrivare le prime censure: i giudici manifestarono da subito il rischio del formarsi di una categoria di "intoccabili".

Il D.L. 335 non fu convertito, ad esso seguì il D.L. n. 374 dell’11 settembre 1992, che riprendeva il precedente precisando che. in caso di accertata incompatibilità tra le condizioni cliniche del soggetto e 10 stato di detenzione, il giudice poteva revocare la misura cautelare o sostituirla con gli arresti domiciliari. Tale decreto introdusse la procedura per l’effettuazione degli accertamenti diagnostici o delle terapie specialistiche fuori dal carcere, e varie misure di vigilanza per impedire la fuga del soggetto.

Il successivo D.M. 27 settembre 1992 definì la condizione di incompatibilità con lo stato di detenzione per le persone con infezione da HIV individuando due livelli di gravità: la grave deficienza immunitaria con valori di linfociti CD4 inferiori a 100 in almeno due esami a distanza di 15 giorni e la deficienza immunitaria rilevante con linfociti CD4 tra 100 e 200 sempre con due esami a distanza di 15 giorni.

Neppure il D.L. n. 374 fu convertito e ciò accadde per i successivi n. 431 del 12 novembre 1992, n. 3 del 12 gennaio 1993 e n. 60 del 13 marzo 1993. I D.M. 20 novembre 1992 e 25 marzo 1993 definivano, medio tempore, la situazione di incompatibilità con lo stato di detenzione per persone con infezione da HIV.

Il D.L. n. 139 del 14 maggio 1993 ("Disposizioni urgenti, relative al trattamento di persone affette da infezione da HIV e di tossicodipendenti") fu finalmente convertito con modificazioni nella Legge 14 luglio 1993 n. 222. Con il D.M. 25 maggio 1993 fu reiterata la definizione della incompatibilità tra detenzione e persone con infezione da HIV: "La situazione di AIDS conclamata, ricorre quando la persona sia affetta da AIDS conclamata e segnalata in base alle disposizioni di cui alla circolare del Ministero della sanità 13 febbraio 1987, n. 5. La grave deficienza immunitaria ricorre quando, anche in assenza di identificazione e segnalazione ai sensi della citata circolare, la persona presenti un deficit immunitario esplicitato da un numero di linfociti T/CD4 + pari o inferiore a 100/mmc come valore ottenuto in almeno due esami consecutivi effettuati a distanza di quindici giorni uno dall’altro"; "il grado di deficienza immunitaria rilevante ricorre quando il numero di linfociti T/CD4 + sia superiore a 100 mmc, ma inferiore a 200 mmc, come valore ottenuto in almeno due esami consecutivi effettuati a distanza di quindici giorni l’uno dall’altro".

Anche in materia di HIV - test, del resto, vi furono diversi cambiamenti di indirizzo del legislatore. Dalla prima posizione del Ministero di Grazia e Giustizia, sentito il Ministero della Sanità e l’Istituto Superiore di Sanità, contenuta nella circolare n. 312/5577 del 27 giugno 1985, con cui si perorava l’opportunità di sottoporre "tutti i nuovi giunti", previo consenso degli stessi, "al saggio per il rilevamento degli anticorpi, la situazione ingravescente suggerì alla Direzione generale degli istituti di pena, che si espresse con la circolare N. 581170/2 spec. gen. del 19 settembre 1986, di sottolineare come "si stessero. tra l’altro, diffondendo all’interno degli istituti, sentimenti di viva preoccupazione o addirittura di panico all’interno da parte dei detenuti, sia di quelli colpiti da qualche affezione per il timore di non essere adeguatamente assistiti e curati, sia di quelli sani per il timore di essere contagiati dai primi"; per questo si auspicava "l’esigenza che con la collaborazione delle USL fossero praticate nel modo più ampio e più sollecito le relative analisi che certamente la normativa non consentiva di imporre in via obbligatoria, ma di ciò i direttori degli istituti avrebbero segnalato la opportunità e la possibilità a tutti i detenuti, sia quelli già presenti, sia quelli che avrebbero fatto ingresso successivamente".

Il Ministero della Sanità, in risposta alla richiesta del Ministero di Grazia e Giustizia, definì, mediante la circolare del 16 maggio 1989 "qualsiasi tipo di screening obbligatorio nella popolazione detenuta una coercizione non consentita dalla vigente normativa". Il Ministero di Grazia e Giustizia ribadì i concetti espressi nella circolare del settembre 1986 anche nella circolare N. 635600; 2 spec. gen. del 23 marzo 1990 e successivamente nella lettera del 22 dicembre 1990 del Direttore Generale dell’Amministrazione Penitenziaria ai responsabili degli Enti Locali, in cui si affermava che "in materia sanitaria si deve dire che, se tutti i cittadini hanno diritto alla tutela della salute (art. 32 Cost.), per i cittadini detenuti questo diritto alla salute (fisica e psichica) deve essere tutelato in maniera particolare, affinché il carcere non sia luogo di maggiore insorgenza o diffusione di patologie e disturbi e si eviti che per i detenuti la malattia aggiunga una emarginazione ad un’altra emarginazione, una sofferenza ad un’altra sofferenza".

La Legge n. 135 del 5 giugno 1990, all’art. 5 comma III stabiliva che "nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso, ad analisi tendenti ad accertare l’infezione da HIV, se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse". Il prevalente diritto alla riservatezza del malato rispetto ai diritti della collettività non subiva eccezioni nemmeno in carcere, anche se ciò costituì il viatico per le successive iniziative di sfoltimento delle carceri dai soggetti affetti.

Il Ministero di Grazia e Giustizia, nella circolare del 10 giugno 1991, ribadì che il test doveva essere proposto a tutti i detenuti al momento dell’ingresso in carcere ma effettuato soltanto con il consenso dell’interessato; ipotesi contraria poteva essere "solo nel caso in cui la condizione clinica del detenuto è tale da richiedere l’accertamento della sieropositività al fine di attuare interventi terapeutici, anche di profilassi, altrimenti non consigliati. Peraltro, anche in questo caso, qualora il detenuto si rifiuti di sottoporsi al test, l’accertamento dovrà essere effettuato con le modalità dei T.S.O. di cui all’art. 32 della Legge 833 del 1978 e dunque inoltrando la relativa richiesta al sindaco". Con il D.L. n. 60 del 1993, il legislatore aveva invece previsto di effettuare il test senza consenso dell’interessato solo "per motivi di necessità clinica, nell’interesse del detenuto o dell’internato" e nel caso in cui "il comportamento del detenuto o dell’internato, nel corso del trattamento penitenziario evidenziasse un pericolo per l’incolumità o del personale degli istituti penitenziari o degli altri detenuti o internati".

Questa pratica non venne però riproposta nel successivo D.L. n. 139 e nella Legge n. 222 del 1993 che, invece, prevedevano "la sperimentazione di un programma di screening per HIV, in forma anonima, negli istituti penitenziari" (Art. 4 D.L. 139). La maggior parte dei detenuti, comunque, tende a sottoporsi al test quando questo viene loro proposto.

La Corte Costituzionale con sentenza n. 218 del 2 giugno 1994, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 5, comma III della Legge 135/90, in quanto una volta "riconosciuta legislativamente l’esistenza di attività e servizi che comportano rischi per la salute di terzi, derivanti dall’essere gli operatori addetti portatori di una malattia diffusiva quale l’AIDS, ne segue la necessità, a tutela del diritto alla salute, di accertare preventivamente l’assenza di sieropositività, per verificare l’idoneità all’espletamento dei servizi che comportano questo rischio".

Ciò comportò che il principio espresso dalla Legge n. 135 del 1990, per il quale nessuno può essere sottoposto ad accertamenti sanitari senza il suo consenso, può venir meno quando l’esercizio dell’attività lavorativa comporti un rischio apprezzabile per coloro che entrano in contatto con l’operatore. In definitiva, con l’aumento del numero dei detenuti sieropositivi, l’istituzione penitenziaria si è sempre più chiaramente dimostrata favorevole al rilascio anticipato o quanto meno al ricovero in luoghi esterni di cura dei detenuti più gravi, anche sul presupposto dell’inadeguatezza delle stesse strutture sanitarie carcerarie.

Si è ritenuto che tale atteggiamento, per così dire rinunciatario, da parte delle istituzioni derivasse da "un’esigenza di autodifesa dell’istituzione carceraria che, di fronte alla gestione dei detenuti più complessi, rischia veramente di soccombere sotto il peso delle sue croniche inadeguatezze"; ma, è pur vero, che il problema della detenzione di persone affette da gravi patologie o addirittura di malati terminali ha fatto sorgere ampie discussioni sulla funzione riabilitativa della pena e "sui limiti della potestà punitiva dello Stato a svantaggio dei diritti inalienabili del cittadino".

In particolare quindi, sul tema della compatibilità carceraria, a differenza che nell’ambito dell’obbligatorietà dello screening sierologico, si è realizzata una maggior consonanza degli obiettivi perseguiti tanto dall’istituzione penitenziaria, quanto dai principi generali del nostro ordinamento penale, quanto ancora dalle raccomandazioni dei competenti organismi italiani ed internazionali.

Tuttavia la confusione creatasi nel tentativo di trovare soluzioni ad un problema che rischiava di provocare il tracollo delle istituzioni carcerarie ebbe come immediato risultato la creazione di continui contrasti tra le direzioni sanitarie carcerarie e quelle ospedaliere, con un conseguente continuo spostamento del detenuto malato da un’istituzione all’altra.

Spesso, inoltre, si finiva per scaricare sull’istituzione ospedaliera, strutturalmente inadeguata a tal fine, la questione del regime detentivo dei malati di AIDS, traducendola in una sorta di "ospedalizzazione forzata". Il detenuto affetto da AIDS era rifiutato sia dall’amministrazione penitenziaria, che non era in grado di tenerlo in carcere applicando tutte le misure igienico-sanitarie necessarie, sia dalle autorità sanitarie, sia soprattutto dalla magistratura, l’unica ad essere legittimata a sancire lo stato di incompatibilità con la detenzione.

A questa situazione il Legislatore rispose con il percorso concluso, come abbiamo visto, con la Legge n. 222/93, che prendeva in diretta considerazione tanto la condizione degli imputati (art. 286-bis c.p.p.), quanto quella dei condannati (art. 146 c.p.) affetti dal virus HIV. Con tale norma si concretizzava la strategia penitenziaria per arginare l’epidemia di AIDS nelle carceri, attraverso la compromissoria soluzione di un regime di incompatibilità tra stato detentivo ed AIDS.

L’acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale sorto attorno alla genesi ed alle conseguenze derivanti dall’applicazione della Legge n. 222/93, ha riflettuto in modo esemplare tutte le problematiche insite "sia nell’istituzione carceraria, quali l’insufficienza edilizia carceraria, le problematiche socio-sanitarie che affliggono il servizio penitenziario, sia nell’espletamento delle misure alternative alla detenzione troppo spesso legate allo status socio-economico del detenuto, il burn-out del personale istituzionale penitenziario, la difficile gestione del simbolo carcere come luogo ove lo stato esercita la punizione ed il suo controllo".

L’art. 1 della Legge n. 222/93, introdusse l’art. 286 bis (Divieto di custodia cautelare) c.p.p. nell’ambito del Capo II del Titolo I del libro IV relativo alle misure cautelari. In particolare, il comma I dell’art. 286-bis c.p.p. disponeva che "Non può essere mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di chi sia affetto da infezione da HIV e ricorra una situazione di incompatibilità con la detenzione. L’incompatibilità sussiste, ed è dichiarata dal giudice, nei casi di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria; negli altri casi l’incompatibilità per infezione da HIV è valutata dal giudice tenendo conto del periodo residuo di custodia cautelare e degli effetti che sulla pericolosità del detenuto hanno le sue attuali condizioni fisiche".

Si rilevano due diversi tipi di incompatibilità: l’una assoluta e presunta dichiarata dal giudice nei casi di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria al di là di ogni valutazione discrezionale; l’altra relativa, valuta bile discrezionalmente dal giudice, in caso di deficienza immunitaria rilevante.

La definizione dei parametri di incompatibilità veniva demandata al decreto interministeriale 25 maggio 1993 (Definizione della condizione di incompatibilità con lo stato di detenzione per le persone con infezione da HIV), il quale, a sua volta, si rifaceva alla Circolare del Ministero della Sanità del 13 febbraio 1987, n. 5, precisando che la situazione di AIDS conclamata consiste in "un’affezione caratterizzata da: I) una o più malattie infortunistiche, diagnosticate con metodi affidabili, che sono almeno moderatamente indicative di immunodeficienza cellulare di base; II) assenza di qualsiasi immunodeficienza conosciuta (...) [diversa dall’infezione da HIV] e di tutte le altre cause di riduzione delle resistenze che possono essere associate ad almeno una delle predette malattie opportunistiche". Sempre seconda la Circolare dell’87, la situazione di grave deficienza immunitaria ricorre quando "il numero dei linfociti T/CD4 + è pari o inferiore a 100 mmc come valore ottenuto in almeno due esami consecutivi effettuati a distanza di quindici giorni uno dall’altro". Il grado di rilevanza della deficienza immunitaria era poi fissato dallo stesso decreto interministeriale, quando "il numero dei linfociti T/CD4+ è superiore a 100/mmc, ma inferiore a 200 mmc, come valore ottenuto in almeno due esami consecutivi effettuati a distanza di quindici giorni uno dall’altro".

La valutazione giurisdizionale doveva considerare il periodo residuo di pena e l’attuale pericolosità del soggetto interessato tenuto conto delle sue condizioni fisiche Bisogna inoltre tenere presente che il primo comma dell’art. 286-bis stabiliva che "nei casi di incompatibilità il giudice dispone la revoca della misura cautelare ovvero gli arresti domiciliari presso l’abitazione dell’imputato".

Sul punto Conso sottolineava come nell’ipotesi dell’incompatibilità, fosse essa assoluta o dichiarata dal giudice, "non vi sarebbe spazio per una terza soluzione, con la conseguenza di ridurre l’intero meccanismo ad una revoca della custodia cautelare, formale nel caso di revoca disposta espressamente e sostanziale o di fatto nel caso che l’imputato non abbia un’abitazione o questa non si presti, per le ragioni più svariate, ad assicurargli un’ospitalità adeguata quanto a vigilanza e cura una soluzione certamente anche poco provvida anche in via di principio".

Il comma III si occupava del caso in cui "ricorrono esigenze diagnostiche per accertare l’incompatibilità con lo stato di detenzione ovvero, al di fuori dei casi di cui al comma I, ricorrono esigenze terapeutiche concernenti l’infezione da HIV e sempre che tali esigenze non possano essere soddisfatte nell’ambito penitenziario"; in tali casi "il giudice può disporre il ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio sanitario nazionale per il tempo necessario, adottando, ove occorra, i provvedimenti idonei a prevenire il pericolo di fuga. Cessate le esigenze di ricovero, il giudice dispone a norma del comma 1 se risulta accertata l’incompatibilità, altrimenti ripristina la custodia cautelare in carcere ovvero provvede a norma dell’art. 299. Se dispone gli arresti domiciliari, l’esecuzione della misura avviene presso l’abitazione dell’imputato o presso una residenza collettiva o casa alloggio di cui all’art. 1 c. II della Legge 5 giugno 1990, n. 135".

Anche in riferimento alla fase esecutiva, la Legge n. 222;93 introdusse alcune novità: l’art. 2 immise una nuova ipotesi di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena nel contesto dell’art. 146 c.p. ovvero quella delle "persone affette da infezione HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell’art. 286-bis c.p.p.".

È verosimile ritenere che il legislatore abbia inteso conformare la disciplina dell’esecuzione con quella della custodia cautelare; era altrimenti inevitabile un’ingiustificata disparità di trattamento tra condannati definitivi e assoggettati a misure cautelari restrittive.

Nonostante tale meritorio intento, però, il Legislatore non andò immune da critiche, soprattutto da parte di chi sottolineava come "risulta difficile cogliere affinità tra le ipotesi originarie dell’art. 146 c.p. e quella introdotta dalla novella in esame, nè minori perplessità desta, anche alla luce del parametro costituzionale di cui all’art. 3 Cost., il trattamento privilegiato che l’innesto di cui sopra viene a creare per le persone affette da HIV rispetto a quelle che si trovano in altre condizioni di grave infermità fisica e per le quali il legislatore ha previsto non l’obbligatorietà del differimento dell’esecuzione, ma la semplice possibilità, da valutarsi dal giudice, di rinviare l’applicazione della pena".

Di fatto entrambe le norme sono state oggetto di svariate censure, originando ripetuti interessamenti dei giudici della Consulta. Le impressioni positive nascevano da una lettura della normativa come strumento in linea con i principi di contrasto all’AIDS in carcere suggeriti da vari organismi sopranazionali, come il Consiglio d’Europa e l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Le critiche si sono addossate soprattutto sul tema della abitazione privata del soggetto come luogo esterno di cura, auspicando l’immediata revoca del provvedimento per il detenuto che si fosse allontanato senza motivazione dal luogo esterno di cura, o ancora l’introduzione di una "clausola di salvezza" per mantenere o ripristinare la carcerazione in base a criteri di pericolosità sociale del soggetto.

Le eccezioni di illegittimità costituzionale sollevate da numerosi Tribunali di Sorveglianza nei confronti del nuovo articolo 146 c.p. e dal Tribunale di Torino nei confronti del nuovo art. 286 bis c. p. p. di fatto incisero profondamente sull’impianto normativo. In esse si rilevava tra l’altro che, se la permanenza dei detenuti HIV positivi fosse pericolosa per le persone sane, la conclusione doveva necessariamente essere che "tutti i detenuti sieropositivi, e non solo i c.d. malati terminali, dovessero rientrare nel campo di applicazione del nuovo intervento normativo".

Vi era chi riteneva altresì che l’applicazione del regime più favorevole ai malati di AIDS o ai gravi immuno-deficienti poggiasse su "deboli presupposti medico-legali" e, più in generale, su "‘inammissibili presupposti scientifici"; infatti i "potenziali untori carcerari" non sarebbero stati soltanto gli affetti da AIDS conclamata o i portatori di grave immunodeficit, bensì tutti i sieropositivi, soprattutto in considerazione del fatto che questi ultimi, per il miglior stato di benessere che generalmente li accomuna rispetto ai malati conclamati, avrebbero avuto una potenzialità contagiante certamente superiore.

Peraltro l’orientamento della Corte Costituzionale che sanciva la legittimità costituzionale delle nuove formulazioni degli artt. 286 bis c.p.p. e 146 c.p. risultò essenzialmente univoco nelle diverse pronunzie succedutesi in quegli anni scatenando diverse voci critiche e nuove eccezioni di legittimità costituzionale. L’opinione pubblica era in quel periodo estremamente allarmata sia per il grande risalto dato dai mass media alle gesta di alcuni malati di AIDS plurirecidivi che, protetti dalla sostanziale immunità offerta loro dalla legge, continuavano, dopo essere stati scarcerati, a commettere reati, sia per la convinzione diffusa che questa legge aprisse le porte del carcere ad un elevatissimo numero di sieropositivi intoccabili in possesso di una sorta di "patentino abilitante alla delinquenza reiterata".

L’orientamento uniforme della Corte Costituzionale si interruppe con le sentenze n. 438 e 439 de11995; già con la sentenza 15 luglio 1994, n. 308, la Corte aveva espresso un certo modo di ripensare la propria posizione, allorché aveva negato l’applicabilità del regime derogatorio alle misure di sicurezza detentive. Le sentenze n. 438 e 439 del 18 ottobre 1995 sancirono il cambiamento di rotta della Corte Costituzionale che si pronunciò in termini di parziale incostituzionalità degli artt. 146 comma I n. 3 c.p. e 286 bis c.p.p., adottando per i due diversi articoli un identico ragionamento giuridico e originando in tal modo "la soluzione sostanziale e quella processuale dell’identica questione", "per ragioni storico sistematiche che collocano la materia dell’esecuzione della pena in un’area tra il diritto penale sostanziale e processuale".

La Corte con tali pronunzie rilevò l’inerzia legislativa "sul piano della doverosa salvaguardia delle esigenze di sicurezza collettiva", che ha accreditato "l’opinione di quanti hanno individuato nei benefici ari di una disciplina, già in se fortemente discussa sul piano delle stesse premesse scientifiche da cui muove, una singolare categoria di penalmente immuni" e che ha trasfuso "in regime ordinario quella che negli intenti originari doveva essere una disciplina derogatoria fondata sulla eccezionalità della situazione".

Il ragionamento giuridico della Corte, muove i propri passi dalla constatazione che la salute collettiva in ambiente carcerario fosse il bene protetto dalla norma; l’allontanamento dell’individuo dal carcere aveva senso nella misura in cui la presenza comportasse invece un pregiudizio per la salute degli altri detenuti.

Ma se l’intento del legislatore fosse stato la tutela esclusiva della salute collettiva, avrebbe dovuto considerare tutti i soggetti affetti da HIV, e non i soli malati conclamati o immuno-deficienti gravi posto che da tutti i soggetti affetti derivano i rischi del contagio. La limitazione operata da tali articoli rivelava una volontà legislativa diretta a tutelare soprattutto la salute del singolo, attestando lo stato di incompatibilità con la detenzione.

Da ciò consegue che "sono solo le condizioni di salute del condannato a dover essere prese in considerazione dal legislatore e non certo la malattia in quanto tale, giacché, a fronte di un identico stato morboso, qualunque esso sia, le variabili cliniche possono essere tante quante l’intera casistica è in grado di offrire"; pertanto "priva di adeguato fondamento" appariva la preclusione stabilita dal legislatore e, conseguentemente, data l’evanescenza della ratio, la disposizione impugnata doveva ritenersi "non conforme al canone della ragionevolezza nella parte in cui non consentiva di accertare in concreto se, ai fini dell’esecuzione della pena, le effettive condizioni di salute del condannato fossero o meno compatibili con lo stato detentivo".

È quindi compito del giudice "verificare caso per caso in relazione alle strutture disponibili se l’esecuzione della pena potesse avvenire senza pregiudizio per la salute della restante popolazione carceraria che costituiva l’altro dei valori che la norma aveva inteso tutelare".

La Corte dichiarò pertanto l’illegittimità costituzionale dell’art. 146 I comma n. 3 c.p., "nella parte in cui prevedeva che il differimento della pena avesse luogo anche quando l’espiazione della pena potesse avvenire senza pregiudizio della salute del soggetto e di quella degli altri detenuti".

Con riferimento invece alla custodia cautelare, la Corte si rifece al novellato comma IV dell’art. 275 c.p.p. che, nello stabilire che non poteva essere disposta la custodia cautelare in carcere in tutta una serie di situazioni, tra le quali vi era anche il caso di persone che si trovassero in condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con la detenzione, faceva salve le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Secondo la Corte, il divieto assoluto di custodia cautelare in carcere stabilito per i soli malati di AIDS, "si rivelava privo di ragionevolezza, dovendo per essi operare, pur con i temperamenti resi necessari dalla peculiarità del morbo, la generale regola che consente, anche in caso di malattie altrettanto gravi, l’adozione della misura carceraria, allorché esigenze cautelari di eccezionale rilevanza facciano ritenere inadeguata qualsiasi

altra misura". Anche in questo caso spetterà al giudice "verificare caso per caso, tenuto conto anche delle strutture disponibili, se, in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, la custodia in carcere potesse essere disposta senza pregiudizio per la salute del soggetto e quella degli altri detenuti". La Corte dichiarò quindi l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 286-bis comma I c.p.p., "nella parte in cui stabiliva il divieto di custodia cautelare in carcere nei confronti delle persone ivi indicate, anche quando sussistono le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza di cui all’art. 275 comma IV del medesimo codice, e l’applicazione della misura possa avvenire senza pregiudizio per la salute del soggetto e quella degli altri detenuti".

La Corte di Cassazione si era già espressa nel senso che "entrambe le norme disciplinano situazioni di incompatibilità tra lo stato di detenzione e le condizioni di salute di una persona a cui è applicata una misura cautelare e l’art. 286 bis, analogamente all’art. 275 comma IV, considera non solo le ipotesi di incompatibilità assoluta, ma anche quelle ipotesi di incompatibilità relativa che richiedono una comparazione tra condizioni di salute ed esigenze cautelari; ciò che distingue l’art. 286 bis dall’art. 275 comma IV c.p.p. è, per un verso, la particolare affezione cui la norma speciale si riferisce, per l’altro, il fatto che il legislatore definisce preventivamente i limiti di rilevanza della malattia e le procedure per il suo accertamento". Pertanto in caso di HIV "le condizioni di salute sono valutabili, ai fini della compatibilità con lo stato di detenzione, solo se risultano superati i limiti di tollerabilità, individuati dall’art. 286-bis c.p.p. e dal Decreto interministeriale 25 maggio 1993"; se invece l’infezione in esame non presenta le indicate caratteristiche, essa "non può assumere rilevanza, neppure ai fini dell’art. 275 comma IV c.p.p., perché l’art. 286 bis, comma II c.p.p. esclude che sia comunque valutabile dal giudice la deficienza immunitaria di grado inferiore a quello indicato nell’art. 2 del citato decreto interministeriale".

Alcuni autori hanno sostenuto che, per connettere le due pronunzie della Consulta, si dovesse "leggere il dispositivo della sentenza della Corte Costituzionale, omettendo il riferimento all’art. 275 comma IV e ritenere illegittima la norma di cui all’art. 286-bis c.p.p., nella parte in cui stabilisce il divieto di custodia cautelare in carcere anche quando l’applicazione della misura possa avvenire senza pregiudizio per la salute del soggetto e di quella degli altri detenuti". Se invece l’intendimento era quello di ricondurre la disciplina della custodia cautelare dei soggetti AIDS nell’alveo dell’art 275 comma IV c.p.p., si doveva allora "rilevare l’inesattezza del dispositivo, comunque non pienamente rispondente alla motivazione, che avrebbe dovuto affermare sic et simpliciter, l’illegittimità costituzionale dell’art. 286 bis c.p.p.".

In conclusione, le sentenze n. 438 e 439 del 1995 abolirono l’automatismo assoluto e relativo del divieto di custodia cautelare e di esecuzione della pena in carcere per le persone affette da AIDS conclamata, proponendo invece l’opportunità della valutazione del giudice caso per caso in ordine alla effettiva incompatibilità con lo stato detentivo.

Pertanto divenne principio formatore della materia la centralità della valutazione specifica caso per caso, e non più il mero riferimento ad una cornice di valori clinici che una legge pone a criterio oggettivo e determinante per l’attivazione dei benefici". La evidenziata svolta nella giurisprudenza costituzionale fu stimolata sia dalla già indicata inerzia del legislatore sia da una "riconsiderazione della razionalità intrinseca del sistema, alla luce delle acquisizioni scientifiche che impongono

valutazioni individualizzate, caso per caso, sul pregiudizio che, alla stregua dello sviluppo della malattia e delle strutture disponibili, possa derivare sia alla salute del soggetto malato in carcere, sia alla salute degli altri detenuti".

Il problema AIDS non ha certamente smesso di investire la giurisprudenza dei vari Tribunali di Sorveglianza, e ha prodotto, come è noto, trattamenti spesso differenti, perfino di fronte a parità di situazioni oggettive, benché "le valutazioni giurisprudenziali siano state del tutto legittime e conformi all’ampio spazio di indirizzo indicato dalla sentenza della Corte Costituzionale".

A far data dalle pronunzie della Consulta, l’amministrazione penitenziaria ha compiuto seri sforzi per allestire centri di cura all’interno degli istituti, alcuni dei quali altamente specializzati, anche se, nonostante l’attività svolta, i risultati si sono mostrati assai modesti per possibilità d’accoglienza: soltanto pochissimi istituti presentano sezioni per AIDS. Si è realizzato anche un indubbio miglioramento dell’assistenza sanitaria carceraria nei confronti di questa particolare tipologia di detenuti malati. Basti pensare, a tale proposito, alla realizzazione di un più alto numero di convenzioni con specialisti infettivologi esterni, o ancora alla maggior dimestichezza dei medici nella gestione di questa patologia ed alla nascita delle .’sezioni attenuate per HIV positivi"; tutti fattori che hanno contribuito a fare diminuire la necessità per le istituzioni di sollecitare ad ogni costo la scarcerazione di tale tipologia di reclusi.

L’intervento del legislatore nel 1999 si inserisce quindi in una situazione profondamente trasformata sia dal punto di vista medico-terapeutico, sia dal punto di vista penitenziario. Tale intervento legislativo si è caratterizzato nel riportare la disciplina delle misure cautelari, applicabili nei confronti dei malati di AIDS, all’interno della norma generale che deve orientare il giudice nella scelta della misura cautelare. Il comma IV bis dell’art. 275 c.p.p. oltre a prendere in considerazione coloro che "sono affetti da malattia particolarmente grave...", prende in considerazione direttamente gli imputati affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi del comma II dell’art. 286 bis, e sancisce il divieto di disporre o mantenere la custodia cautelare in carcere.

Il nuovo comma II dell’art. 286 bis c.p.p. stabilisce che "con decreto del Ministro della sanità, da adottare di concerto con il Ministro di grazia e giustizia, sono definiti i casi di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria e sono stabilite le procedure diagnostiche e medico-legali per il loro accertamento", senza aggiungere nulla riguardo al "grado di deficienza immunitaria rilevante ai fini della situazione d’incompatibilità valuta bile dal giudice".

Tali definizioni sono state precisate dal decreto interministeriale 21 ottobre 1999; la difficoltà degli accertamenti diagnostici che tali condizioni patologiche richiedono suggerisce l’esigenza di idonei accertamenti medico-legali.

In linea anche una pronuncia della Corte di Cassazione secondo la quale, il giudice che "non ritenga di accogliere, sulla base degli atti, la richiesta di revoca o di sostituzione della custodia cautelare in carcere basata sulla prospettazione di condizioni di salute incompatibili con lo stato di detenzione o comunque tali da non consentire adeguate cure inframurarie, è tenuto a disporre gli accertamenti medici del caso, nominando un perito secondo quanto disposto dall’art. 299, comma 4 ter c.p.p. Così il comma IV ter dell’art. 299 (Revoca e sostituzione delle misure) c.p.p. il quale dispone che in presenza di "esigenze cautelari di eccezionale rilevanza", se "la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non è possibile senza pregiudizio per la salute dell’imputato o di quella degli altri detenuti, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali dell’assistenza ai casi di AIDS, ovvero presso una residenza collettiva o casa alloggio di cui all’art. 1 comma II della Legge n. 135 del 1990".

Il legislatore, con la Legge n. 231/99, ha inteso contemperare la tutela della salute dei detenuti con le finalità di difesa sociale, anche mediante l’introduzione di misure alternative alla detenzione. In questo senso appare la possibilità offerta ai soggetti con grave deficienza immunitaria o affetti da AIDS conclamata di evitare la permanenza in carcere e all’occorrenza di disporre l’affidamento in prova ai servizi sociali, gli arresti domiciliari o la detenzione domiciliare.

Di ciò si occupa l’art. 47 quater (Misure alternative alla detenzione nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata oda grave deficienza immunitaria) dell’ordinamento penitenziario, ai sensi del quale "le misure previste dagli articoli 47 e 47 ter possono essere applicate, anche oltre i limiti di pena ivi previsti, su istanza dell’interessato o del suo difensore, nei confronti di coloro che sono affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’art. 286 bis comma II c.p.p. e che hanno in corso o intendono intraprendere un programma di cura ed assistenza presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali dell’assistenza ai casi di AIDS".

L’intervento della Legge n. 231/99, quindi, oltre ad apportare modifiche alle disposizioni in materia di misure cautelari ha inciso sulla disciplina dell’esecuzione della pena. Non mancano coloro che, però, sottolineano come sia auspicabile tutt’oggi "una maggior attenzione del Legislatore alla realtà clinica di una malattia che sta rapidamente cambiando le sue caratteristiche, ma che mantiene una notevole difficoltà di gestione clinica e psicologica in ambiente carcerario". Dalla disciplina analizzata restano esclusi gli altri soggetti sieropositivi, le cui condizioni non sembrano, a parere del legislatore, autorizzare una deroga al regime detentivo in carcere e per i quali, quindi, si prospetta il ricovero in luogo esterno di cura ex art. 11 O.P.: in termini numerici tali soggetti rappresentano la maggioranza tra gli affetti da HIV.

Non bisogna dimenticare che nei nostri istituti è concentrata una percentuale sproporzionatamente alta di soggetti che già all’ingresso presentano condizioni patologiche di varia natura, talora dagli stessi ignorate e trascurate: elevato è il numero di tossicodipendenti e di alcolisti, con tutte le varietà patologiche correlate alla loro condizione; alta è l’incidenza di sieropositivi per HIV, ammalati di AIDS, soggetti affetti da TBC latente o attiva, persone contagiose per altre malattie;

tale situazione conferma il principio generale del divieto di detenzione in carcere, con un ampio ricorso agli arresti domiciliari o ai trasferimenti in luoghi di cura e alla concessione dell’affidamento in prova e della detenzione domiciliare: il mantenimento del soggetto in carcere diviene misura di extrema ratio, essendo previsto solo in presenza di gravi delitti commessi dopo l’applicazione delle misure non detentive.

 

Diffusione del virus in ambiente carcerario e atteggiamento dei detenuti

 

Il virus HIV è pressoché ubiquitario, e in tutto il mondo continua a crescere il numero sia delle persone con infezione da HIV sia di quelle con AIDS conclamata. Le caratteristiche chimico-fisiche del virus lo rendono inadatto alla sopravvivenza nell’ambiente extracorporeo e, comunque, facilmente inattivabile con le comuni metodiche di disinfezione. La presenza di anticorpi HIV, come pure la presenza di particelle virali, è stata dimostrata in pressoché tutti i liquidi corporei dei soggetti infetti, ovvero sangue e derivati, liquido seminale, secrezioni vaginali, urine, sudore, saliva, latte materno, etc.

Tuttavia, la maggior concentrazione del virus attivo e, di conseguenza, la maggior infettività, sono peculiari del sangue, del liquido seminale e delle secrezioni vaginali, tanto è vero che le più note modalità del contagio sono rappresentate dal sangue e dai suoi derivati (emotrasfusioni, emoderivati a scopo terapeutico, esposizioni professionali, tossicodipendenza con scambio di siringhe), dalla trasmissione per vie sessuali (rapporti omo ed eterosessuali), e da trasmissione verticale materno-fetale. Numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato che il carcere, di per sé, non costituisce un fattore di rischio per l’acquisizione di nuove infezioni; la cospicua presenza di detenuti HIV è piuttosto da correlare all’elevato numero di tossicodipendenti detenuti. Tuttavia, il carcere è certamente il luogo dove la patologia HIV-AIDS correlata ha assunto le dimensioni più allarmanti, poiché le caratteristiche della popolazione ristretta favoriscono la diffusione del virus.

La maggior incidenza dell’infezione tra i detenuti rispetto alla popolazione generale non è certamente un fatto esclusivo italiano, ma risulta diffusa in modo analogo in Europa e nel resto del mondo. Esiste poi un "rapporto diretto tra carcere e sieropositività, nel senso dell’esistenza di modalità con cui l’istituzione favorisce la diffusione del virus: sono i casi in cui il carcere diventa ambiente ad alto rischio, in cui si verifica un effetto ponte tra i soggetti a rischio ed altri abitualmente non considerati tali che finiranno per contrarre l’infezione in carcere".

Tra gli specifici fattori di rischio che esistono all’interno delle istituzioni carcerarie, possiamo ricordare: i rapporti omosessuali occasionali o coatti; lo scambio delle siringhe tra i detenuti a causa della diffusione degli stupefacenti in carcere; altre pratiche ad alto rischio come quelle del tatuaggio o dello scambio di strumenti infetti come ad esempio forbici, rasoi, etc.; sovraffollamento e promiscuità carceraria, unitamente a condizioni igieniche scadenti.

Comunemente si ritiene quest’ultimo fattore di rischio quello maggiormente responsabile della diffusione dell’infezione in ambito carcerario; infatti, di fronte ad "uno Stato che si è completamente dimenticato di essere responsabile delle condizioni in cui tiene il ristretto, chi finisce in carcere viene sistemato senza alcun criterio sulla base della sola necessità di trovare un posto all’interno di una struttura che scoppia".

Dalle considerazioni epidemiologiche del rapporto carcere/HIV sono derivate alcune strategie di prevenzione, dette anche di "riduzione del danno", fondate essenzialmente sulla possibilità di distribuzione di profilattici e di siringhe sterili ai detenuti ed elaborate sulla base di varie raccomandazioni adottate in seno al Consiglio d’Europa. Infatti, già con la Raccomandazione n. 1080, adottata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio il 30 giugno 1988 e relativa ad una politica sanitaria coordinata per prevenire la diffusione dell’AIDS nelle prigioni, i governi erano invitati, tra l’altro, ad adottare politiche di riduzione del danno, consentendo la distribuzione di profilattici ed eventualmente di siringhe ed aghi sterili ai detenuti tossicodipendenti.

Nella stessa direzione anche la Raccomandazione R 14 del 24 ottobre 1989 e la Raccomandazione R 6 del 18 ottobre 1993, in cui sono formulati ben 16 principi generali e 10 disposizioni particolari relative al trattamento dell’infezione da HIV in ambiente penitenziario, dai quali emerge un "modello di gestionale liberale" della lotta alla famigerata infezione in carcere.

Tenendo conto che non esiste in Europa nessun sistema penitenziario che adotti sistematicamente le direttive di riduzione del danno di cui sopra, forse anche per il timore di ripercussioni sulla sicurezza del carcere, è opportuno segnalare come la distribuzione di siringhe o di specifici disinfettanti per aghi è per lo meno prevista dai regolamenti penitenziari di Belgio, Lussemburgo, Olanda e Spagna, mentre isolate sperimentazioni sono in corso di realizzazione nelle carceri di Danimarca, Francia, Svizzera e Germania; la possibilità invece di ottenere dei profilattici è più diffusa e coinvolge la maggior parte dei paesi europei. In Italia nessuna circolare accenna alla possibilità di adottare misure di riduzione del danno, nemmeno per negarne la liceità o l’opportunità; neppure se ne fa cenno nel documento di riordino della medicina penitenziaria e del successivo "Progetto-Obiettivo" per la tutela della salute in carcere.

Nel nostro Paese non appare oggi seriamente ipotizzabile alcuna apertura sulla possibilità di distribuire siringhe in carcere alla popolazione di tossicodipendenti e non sembra concretizzarsi neppure l’idea di diffondere l’utilizzo del profilattico in carcere, mediante una apposita distribuzione. Anzi, più volte è emersa la convinzione che la distribuzione del profilattico, incoraggiando l’omosessualità, sarebbe altamente incoerente con la politica del trattamento, che valorizza le relazioni esterne. Del resto vi è chi sottolinea come la "connivenza del silenzio" esistente in carcere sulla sessualità e sull’affettività potrebbe portare al fallimento di un’iniziativa di distribuzione dei profilattici.

In realtà non esistono prove che la distribuzione del profilattico possa incrementare l’omosessualità, mentre vi è assoluta certezza che la loro indisponibilità favorisca la trasmissione virale. L’atteggiamento dei detenuti sieropositivi evidenzia impazienza, incapacità di tollerare le frustrazioni, bisogno di soddisfare con immediatezza ogni desiderio, aggressività, incapacità ad instaurare relazioni durevoli, sfiducia in se stessi e negli altri.

Se nella maggior parte dei casi, inoltre, la consapevolezza della sieropositività non modifica il rapporto nei confronti delle sostanze stupefacenti- essendo spesso l’infezione vissuta come un ulteriore incidente all’interno di un percorso personale già afflitto dalla tossicodipendenza, per alcuni soggetti tuttavia la malattia diviene occasione di impegno a livello personale per lasciare un ricordo positivo di sé dopo un periodo più o meno lungo di tossicodipendenza: tali atteggiamenti opposti in alcuni casi coesistono e prevalgono alternativamente nello stesso soggetto.

La maggior parte dei detenuti sieropositivi manifesta la paura legata all’aggravarsi della malattia, e al fatto che ciò potrebbe non permettere loro di espiare l’intera pena, o potrebbe farli arrivare alla fine con lo stato di salute ormai compromesso: alla paura e all’incertezza legata all’evolversi della malattia si somma inoltre l’incertezza tipica della vita detentiva, in particolare l’attesa delle decisioni giudiziarie.

 

Accertamento dell’infezione da HIV e conseguenze penitenziarie

 

La Legge n. 231 del 1999 incide sulla possibilità di emettere provvedimenti di custodia cautelare (art. 275 comma 4 bis c.p.p.) e sul rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena (art. 146 c.p.), per le persone affette da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria. La definizione di queste ultime condizioni e delle relative procedure diagnostiche valutative è stata demandata al Decreto Interministeriale (Ministro della Sanità di concerto con il Ministro della Giustizia) 21 ottobre 1999. L’art. 1 di tale decreto rimanda la definizione di AIDS conclamata alle situazioni già indicate nella circolare del Ministro della sanità del 20 aprile 1994. n. 9 (Definizione di caso di AIDS ai fini della sorveglianza epidemiologica). La definizione a cui si riferisce l’attuale norma richiama quella elaborata in seno all’Organizzazione Mondiale della Sanità ed universalmente utilizzata dal Center for Disease Controf and Prevention di Atlanta del 1993.

La principale differenza è data dal fatto che la definizione di AIDS accolta dal nostro legislatore è quella "europea", per la quale è sempre necessaria la presenza di una condizione indicativa di AIDS, cioè si deve essere sempre nella categoria C del CDC, mentre la definizione statunitense afferma la presenza della malattia conclamata anche per la sola condizione laboratoristica di linfociti CD4 < 200 mmc, cioè anche nelle classi A3 e B3 del CDC.

L’art. 2 del decreto 21 ottobre 1999 si occupa invece della definizione di "grave deficienza immunitaria", che si ritiene ricorra quando "...anche in assenza di identificazione e segnalazione ai sensi della circolare di cui all’art. I del presente decreto. la persona presenti anche uno solo dei seguenti parametri: numero di linfociti TCD4 pari o inferiore a 100 mmc, come valore ottenuto da almeno due esami consecutivi effettuati a distanza di quindici giorni uno dall’altro: indice di Karnofsky pari al valore di 50".

Non tutti hanno condiviso tali scelte, sottolineando come esse possiedano scarsa attendibilità scientifica, e ripetano gli stessi errori del decreto interministeriale 25 maggio 1993 (Definizione della condizione di incompatibilità con lo stato di detenzione per le persone con infezione da HIV).

Anche a livello internazionale è infatti oggi comunemente riconosciuto che, grazie alla migliore conoscenza della patogenesi e dell’evoluzione dell’infezione da HIV e, soprattutto, grazie all’impiego dei nuovi farmaci antiretrovirali, il termine di AIDS è molto utile soltanto a scopi di sorveglianza od amministrativi, mentre ha uno scarso significato clinico: pertanto, la valutazione medico-legale di compatibilità carceraria non può assolutamente basarsi soltanto su di una pregressa diagnosi di AIDS, ma il discorso prognostico e tutto ciò che lo concerne deve essere necessariamente individualizzato.

Infatti un paziente con AIDS e bassi livelli di linfociti CD4-r iniziali, una volta impostata la terapia, può mostrare un’ottima risposta ed avere una condizione clinica migliore di quella di un paziente con alti livelli di CD4-r , cosi come un paziente con un buon compenso immunitario potrebbe presentare problematiche importanti determinate da effetti collaterali legati alla terapia in corso.

Relativamente invece agli aspetti propriamente laboratoristici, si può notare come il legislatore abbia ripetuto la stessa scelta del 1993, facendo riferimento ad un esame. quello della conta linfocitaria. che presenta limiti di variabilità tali da renderlo assolutamente inadeguato a decidere, di per sé, la compatibilità carceraria. Innanzitutto, sono state descritte variazioni giornaliere della conta da 50 a 150 cellule mmc in soggetti sani (anche se in caso di bassi valori di CD4, la variabilità giornaliera diminuisce) dovute a variazioni circadiane (livelli più bassi verso le 12.30 e livelli più elevati alle 20.30) ed al possibile effetto di malattie intercorrenti o anche di esercizio fisico intenso o di forte stress, altro fattore molto importante è quello relativo all’affidabilità dei laboratori e di conseguenza dei relativi risultati degli esami.

Inoltre, bisogna tenere conto che la preparazione del campione è un momento molto importante e che. mentre il congelamento del materiale può portare ad una sovrastima dei valori, al contrario il ritardo tra l’arrivo e l’analisi del campione riduce la vitalità cellulare, con conseguenti risultati non affidabili per sottostima. Infine, non è stato previsto da parte del nostro legislatore alcun controllo di qualità. al fine di ridurre, quanto meno al minimo. i rischi sopra indicati.

La dottrina ha evidenziato anche il palese errore compiuto dall’estensore del decreto, laddove la situazione di grave deficienza immunitaria è definita facendo riferimento al parametro dell’Indice di Karnofsky "pari al valore di 50", omettendo di specificare che lo stesso dovrà essere "pari o inferiore a 50", inoltre, lo stesso inserimento nella definizione di cui sopra del suddetto indice, rappresenta un condivisibile tentativo di associare un corrispettivo clinico ad un criterio laboratoristico rivelatosi insufficiente", anche se si tratta di un tentativo poco convinto e non associato dal legislatore alla conta linfocitaria.

La facile equiparazione tra controllo della diffusione dell’infezione e sorveglianza siero logica della stessa, è probabilmente alla base della tendenza delle amministrazioni competenti ad orientarsi verso strumenti di tipo coercitivo, come le pratiche di screening di massa della popolazione carceraria o di sottogruppi di essa giudicati ad alto rischio d’infezione. La pretesa legittimità di un controllo sierologico obbligatorio della popolazione carceraria poggia essenzialmente su tre presupposti: quello secondo il quale l’individuazione dei soggetti infetti consente interventi preventivi, educativi e terapeutici: quello in base al quale il controllo sierologico permette una migliore protezione del personale penitenziario nei confronti del contagio ed infine quello basato sulla necessità di ottenere informazioni di natura epidemiologica per programmare efficaci politiche di intervento.

Tuttavia, una consistente parte della dottrina italiana respinge in toto i presupposti sinteticamente riportati, ritenendo innanzitutto che un efficace programma di prevenzione deve essere rivolto. All’interno come all’esterno del carcere" "alla totalità della comunità e non soltanto ai portatori del virus. la cui individuazione sierologica appare, negli istituti di pena" un tributo più a ragioni di carattere strutturale (in particolare, la possibilità di isolare o segregare il detenuto HIV infetto) che ad esigenze di stretta pertinenza medica".

Secondariamente, vi è chi ritiene che il ricorso a misure coercitive abbia senso soltanto quando assume finalità preventiva generale (per contrastare gli effetti diffusivi della malattia) e anche qualora esista un efficace trattamento, in grado di debellare con sicurezza la diffusività della malattia. Altre voci di dissenso sono pervenute da quella parte della dottrina che. Nell’ottica di un’impronta nettamente garantista, individua le condizioni di legittimità dei trattamenti sanitari obbligatori nell’assoluta eccezionalità degli atti in questione, nella loro finalizzazione alla tutela della salute collettiva e nella rispondenza ad un effettiva necessità in mancanza di soluzioni alternative ed infine nella previsione e disciplina degli stessi tramite legge ordinaria.

Decisamente contrari all’interpretazione che individua nell’art. 5 della Legge n. 135/90 un’ipotesi di T.S.O., anche Catanesi e Rossi, secondo i quali "l’interpretazione congiunta dei due concetti di "necessità clinica" ed "interesse" esclude il rischio che si possa tentare di ricorrere a tale strumento normativo per finalità diverse ad esempio per fare passare silentemente un capillare controllo epidemiologico in comunità chiuse come quella carceraria: non v’è dubbio invece che un accertamento con tali finalità resti affidato solo alla libera scelta dei soggetti.

Appare comunque evidente che la tentazione di introdurre forme obbligatorie di screening per la popolazione detenuta "sia sempre pericolosamente presente, vuoi per le pressioni dell’amministrazione penitenziaria, vuoi per la radicata convinzione che porta a considerare i detenuti come facenti parte di una popolazione speciale".

 

 

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