Sistema penale e tutela della salute

 

L’assistenza sanitaria ai detenuti

 

 

L'assistenza sanitaria ai detenuti in generale

L’assistenza ai detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti

L’assistenza ai detenuti sieropositivi o affetti da Aids

L’assistenza ai detenuti stranieri

 

 

L'assistenza sanitaria ai detenuti in generale

 

Le patologie di maggior frequenza negli istituti di pena italiani nel periodo 1 gennaio 1999-20 settembre 1999, risultavano le malattie infettive con 9.794 casi; in particolare. L’Associazione dei medici penitenziari (Amapi) aveva stimato circa 8.500 casi di detenuti affetti da epatite, mentre i casi di tubercolosi segnalati nel 1998 erano circa 250. La lotta alla diffusione di tali malattie trasmissibili deve essere condotta anzitutto garantendo adeguate condizioni materiali di alloggiamento dei detenuti, oltre alle necessarie misure preventive: "il fatto di privare una persona della sua libertà implica sempre l’obbligo di occuparsene con metodi efficaci di prevenzione".

Come risulta dai dati forniti dall’associazione Antigone, alla data del 31 dicembre 2001 la popolazione detenuta nei 205 istituti penitenziari, 51 case mandamentali, e 6 ospedali psichiatrici giudiziari italiani era di 55.275 persone. Altre patologie numericamente rilevanti in carcere risultano essere malattie dell’apparato digerente (6.600 casi); malattie del sistema nervoso (5.473 casi); malattie dell’apparato locomotore (3.558 casi); malattie dell’apparato respiratorio (2.644 casi); malattie dell’apparato cardio-vascolare (2.262 casi); malattie allergiche immunitarie ( 1.499 casi); malattie dell’apparato urogenitale (1.267 casi): malattie endocrinologiche e malattie del ricambio (1.263 casi), ed infine le malattie del sangue, dell’emocoagulazione e dell’emostasi (668 casi).

Per affrontare tali patologie, la previsione di un servizio sanitario all’interno degli istituti penitenziari deriva direttamente dalle Regole minime dell’ONU per il trattamento dei detenuti, approvate il 30.8.1955 (artt. 22-26) e ribadite dal Consiglio d"Europa il 19 gennaio 1973.

L’art. 11 (Servizio sanitario) della Legge 26 luglio 1975 n. 354 (norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), definisce i principi generali relativi ai servizi sanitari negli istituti penitenziari. Esso prevede anzitutto che ogni istituto penitenziario sia "dotato di servizio medico e di servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati" e che esso disponga della competenza di almeno uno specialista in psichiatria.

Sempre secondo l’art. 11 O.P.. "Ove siano necessarie cure o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del magistrato di sorveglianza, in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura": tuttavia, allo scopo di limitare l’ammissione dei detenuti in tali ospedali, negli istituti penitenziari sono stati istituiti centri diagnostici e terapeutici.

Il provvedimento con il quale viene disposto tale ricovero esterno è adottato, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dal giudice per le indagini preliminari; per gli imputati dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e per i condannati e gli internati, dal magistrato di sorveglianza (art. 240 disp. att. c.p.p.). In caso di urgenza, il ricovero può essere disposto dalla direzione, che ne dà immediato avviso alle autorità sopra indicate (art. 17 c. VIII Reg. Pen.). La disciplina in materia di ricovero esterno dei detenuti e degli internati prevede l"obbligo generale del piantonamento" con la facoltà conferita al magistrato di disporre l’esonero dallo stesso sul presupposto che "non vi sia pericolo di fuga", salvo che la costante custodia non sia necessaria "per la tutela della loro incolumità personale".

L’art. 17 (Assistenza sanitaria) del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) afferma che "I detenuti e gli internati usufruiscono dell’assistenza sanitaria secondo le disposizioni della vigente normativa" e che "L "assistenza sanitaria viene prestata all’interno degli istituti penitenziari, salvo quanto previsto dal secondo comma dell’articolo 11 della legge", e prevede l’organizzazione di reparti clinici e chirurgici, sulla base delle indicazioni desunte dalla rilevazione e dall’analisi delle esigenze sanitarie della popolazione penitenziaria.

Sempre l’art. 11 O.P. contempla la possibilità per detenuti e internati di farsi visitare, a proprie spese, da un sanitario di fiducia: l’autorizzazione è fornita, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dal magistrato che procede; per gli imputati dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, per i condannati e per gli internati" dal direttore.

Il comma VII dell’art. 17 D.P.R. 230/2000 prevede inoltre che "Con le medesime forme previste per la visita a proprie spese possono essere autorizzati trattamenti medici, chirurgici e terapeutici, da effettuarsi a spese degli interessati da parte di sanitari e tecnici di fiducia nelle infermerie o nei reparti clinici e chirurgici degli istituti". La possibilità, concessa al detenuto, di scelta del medico, deriva evidentemente dal riconoscimento del valore costituzionale della salute come fondamentale diritto dell’individuo, e si colloca nell’ottica di un servizio sanitario volto alla tutela attiva della salute di tutti i cittadini, indipendentemente dalle condizioni individuali o sociali di ciascuno.

Il provvedimento con il quale viene concessa o negata l’autorizzazione a sottoporsi alla visita medica di un sanitario di fiducia non è passibile di alcuna impugnazione: si tratta, infatti, di un provvedimento di natura amministrativa, non incidente sulla libertà personale del detenuto.

L’art. 11 O.P. prevede inoltre "una triplice tipologia di controlli medici, effettuabili indipendentemente dalla richiesta dell’interessato: la visita medica generale all’atto dell’ingresso in istituto, l’assistenza prestata con periodici e frequenti riscontri e il controllo periodico dei detenuti adibiti a mansioni lavorative". Tale previsione è funzionale alla tempestiva adozione dei necessari provvedimenti sia in relazione alle esigenze di diagnosi e cura riguardanti il singolo caso nonché alla individuazione di eventuali situazioni rilevanti ai fini della concessione del differimento dell’esecuzione della pena (art. 23 c. II R.P.), sia in relazione alle esigenze riguardanti l’intera comunità carceraria: proprio la tutela degli interessi collettivi, per esempio, è alla base della disposizione che prescrive l’isolamento per i detenuti e gli internati sospetti o riconosciuti affetti da malattie contagiose (art. 11 c. VII O.P.). Sempre al fine di evitare la diffusione di malattie contagiose, l’art. 33 O.P. prevede la misura igienico-sanitaria dell’isolamento continuo, prescritta appunto dal medico per ragioni sanitarie e destinata a venir meno con la cessazione dello stato contagioso.

L’assistenza sanitaria erogata all’interno degli istituti penitenziari, intesa come tutela preventiva della salute dei detenuti, è disciplinata dal comma IX dell’art. 17 R.P.: "In ogni istituto devono essere svolte con continuità attività di medicina preventiva che rilevino, segnalino ed intervengano in merito alle situazioni che possono favorire lo sviluppo di forme patologiche, comprese quelle collegabili alle prolungate situazioni di inerzia o di riduzione del movimento e dell’attività fisica".

Funzionale all’efficacia di ogni eventuale successivo intervento di carattere sanitario nei confronti del detenuto appare la previsione della visita medica generale da effettuarsi all’atto dell’ingresso in carcere che consente, appunto di "accertare eventuali malattie fisiche o psichiche". L’art. 11 O.P. stabilisce inoltre che "L’assistenza sanitaria è prestata, nel corso della permanenza nell’istituto, con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati" e che "Il sanitario deve visitare ogni giorno gli ammalati e coloro che ne facciano richiesta", e "segnalare immediatamente la presenza di malattie che richiedono particolari indagini e cure specialistiche".

Sono garantite le prestazioni sanitarie erogate dal Servizio sanitario nazionale, giacche l’art. 18 (Rimborso delle spese per prestazioni sanitarie) del D.P.R. 2302000 vieta che venga richiesta alla persona detenuta o internata alcuna forma di partecipazione alla spesa per le prestazioni stesse.

In riferimento alla data del 31 dicembre 1999, il settore maggiormente garantito all’interno degli istituti di pena risulta essere quello odontoiatrico, essendo tali laboratori presenti nella maggior parte delle strutture; per gli altri laboratori diagnostici e specialistici, la situazione varia a seconda dell’istituto di pena. In particolare, in misura molto ridotta risulta essere assicurata la presenza di sale di radiologia e di laboratori di analisi. I centri diagnostico-terapeutici risultano 15, per un numero complessivo di 575 posti letto.

La distribuzione dei farmaci di routine dovrebbe avvenire senza particolari formalità e in modo tale che nella maggioranza dei casi essi risultano somministrati entro poche ore o al massimo entro un giorno dalla richiesta dei detenuti (salvo alcuni recenti e localizzati problemi di copertura della spesa farmaceutica derivanti dalle difficoltà applicati ve del D.Lgs. 230 1999). Gli psicofarmaci rappresentano la categoria di farmaci maggiormente somministrata negli istituti di pena. seguiti da antidolorifici, anti-infiammatori, anti-ipertensivi e antibiotici: l’associazione Antigone sottolinea la difficoltà di comprendere quanto tale uso consistente di psicofarmaci rappresenti la risposta a una situazione di disagio psichico diffusa nell’ambiente carcerario oppure "una strategia di controllo e un modo per mantenere l’ordine interno. soprattutto nelle sezioni di tossicodipendenti.

Come già accennat0, mutamenti significativi nell’organizzazione dell’assistenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari sono stati introdotti con il D.Lgs. 22 giugno 1999, n. 230 (Riordino della medicina penitenziaria, a norma dell’art. 5 della Legge 30 novembre 1998, n. 419), che ha previsto il riordino della medicina penitenziaria attraverso il passaggio di competenze dall’Amministrazione penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, con l’obiettivo di garantire l’effettività dell’uguaglianza nell’accesso alle prestazioni sanitarie da parte di cittadini detenuti e di cittadini in stato di libertà.

I principi giuridici contenuti nel decreto risultano in linea con le direttive internazionali che regolano la sanità penitenziaria: tra questi, come anticipato, il principio dell’equivalenza, sancito all’art. 1 (Diritto alla salute dei detenuti e degli internati) del decreto in esame, secondo il quale "I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate" e il Servizio sanitario nazionale garantisce ai detenuti e agli internati "livelli di prestazioni analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi".

Tale principio risulta infatti anche dalla deliberazione approvata dall’ONU nel dicembre 1982 in materia di "Principi di etica medica per il personale sanitario in ordine alla protezione dei detenuti", secondo la quale "Gli esercenti le attività sanitarie (ed in particolare i medici) incaricati di prestare cure a persone detenute o comunque private della libertà, hanno il dovere di proteggerne la salute fisica e mentale, nello stesso modo che li impegna nei confronti delle persone libere".

Secondo tale principio quindi il Servizio sanitario dovrebbe "garantire servizi che siano indifferenti al luogo istituzionale e agli utenti sui quali operano". L’art. 1 del decreto specifica i contenuti del diritto alla salute dei detenuti e degli internati, che si concretano in:

livelli di prestazione analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi;

azioni di protezione, di informazione e di educazione ai fini dello sviluppo della responsabilità individuale e collettiva in materia di salute;

informazioni complete sul proprio stato di salute all’atto dell’ingresso in carcere, durante il periodo di detenzione e all’atto della dimissione in libertà;

interventi di prevenzione, cura e sostegno del disagio psichico e sociale;

l’assistenza sanitaria della gravidanza e della maternità, anche attraverso il potenziamento dei servizi di informazione e dei consultori, nonché appropriate, efficaci ed essenziali prestazioni di prevenzione, diagnosi precoce e cura alle donne detenute e internate;

l’assistenza pediatrica e i servizi di puericultura idonei ad evitare ogni pregiudizio, limite o discriminazione alla equilibrata crescita o allo sviluppo della personalità, in ragione dell’ambiente di vita e di relazione sociale, ai figli delle donne detenute o internate che durante la prima infanzia convivono con le madri negli istituti penitenziari".

Tale riforma ha stabilito una ripartizione di competenze tra Amministrazione penitenziaria e Azienda -unità sanitaria locale nel cui ambito è ubicato un istituto penitenziario, spettando a quest’ultima l’erogazione delle prestazioni sanitarie, e alla prima la tutela della sicurezza dei detenuti e degli internati assistiti.

La distribuzione delle competenze in materia sanitaria è prevista dall’art. 3 (Competenze in materia sanitaria) che attribuisce al Ministero della sanità "le competenze in materia di programmazione, indirizzo e coordinamento del Servizio sanitario nazionale negli istituti penitenziari"; alle Regioni "le competenze in ordine alle funzioni di organizzazione e programmazione dei servizi sanitari regionali negli istituti penitenziari e il controllo sul funzionamento dei servizi medesimi"; alle Aziende - unità sanitarie locali, infine, "la gestione e il controllo dei servizi sanitari negli istituti penitenziari".

L’attuazione della riforma richiamata dall’art. 8 (Trasferimento delle funzioni e fase sperimentale) stabilisce che "A decorrere dallo gennaio 2000 sono trasferite al Servizio sanitario nazionale le funzioni sanitarie svolte dall’Amministrazione penitenziaria con riferimento ai soli settori della prevenzione e dell’assistenza ai detenuti e agli internati tossicodipendenti" e prevede l’attuazione del graduale trasferimento, in forma sperimentale, delle restanti funzioni sanitarie, in almeno tre regioni, che il successivo decreto 20 aprile 2000 (Individuazione delle regioni nelle quali avviare il graduale trasferimento, in forma sperimentale, delle funzioni sanitarie svolte dall’Amministrazione penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. Determinazione della durata della fase sperimentale prevista dall’art. 8, comma 2, del decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230) ha individuato in Toscana, Lazio, Puglia.

La riforma prevede inoltre l’approvazione di un "Progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario", di durata triennale, nel quale siano definiti gli indirizzi alle Regioni, volti a garantire gli obiettivi di salute dei detenuti e degli internati.

Con decreto intern1inisteriale 21 aprile 2000 è stato approvato il "Progetto obiettivo", che anzitutto "individua le aree prioritarie di intervento per la tutela della salute dei detenuti e degli internati, indicando i programmi per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle malattie maggiorn1ente diffuse".

Relativamente alle attività di prevenzione, il "Progetto obiettivo" sottolinea come il carcere possa costituire "causa di rischi aggiuntivi per la salute fisica e psichica dei detenuti, degli internati, e del personale addetto alla sorveglianza e all’assistenza", assumendo il concetto di salute nell’accezione più ampia del tern1ine, ovvero come condizione di benessere fisico, psichico e sociale della persona e dell’intera comunità. Alla luce di tale considerazione viene ribadita la necessità di interventi nei settori dell’alimentazione, dell’igiene e della salubrità dell’ambiente, dello stato delle strutture edilizie, etc.

Per espletare le attività di cura sono individuate sette aree di intervento: la medicina generale, la medicina specialistica, la medicina d’urgenza, l’assistenza ai detenuti tossicodipendenti, l’assistenza sanitaria alle persone immigrate detenute, le patologie infettive, la tutela della salute mentale.

Per la medicina generale è previsto il superamento di un modello basato sul frazionamento degli interventi in favore di un modello all’insegna della continuità terapeutica delle cure interne ed esterne, oltre alla rinnovata previsione della visita medica all’ingresso dell’istituto penitenziario e di visite programmate alle persone detenute che ne facciano richiestaGli interventi di medicina specialistica richiedono la necessità di garantire con immediatezza "gli interventi di tipo specialistico su indicazione e richiesta del medico di medicina generale", all’insegna di una "visione globale del paziente detenuto, anche tramite l’organizzazione di momenti di raccordo e confronto tra le varie figure specialistiche".

Le situazioni di urgenza richiedono l’esigenza di un’integrazione tra le strutture interne e quelle extramurarie a ciò adibite, ma, al contempo, la predisposizione di "adeguate attrezzature che consentano di fronteggiare le urgenze senza dover ricorrere con frequenza all’avvio in luoghi esterni di cura"; tra le ipotesi più frequenti è possibile annoverare gli atti di autolesionismo.

Relativamente alle malattie infettive, che costituiscono come ricordato la patologia più consistente, il Progetto obiettivo sottolinea anzitutto alcuni fattori che concorrono alla loro notevole diffusione, ovvero la presenza di situazioni abitative, alimentari, e comportamentali che facilitano appunto l’acquisizione e diffusione delle malattie infettive, e la eterogeneità della popolazione carceraria, con la conseguente diffusione di patologie spesso non più comuni nel nostro Paese. Dalle segnalazioni risulta che la prevalenza massima di infezioni è determinata da virus dell’epatite non A e da virus dell’HIV, prevalentemente acquisite al di fuori del carcere, ma con possibilità di trasmissione anche all’interno della struttura penitenziaria, per esempio attraverso scambio di siringhe infette, rapporti sessuali, etc.; scabbia, dermatofitosi, pediculosi, epatite A e tubercolosi risultano le malattie più frequenti, prevalentemente acquisite in carcere per trasmissione persona - persona, e le sintomatologie associate ad etiologie infettive sono febbre e diarrea, determinate la prima dalla circolazione di influenza e altre infezioni respiratorie a carattere epidemico, e la seconda da problemi legati all’igiene dell’alimentazione.

Il "Progetto obiettivo per contrastare la diffusione di tali patologie" prevede anzitutto la predisposizione di strumenti di informazione per i detenuti e per il personale, anche al fine di far aumentare la consapevolezza dei rischi di infezione e ridurre i comportamenti a rischio; la creazione di "mappe di rischio per le diverse modalità di trasmissione delle infezioni al fine di sviluppare e di attuare misure di prevenzione efficaci per controllare e ridurre le patologie infettive", analizzando la salubrità e la ventilazione degli ambienti, la densità abitativa delle celle, la disponibilità e idoneità dei servizi igienici alla non trasmissione di infezioni cutanee e a trasmissione oro-fecale, le modalità di preparazione, distribuzione e conservazione degli alimenti; la individuazione di procedure di valutazione dei nuovi ingressi; lo sviluppo di un sistema di sorveglianza a scopo informativo-conoscitivo, etc.

Le misure prospettate in realtà "mettono in discussione l’intera struttura organizzativa dell’istituzione carceraria "quale ambiente di vita organizzata capace di garantire la salute dei detenuti e degli operatori".

Il "Progetto obiettivo" prevede poi che le Aziende Sanitarie Locali nel cui ambito sono ubicati uno o più istituti penitenziari individuino i modelli organizzativi atti ad assicurare il soddisfacimento della domanda di cura di detenuti e internati, e fornisce indicazioni proprio in relazione ai possibili modelli organizzativi da adottare, tenendo in considerazione le dimensioni della popolazione carceraria nei differenti istituti di pena. A prescindere dal modello organizzativo adottato. è ribadito che l’Azienda Sanitaria Locale deve garantire "l’attività assistenziale per l’intero arco della giornata e per tutti i giorni della settimana, attraverso il coordinamento operativo e l’integrazione professionale tra i medici di medicina generale, i medici specialisti ambulatoriali e le strutture operative del Servizio sanitario nazionale".

Il documento in esame ribadisce altresì che il trasferimento dell’assistenza sanitaria negli istituti penitenziari al Servizio Sanitario nazionale consente di "mettere a disposizione dei programmi per la salute dei detenuti e degli internati tutto il potenziale del Servizio sanitario nazionale, dalla ricerca alla sperimentazione, dalla formazione degli operatori alla rete dei servizi territoriali e ospedalieri. dalla prevenzione alla riabilitazione".

Attraverso questa separazione di competenze, il rapporto medico-paziente e la salute del detenuto malato assumono una rilevanza centrale e primaria rispetto alle esigenze di sicurezza. Per effetto della modifica del Titolo V della Costituzione, operata con legge Costituzionale n. 3 del 2001, la competenza in materia sanitaria, e quindi anche quella riguardante la sanità negli istituti penitenziari, appartiene alle regioni: il nuovo art. 117 comma III Cost. prevede infatti la "tutela della salute" come materia di legislazione concorrente, rispetto alla quale cioè la potestà legislativa spetta alle Regioni, con la sola eccezione della determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

La riforma prevista dal Decreto 230 del 1999 ha trovato resistenze piuttosto forti sia, per evidenti motivi, da parte dei medici penitenziario, sia da parte delle strutture sanitarie locali, non interessate all’assunzione di un ulteriore compito, né remunerativo, né di facile organizzazione, quale appunto quello di realizzare una presenza operativa all’interno degli istituti penitenziari attraverso l’istituzione di unità operative e dipartimenti.

La mancanza di un totale consenso all’applicazione della riforma risulta del resto in via evidente dalla formulazione dell’art. 4 (Competenze in materia di sicurezza) del D.Lgs. 230 1999, laddove è prevista la permanenza di "un contingente di personale medico e sanitario da destinare all’Amministrazione penitenziaria", in evidente contro tendenza rispetto alla linea innovativa, che orienta il nuovo riparto di competenze negli istituti di pena.

L’analisi della predisposizione delle misure idonee a garantire il trasferimento di competenze all’interno delle strutture penitenziarie, nelle tre Regioni nelle quali è stata avviata la sperimentazione evidenzia la presenza delle suddette resistenze all’attuazione della riforma. Nella Regione Lazio i rapporti tra le direzioni dei singoli istituti e le strutture sanitarie locali di riferimento sono risultati problematici a causa del disinteresse e dell’inefficienza delle ultime e dell’ingerenza delle prime nella gestione dei problemi sanitari inframurari: per garantire l’autonomia delle strutture sanitarie locali nella gestione del servizio sanitario all’interno degli istituti di pena è necessario, oltre alla predisposizione delle opportune misure organizzative, "un mutamento di tipo culturale e delle relazioni di potere all’interno del carcere".

In relazione alla qualità dell’assistenza sanitaria offerta all’interno degli istituti di pena laziali, sono state rilevate la difficoltà di garantire, negli istituti di piccole-medie dimensioni, un servizio di guardia medica attivo per tutto il corso della giornata, e la difficoltà ad ottenere la disponibilità di medici specialisti non dipendenti dall’Amministrazione penitenziaria sufficientemente motivati e competenti, vista l’esiguità del compenso ministeriale previsto per legge: è risultato inoltre molto esteso il ricorso a strutture sanitarie extramurarie.

La Regione Toscana ha istituito, dal dicembre 1999, un gruppo di lavoro misto tra Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e funzionari del servizio sanitario regionale, con l’intento di realizzare un coordinamento tra gli interventi delle due amministrazioni: la commissione ha poi a sua volta costituito singoli gruppi tecnici di lavoro misti per ciascuno degli istituti penitenziari con compiti di monitoraggio. Tale attività ha portato all’approvazione, nel mese di febbraio 2002, di un Progetto obiettivo sulla sanità penitenziaria che individua, tra gli altri obiettivi. la riorganizzazione del personale e la formazione professionale degli operatori sanitari destinati ad operare nell’ambito di una realtà particolare quale quella esistente all’interno degli istituti di pena.

Anche la situazione presente negli istituti penitenziari della Regione Puglia, che ha mostrato un atteggiamento di sostanziale immobilismo rispetto all’attuazione sperimentale della riforma, non presenta aspetti molto confortanti. Il servizio sanitario penitenziario risulta piuttosto carente a Lecce e a Bari dove la situazione sanitaria è indubbiamente aggravata dalla consistente presenza di detenuti stranieri e dalla conseguente incidenza di patologie relativamente rare nel nostro Paese.

La situazione di non completa attuazione della riforma risulta anche da un.interrogazione parlamentare presentata al Ministro della Giustizia e al Ministro della Salute, allo scopo di conoscere lo stato attuale della riforma sia nelle tre Regioni coinvolte nella sperimentazione, sia nelle altre, che avrebbero comunque dovuto realizzare il passaggio di competenze in materia di tossicodipendenze e di medicina preventiva, e le iniziative previste per attuare tale passaggio definitivo di competenze. e quindi garantire una efficace tutela del diritto alla salute delle persone detenute.

In tale documento sono anzitutto segnalate alcune carenze presenti negli istituti penitenziari delle Regioni interessate dalla fase di sperimentazione. Ad esempio, viene sottolineato come molti detenuti nella casa circondariale di Lecce abbiano lamentato ritardi nell’effettuazione delle analisi di laboratorio e nella somministrazione dei farmaci. soprattutto quelli relativi all’intenzione da HIV: sono inoltre state segnalate carenze sia in riferimento agli strumenti d’intervento per la medicina d’urgenza, sia strutturali, come sale d’attesa per gli utenti in condizioni igieniche e d’arredo inadeguate.

Anche a Bari sono stati riscontrati ritardi nella somministrazione del metadone, con il venir meno della continuità terapeutica: tempi d’attesa per esami di laboratorio e visite specialistiche eccessivamente lunghi: casi di convivenza nella stessa cella di detenuti affetti da tubercolosi e detenuti sieropositivi con altissimo rischio di contagio: barriere architettoniche per i detenuti portatori di handicap fisici.

La Regione Emilia Romagna, seppur non formalmente inserita nella fase di sperimentazione dal decreto 20 aprile 2000, ha istituito una commissione tecnica composta congiuntamente, da un lato, da dirigenti del Provveditorato regionale per l’Amministrazione penitenziaria. direttori e operatori sanitari carcerari, e dall’altro, da dirigenti degli assessorati regionali alla Sanità e alle Politiche sociali. La Commissione ha elaborato un protocollo dal quale risultano i punti critici della sanità penitenziaria regionale e le aree di intervento che dovrebbero essere privilegiate nell’attività di riorganizzazione del servizio sanitario in carcere:

l’accoglienza sanitaria del soggetto appena giunto in carcere dovrebbe prevedere una fase di osservazione della durata massima di sette giorni. nel corso della quale ottenere da parte del neorecluso l’adesione al piano assistenziale proposto;

l’introduzione di mediatori linguistico-culturali nell’assistenza sanitaria ai detenuti stranieri, anche al fine di integrare differenti concezioni di salute;

la formazione specifica del personale sanitario penitenziario per gli interventi di medicina d’urgenza;

la garanzia della disponibilità del servizio di guardia medica per tutto l’arco della giornata.

Differiscono i pareri relativi alla valutazione di tale riorganizzazione della sanità penitenziaria: se da un lato il contano tra le strutture sanitarie locali e la struttura notoriamente chiusa e poco dialogante della sanità penitenziaria consentirebbe a quest’ultima di liberarsi da quelle connotazioni di medicina di serie B che le derivano dall’ambiguo rapporto con le istanze securitarie dell’istituzione totale e che ancora oggi ne appesantiscono le pratiche assistenziali e l’immagine nella nostra cultura sanitaria. Dall’altro vi è la preoccupazione che con il trasferimento di competenze previsto dalla riforma, nella situazione attuale, ovvero in una situazione ancora di carenza di strumenti e risorse necessarie all’attuazione della riforma, i detenuti divengano davvero gli ultimi, curati da persone mandate in carcere controvoglia dalle Asl. Evidentemente la realizzazione piena della riforma della sanità penitenziaria richiede una forte collaborazione tra i soggetti coinvolti in primis nella stessa, ovvero strutture sanitarie locali e strutture carcerarie, e deve essere necessariamente preceduta da un mutamento di tipo culturale e dalla predisposizione di tutti gli strumenti operativi e le risorse economiche volti a garantirne la più efficace attuazione, e quindi l’effettiva equivalenza, nella tutela della salute e nella erogazione delle relative prestazioni, tra cittadini liberi e cittadini detenuti, in conformità con la nostra carta costituzionale che riconosce il bene della salute come "fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività" (art. 32) e la piena uguaglianza formale e sostanziale, attraverso appunto la rimozione degli ostacoli che vi si frappongono, dei cittadini (art. 3).

In realtà, tra il 1999 e il 2002 si è registrata una diminuzione dei fondi per la medicina penitenziaria dell’11. 4% medio pro capire: la spesa per gli specialisti è calata in media del 35.5%, mentre riduzioni minori hanno interessato i farmaci (12.9%), le apparecchiature (10.8%), la guardia medica (8.5%) e 1.assistenza infermieristica (0.2%). Risulta tuttavia necessario precisare che alcune riduzioni sono state determinate da razionalizzazioni: per quanto riguarda i farmaci, per esempio, la minor spesa sarebbe stata determinata dall’introduzione dei generici: in alcune Regioni, inoltre, ai cittadini detenuti sono stati garantiti anche i farmaci di fascia C, a totale carico dei cittadini liberi, e gli antiretrovirali per la terapia anti-HIV. Sulla riduzione del1a spesa per le apparecchiature incide anche la recente apertura in alcuni istituti penitenziari di strutture di assistenza all’HIV e ai disabili, reparti ad hoc e strutture riabilitative.

Alla luce del prospettato passaggio di competenze dall’Amministrazione penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, si sarebbe infatti realizzata una riduzione dei finanziamenti per la sanità penitenziaria nella convinzione di una azione in materia da parte del Servizio Sanitario Nazionale: molte delle strutture sanitarie locali, d’altro canto, aspirando a finanziamenti ben più sostanziosi, hanno scelto una politica attendista. Tali fattori hanno evidentemente contribuito al costituirsi di una situazione non ben definita e quindi indubbiamente non funzionale alla realizzazione di un’efficace tutela della salute dei detenuti. Afferma Libianchi: "da qui ad avere un servizio che peggiora, il passo è breve, ad esclusione di quelle Asl che in assenza di una norma precisa e univoca hanno comunque voluto investire in questo settore tramite assunzioni. progetti e risorse varie".

Il Progetto obiettivo per la tutela della salute prevede che le strutture sanitarie locali predispongano "una ricognizione dei rischi per la tutela della salute in ambito carcerario", nelle carceri di rispettiva competenza, attraverso il coinvolgimento di operatori penitenziari e detenuti. Il recente Piano Sanitario nazionale, approvato con il D.P.R. 23 maggio 2003, non sembra aggiungere nulla di rilevante in proposito, limitandosi a definire come "prioritari" in ambito carcerario i seguenti obiettivi:

attivare programmi di prevenzione primaria per la riduzione del disagio ambientale e rendere disponibili programmi di riabilitazione globale della persona;

attivare programmi per la riduzione dell’incidenza delle malattie infettive fra i detenuti;

migliorare la qualità delle prestazioni di diagnosi. cura e riabilitazione a favore dei detenuti.

Un’interessante inchiesta relativa alla natura e alla qualità delle prestazioni sanitarie erogate alla popolazione detenuta è stata effettuata dal Centro di Documentazione Due Palazzi della Casa di Reclusione di Padova, anche grazie alla collaborazione della Direzione dell’Istituto e dei dirigenti sanitari.

Tale iniziativa, alla quale hanno aderito 420 (62%) delle 680 persone coinvolte, si è svolta attraverso la distribuzione di un questionario anonimo rivolto ai detenuti della Casa di Reclusione di Padova, nel mese di ottobre 2002.

La maggioranza dei soggetti che hanno aderito all’iniziativa, attraverso la compilazione del questionario, è costituita da soggetti italiani non alla prima carcerazione e condannati in via definitiva. Il questionario anonimo relativo alla qualità dell’assistenza sanitaria in carcere predisposto dal Centro di Documentazione Due Palazzi si articola in dieci parti:

Informazioni socio anagrafiche

Ingresso nel carcere dove sei attualmente detenuto

Scioperi della fame e atti di autoaggressività

Rapporti con il personale sanitario del carcere in cui sei detenuto

Uso di farmaci e diete

Ricoveri sanitari

Informazione sanitaria

Il dopo carcere

Domande aperte sui problemi di salute e dell’assistenza sanitaria

Domande riservate ai detenuti che hanno problemi di dipendenza da sostanze

Tale inchiesta ha dunque lo scopo di evidenziare la qualità dell’assistenza sanitaria prestata al soggetto detenuto dal momento dell’ingresso nell’istituto di pena sino alla scarcerazione, sia in termini di tutela preventiva della salute, con riferimento ai momenti dell’informazione, dell’igiene personale delle visite mediche di controllo, sia in relazione agli atti medici terapeutici. al trattamento riservato a particolari reazioni autolesionistiche dei detenuti, al rapporto e alla qualità della comunicazione paziente detenuto-operatore sanitario.

Nella parte relativa all’ingresso in carcere il questionario risulta volto a conoscere proprio il trattamento del detenuto nel momento iniziale della carcerazione, indagando quali generi di prima necessità e materiali informativi (prodotti per l’igiene personale, oggetti di uso domestico, vestiario, opuscoli informativi sulle leggi carcerarie e su aspetti sanitari quali malattie e igiene personale e della cella) gli siano stati consegnati. L’effettuazione della visita d’ingresso, lo svolgimento di altri esami. le modalità di comunicazione dell’esito degli stessi, nonché della presenza di malattia, oltre al sostegno psicologico fornito al detenuto a partire da tale momento.

I dati raccolti attraverso le risposte fornite dai detenuti evidenziano che solo il 17% dei soggetti intervistati ha ricevuto prodotti per l’igiene personale, al momento dell’ingresso in carcere, e addirittura soltanto 28 soggetti (4%) hanno ricevuto opuscoli informativi su aspetti sanitari: il 5% dei detenuti non avrebbe ricevuto alcun tipo di materiale di prima necessità o informativo al momento dell’ingresso nell’istituto di pena.

Per quanto riguarda la visita d’ingresso, 308 (73%) detenuti hanno dichiarato di essere stati visitati il giorno stesso dell’entrata in carcere, 28 (7%) il giorno successivo, 36 (9%) nell’arco di una settimana, mentre 34 (8%) detenuti hanno dichiarato di non essere stati visitati. La maggioranza degli intervistati (59%) ha dichiarato di essere stata inoltre sottoposta ad altri esami (prelievo del sangue, esame delle urine): l’esito di tali esami risulta essere stato prevalentemente comunicato direttamente dal medico (59% dei casi), ma 44 (18%) detenuti hanno conosciuto l’esito degli esami per iscritto, 8 (3%) da un infermiere o da altre persone, mentre 49 (20%) hanno dichiarato di non aver ricevuto alcuna comunicazione in merito all’esito degli esami effettuati.

La comunicazione di eventuali malattie è avvenuta nel 36% dei casi attraverso un colloquio prolungato, nel corso del quale il medico ha fornito anche sostegno psicologico al detenuto malato, nel 41% è stata effettuata dal medico, ma solo in maniera formale: nel 7% dei casi in maniera formale da un infermiere o da altre persone, e addirittura nel 16% dei casi è avvenuta per iscritto: il 73% dei detenuti venuti a conoscenza di una propria patologia a seguito degli esami effettuati all’ingresso in carcere ha dichiarato di non aver ricevuto sufficiente supporto psicologico, al momento della comunicazione della notizia e successivamente.

Nella parte relativa a "Scioperi della fame e atti di autoaggressività" le domande poste ai detenuti sono volte a conoscere i casi di sciopero della fame, atti di autolesionismo, tentativo di suicidio. Almeno il 30% dei detenuti risulta aver fatto almeno uno sciopero della fame nel periodo della contestuale o delle precedenti detenzioni: il 29% risulta aver compiuto atti di autolesionismo (inghiottimento di oggetti o detersivi; ferite da taglio; cucitura delle labbra, etc.) e l’8% ha dichiarato di aver tentato il suicidio all’interno del carcere.

L’attenzione concernente i rapporti tra detenuto e personale sanitario è rivolta soprattutto ad eventuali difficoltà di comunicazione per diversità di lingua, cultura, religione, e alla visita di medico specialista o medico di fiducia proveniente dall’esterno. Il questionario intende quindi accertare la tempestività nello svolgimento delle prestazioni sanitarie, ovvero il tempo atteso per la visita specialistica o per ottenere l’autorizzazione per essere visitato da un medico di fiducia esterno, nonché il tempo atteso per sottoporsi a esami prescritti da effettuarsi in una struttura sanitaria esterna al carcere.

Il 23% dei detenuti stranieri intervistati ha dichiarato di riuscire ad avere una chiara comunicazione con gli operatori sanitari: il 22% ha dichiarato di avere difficoltà di comprensione o di ricorrere all’aiuto di un connazionale: mentre il 55% non ha dato alcuna risposta. Le differenze di cultura e religione risulterebbero fonte di difficoltà per il 20% dei detenuti, ma anche in tale caso un’alta percentuale (45%) di detenuti stranieri non ha fornito risposta. Per quanto riguarda la percezione dell’utente in merito alla qualità del servizio prestato, il 63% degli intervistati dichiara di essere stato poco (31%) o per niente (32%) soddisfatto della prestazione del medico.

Piuttosto lunghi risultano i tempi attesi per la visita da parte di un medico specialista: per essere visitati da un dentista, per esempio, 32 detenuti hanno dovuto attendere non più di sette giorni, 17 detenuti hanno dovuto aspettare quindici giorni, 43 trenta giorni, 32 sessanta giorni, e 86 novanta giorni o più.

Per quanto riguarda l’effettuazione di esami in strutture esterne all’istituto di pena, 17 detenuti hanno dovuto attendere non più di sette giorni, 13 quindici giorni, 45 trenta giorni, 24 sessanta giorni, 59 novanta giorni o più.

Il questionario indaga poi la continuità nella somministrazione di farmaci che il soggetto assumeva prima del suo ingresso in carcere, l’informazione e le modalità dell’informazione relativa alla composizione e agli effetti collaterali dei farmaci prescritti all’interno dell’Istituto, e il trattamento in merito ad una eventuale particolare dieta richiesta dalla malattia del detenuto.

La maggior parte dei detenuti che, prima dell’ingresso in carcere, seguivano una terapia che prevedeva l’impiego di particolari farmaci, ha dichiarato di aver continuato l’assunzione di tali farmaci all’interno dell’istituto o di aver ricevuto altri farmaci equivalenti; il 91% dei detenuti ai quali sono stati prescritti farmaci ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna informazione in relazione alla natura degli stessi. Dati non positivi sono anche quelli raccolti dalle risposte alla domanda "Se la tua malattia prevede una particolare dieta, il problema è stato risolto?": 29 detenuti hanno dichiarato che la dieta viene loro fornita dall’amministrazione, 47 provvedono a proprie spese, e per 69 detenuti il problema non ha trovato soluzione.

L’inchiesta si occupa quindi dei ricoveri effettuati nell’Ospedale Civile o in un Centro Clinico Penitenziario, e dell’eventuale coinvolgimento del detenuto in campagne di informazione per la riduzione dell’uso di psicofarmaci, alcol, sulle malattie infettive, sull’igiene alimentare, sulle malattie sessualmente trasmissibili, etc.

Il 76% dei detenuti ha dichiarato di non essere mai stato ricoverato nel "reparto bunker" dell’Ospedale Civile; l’85% non sarebbe mai stato ricoverato in un Centro Clinico Penitenziario; 43 detenuti risultano essere stati ricoverati in una corsia dell’Ospedale Civile (34 con piantonamento e 9 senza piantonamento); di questi, 13 hanno dichiarato di essere stati assistiti in maniera adeguata durante il ricovero.

In relazione all’informazione sanitaria, dai dati emerge una forte sproporzione tra il coinvolgimento dei detenuti in campagne informative in merito alle più diffuse problematiche sanitarie e l’utilità dagli stessi riconosciuta a tali iniziative: 294 detenuti hanno dichiarato di non essere mai stati coinvolti in campagne informative per la riduzione dell’uso degli psicofarmaci (213 detenuti hanno dichiarato di aver assunto o di assumere durante la detenzione psicofarmaci, come terapia per dormire, antidepressivi, etc.), e 304 pensano che tale iniziativa potrebbe essere utile: 287 detenuti hanno dichiarato di non essere mai stati coinvolti in campagne d’informazione per la riduzione dell’uso di alcol, e 314 ritengono che tale attività d’informazione potrebbe essere utile: 277 detenuti hanno dichiarato di non essere mai stati coinvolti in iniziative volte all’informazione sulle malattie infettive, sull’igiene alimentare e sulle malattie sessualmente trasmissibili, e 324 riconoscono l’utilità che potrebbe invece avere tale campagna informativa.

L’ultima parte del questionario è riservata ai detenuti con problemi di dipendenza da sostanze (235 dei soggetti intervistati hanno dichiarato di aver fatto uso di una qualche sostanza), ed è diretta a conoscere la prosecuzione o l’inizio dell’eventuale terapia metadonica, il tempo atteso prima di ricevere il metadone, l’eventuale presenza di discriminazioni, all’interno del carcere, a causa della condizione di tossicodipendenza, il rispetto del diritto alla riservatezza per i soggetti con infezione da HIV.

Dei soggetti intervistati con dipendenza da sostanze, 41 erano in trattamento metadonico prima di entrare in carcere: 60 hanno usufruito di una terapia metadonica all’ingresso in carcere. Per quanto riguarda il tempo necessario per ricevere il metadone, 23 soggetti dichiarano di averlo ricevuto in giornata, 21 il giorno successivo, 13 hanno dovuto attendere più giorni, mentre 3 detenuti non hanno dato risposta alla domanda.

La maggior parte dei detenuti tossicodipendenti (78%) ritiene che la stessa condizione di tossicodipendenza non sia fonte di discriminazioni all’interno del carcere; per quanto riguarda il diritto alla riservatezza dei soggetti detenuti sieropositivi, secondo 47 soggetti tale diritto non viene rispettato all’interno dell’Istituto, secondo 54 invece ai detenuti sieropositivi è garantito il diritto alla riservatezza; gli altri 95 non hanno risposto alla domanda.

Con la riforma del 1999 è iniziato il graduale passaggio al Servizio sanitario nazionale della medicina penitenziaria: essa prevede lo svolgimento dell’assistenza ai tossicodipendenti direttamente da parte delle strutture sanitarie locali, in ogni Regione. Il 65% dei soggetti interessati da tale ultima parte del questionario risulta non essere a conoscenza di tale passaggio di competenza.

La penultima parte del questionario richiede ai detenuti la descrizione di particolari problemi di salute degli stessi, nonché l’indicazione di suggerimenti per un miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria negli istituti di pena. I detenuti hanno individuato alcune carenze dell’assistenza sanitaria all’interno dell’istituto penitenziario, in particolare con riferimento alla difficoltà di ottenere visite da parte di medici specialisti (un soggetto con problemi ai denti ha lamentato di aver ottenuto l’assistenza di un dentista una sola volta in sei mesi; un soggetto con problemi di gastrite con forti emicranie ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna terapia, né di essere stato sottoposto a visite specialistiche: un detenuto ricoverato nel 1999 per un infarto" ha dichiarato di non aver ricevuto il controllo di un cardiologo nel corso dell’ultimo anno), alla mancanza di informazione relativamente al proprio stato di salute e alle relative prestazioni sanitarie (un soggetto ricoverato nel "reparto bunker" dell’Ospedale in seguito a un’intossicazione ha lamentato di non aver ricevuto alcuna spiegazione da parte dei medici dell’Istituto della propria patologia), alla mancanza della necessaria assistenza psicologica, alla lungaggine dei tempi necessari ad ottenere farmaci e prestazioni che potrebbero definirsi comuni".

I detenuti hanno inoltre manifestato sfiducia nei confronti delle strutture cliniche penitenziarie, considerate "Sanità di serie B", negli operatori sanitari, e denunciato l’indifferenza di questi ultimi.

I suggerimenti forniti dai detenuti intervistati sottolineano ancora una volta le principali lacune dell’assistenza sanitaria in carcere e al contempo i principali settori d’intervento per garantire la realizzazione di una efficace tutela della salute per i soggetti coinvolti nell’esecuzione penale.

I detenuti sottolineano anzitutto la necessaria presenza negli operatori sanitari, oltre che di professionalità, di sensibilità ai problemi di salute delineati dai detenuti e alla condizione degli stessi, disponibilità al dialogo, come momento fondamentale del rapporto medico-paziente. Dalle indicazioni degli intervistati risulta anche l’avvertita esigenza di sensibilizzare i detenuti per un minor uso di psicofarmaci e medicinali, attraverso il coinvolgimento degli stessi in campagne informative e iniziative di educazione sanitaria.

I detenuti suggeriscono inoltre di sveltire le procedure necessarie per l’effettuazione di ricoveri o esami in strutture esterne al carcere, assicurare la presenza di personale medico specialista (essi lamentano la presenza di un solo dentista per un solo giorno la settimana), nonché garantire la disponibilità, nell’infermeria, di farmaci e attrezzature per affrontare diverse patologie.

L’importanza del momento dell’informazione è del resto rilevabile anche al punto 8 (La formazione e l’informazione) del "Progetto obiettivo", che sottolinea la necessaria predisposizione di programmi di educazione sanitaria in tema di droga, alcol, infezione da HIV - AIDS e salute mentale. Nell’ambito della popolazione detenuta, dal momento che "l’informazione su questi temi attraverso un’opera di sensibilizzazione diretta rappresenta un valido strumento di prevenzione".

Dalla situazione degli istituti di pena italiani emerge quindi l’esigenza di garantire una effettiva tutela della salute dei detenuti nelle stesse condizioni in cui essa è garantita ai cittadini liberi, non soltanto attraverso la predisposizione degli strumenti necessari all’esercizio delle particolari prestazioni terapeutiche richieste dal caso di specie, ma anche attraverso un miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria in relazione alla qualità del rapporto operatore sanitario del carcere-detenuto malato, quale rapporto medico-paziente che si caratterizzi per la piena disponibilità e autonomia del primo e per l’informazione e il coinvolgimento del secondo, una delegazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti (CPT), dal 15 marzo al 27 marzo 1992, ha svolto una visita in quattro stabilimenti carcerari italiani: due stabilimenti del complesso penitenziario situato a Rebibbia, il carcere di Regina Coeli a Roma, e il carcere di S. Vittore a Milano.

Gli ispettori hanno avuto un’impressione complessivamente favorevole dello stato dei servizi medici negli stabilimenti visitati, anche se difficoltà a garantire un livello soddisfacente di cure mediche derivano dalle riscontrate condizioni di sovraffollamento, carenze igieniche, e scarsità delle attività offerte ai detenuti.

Secondo la delegazione, gli istituti presentavano una dotazione adeguata di personale medico: il numero degli infermieri qualificati risultava invece limitato, e qualche incombenza infermieristica era svolta da agenti penitenziari, alcuni dei quali avevano ricevuto una preparazione sanitaria specifica. Altre incombenze, quali ad esempio la preparazione di pasti dietetici o la cura di detenuti infermi o comunque costretti a letto, erano invece svolte da detenuti a tal fine remunerati.

Gli ispettori avevano rilevato la garanzia delle cure specialistiche mediante consultazioni all’interno dello stabilimento, o mediante trasferimento in una struttura sanitaria esterna, e l’adeguatezza della possibilità di ricevere cure dentarie, con l’eccezione del carcere di S. Vittore, dove la presenza dell’odontoiatra era assicurata per sole tre mezze giornate la settimana. La delegazione aveva poi rilevato la presenza in ogni istituto di un servizio di guardia medica preposto ai casi d’urgenza e alle visite di ammissione nel corso di tutto l’arco della giornata e le buone condizioni dei locali e delle apparecchiature, sia nelle infermerie centrali che nei centri clinici.

Gli ispettori avevano infine osservato il buon funzionamento del rapporto tra detenuti e operatori sanitari, e le soddisfacenti modalità di svolgimento delle attività di diagnosi e di terapia. La delegazione ha valutato adeguati poi la prassi della visita medica generale all’atto dell’ammissione e dell’esame psicologico, occasione per verificare le condizioni di salute del soggetto e il rischio di suicidio e violenza che il detenuto presenta, e il relativo sistema di registrazione, adottato nei servizi di immatricolazione del carcere di S. Vittore e di Regina Coeli: "Ogni segno di violenza osservato durante la visita medica di ammissione nonché in seguito a qualsiasi episodio violento verificatosi all’interno dello stabilimento - viene annotato da un medico nel registro 99 della sezione, istituito a tale scopo. Il medico redige una constatazione di lesioni traumatiche in cui indica, oltre alla risultanze mediche oggettive, anche il trattamento effettuato (trattamento ambulatoriale, trasferimento nella clinica del carcere, oppure trasferimento in ambiente ospedaliero esterno). Ogni registro 99 viene portato a conoscenza del direttore del carcere e firmato da lui. Estratti del registro 99 possono essere inviati al ministero della Giustizia su decisione del direttore del carcere".

La visita medica di ammissione rappresenta anche occasione per proporre l’effettuazione del test dell’HIV; la delegazione europea aveva sottolineato "l’importanza di un programma continuo di informazione per tutti i detenuti e per il personale carcerario sull’argomento delle malattie infettive (rischi di contagio e mezzi di protezione)", mostrando l’impressione della necessità di miglioramenti, attraverso la promozione di una informazione sistematica dei detenuti, opuscoli di informazione disponibili in varie lingue, etc.

Per fornire un’assistenza sanitaria, capace di garantire una prevenzione efficace, nonché cure adeguate all’interno degli istituti penitenziari, è necessario quindi assicurare l’adozione di efficaci metodi di prevenzione e di diagnosi, e la predisposizione di tutte le misure che consentano il combinato operare di pazienti e operatori sanitari nell’ambito di una strategia di lotta all’insorgenza e alla diffusione di patologie all’interno del carcere.

L’assistenza sanitaria deve inoltre svolgersi all’interno del carcere secondo gli stessi parametri etico-deontologici e giuridici caratterizzanti l’effettuazione di una prestazione sanitaria nei confronti di un cittadino libero. L’attività medica deve svolgersi nel rispetto dell’autonomia del medico e del segreto professionale in merito ad ogni informazione relativa al paziente, e deve fondarsi sul consenso informato di quest’ultimo al trattamento medico, ai fini della costituzione di un rapporto medico-paziente nell’ambito del quale quest’ultimo sia posto, attraverso il momento della comunicazione e dell’informazione, nella posizione di compiere in condizioni di piena fiducia una scelta in merito ai trattamenti liberamente prospettatigli dal sanitario.

Significative sono in proposito le testimonianze di alcuni detenuti che richiedevano "maggior dialogo tra il medico e il paziente", oltre ad una "informazione sanitaria più accurata, anche per convincere la popolazione carceraria a non usare psicofarmaci", e quella di un detenuto che lamentava la presenza di un operatore dell’Amministrazione penitenziaria nel corso dello svolgimento di una visita medica all’interno del carcere: secondo l’intervistato "il medico penitenziario dovrebbe essere una figura autonoma, autorizzata a decidere al di sopra delle parti".

Tali osservazioni manifestano l’avvertita esigenza di una situazione di piena uguaglianza nella tutela del bene della salute, riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico come fondamentale diritto dell’individuo, tra cittadini liberi e cittadini detenuti.

 

L’assistenza ai detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti

 

Secondo i dati ufficiali del Ministero, al 31.12.2000, erano presenti nelle carceri italiane 14.400 tossicodipendenti, pari al 27.23% della popolazione detenuta. Di questi solo 1293 erano in trattamento metadonico. Le persone con problemi di alcoldipendenza erano, invece, 647, pari a poco più dell’1% della popolazione detenuta. Per la maggior parte dei detenuti affetti da dipendenze patologiche il risultato del periodo detentivo dal punto di vista della terapia e della riabilitazione è fallimentare.

Secondo Di Mauro la tossicodipendenza è un fenomeno "che implica un grado di soggettività e valenze talmente connesse agli ambiti sociali, relazionali e familiari che rende il carcere inadeguato al fine di un intervento risolutivo". Dello stesso avviso altri autori, Secondo Poma, gli istituti penitenziari non sono in grado, nella maggior parte, di svolgere una funzione riabilitativa. Anche Sorgi si allinea ed afferma che "chiunque abbia esperienze di tossicodipendenti sa bene che la detenzione non risolve il problema, al massimo lo rimanda nel tempo" e che "occorre impegnarsi per evitare che la condizione carceraria del tossicodipendente da inutile diventi dannosa ed anche letale". Vi è chi definisce il carcere, in merito, un "moltiplicatore di danni".

Alcuni, peraltro, attribuiscono alla carcerazione per i tossicodipendenti una valenza positiva; molte famiglie considerano l’esperienza detentiva come una pausa dopo o durante periodi, più o meno lunghi, di sofferenza; si sentono rassicurate dal fatto di sapere, quantomeno, dove si trova il familiare tossicodipendente e dal fatto che, in carcere, questi non assume, o non dovrebbe assumere, sostanze stupefacenti. Essi sono giunti a definire la carcerazione come un’alternativa a situazioni irrimediabili o comunque molto difficili. Inoltre il periodo di detenzione può essere valutato dall’interessato come "costo non comparabile" rispetto ai benefici della sostanza.

Gli artt. 95 e 96 del D.P.R. 309/90, prevedono la realizzazione di "circuiti penitenziari idonei" per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi per detenuti tossicodipendenti. Per permettere ciò è stato avviato, dal 1991, un progetto di allestimento di presidi sanitari e psicologici specifici per tossicodipendenti nella quasi totalità degli istituti penitenziari. Questa struttura avrebbe potuto dispiegare appieno la propria funzione attraverso la stipula di apposite convenzioni con i Servizi Riabilitazione Tossicodipendenze (Ser.T.); in realtà non poche difficoltà si sono frapposte a tale obiettivo. Secondo quanto stabilito dal D.Lgs. 230 99 l’assistenza dei detenuti tossicodipendenti fa capo direttamente ai Ser.T., ma un problema notevole deriva dal mancato trasferimento delle risorse in tema di tossicodipendenze, ancora nella piena disponibilità del Ministero della Giustizia.

Nella ricerca di Padova citata in precedenza, in tema di assistenza ai tossicodipendenti, alla domanda relativa alla percezione di miglioramenti nella qualità dell’assistenza socio-sanitaria in seguito al suddetto passaggio di competenza soltanto 18 detenuti hanno fornito una risposta affermativa; secondo 96 detenuti non vi è stato alcun cambiamento; per 32 detenuti si sarebbe verificato addirittura un peggioramento della qualità dell’assistenza sanitaria.

In relazione infine al trattamento metadonico, è opportuno segnalare che la percentuale di detenuti in trattamento con metadone nelle carceri italiane (8.9%) è marcatamente inferiore alla percentuale dei detenuti tossicodipendenti. Questo pare essere un dato sensibilmente variabile tra i diversi paesi d’Europa. In Austria e Spagna l’offerta è molto alta; in Belgio, Germania, Irlanda, Olanda, Regno Unito e Italia, al contrario, la fornitura di metadone è piuttosto scarsa. Svezia e Grecia non forniscono metadone in carcere. Generalmente, comunque, nei paesi ove il trattamento sostitutivo è disponibile, chi lo riceve può continuare ad assumerlo anche m carcere.

 

L’assistenza ai detenuti sieropositivi o affetti da AIDS

 

I detenuti sieropositivi presenti in carcere al 31.12.2000 erano 1.459, in maggioranza uomini (1.427) e quasi tutti tossicodipendenti (1.205). L’AIDS fu inserito ufficialmente nell’elenco delle malattie diffusive e infettive con il D.M. 28 novembre 1986; dal 1987 il Ministero di Grazia e Giustizia iniziò la rilevazione dei dati relativi alla diffusione del virus HIV all’interno delle carceri.

La Commissione Nazionale per la lotta all’AIDS ebbe modo di esprimere nel 1989 un giudizio di totale incompatibilità tra i soggetti in malattia conclamata e lo stato di detenzione, dal momento che tali soggetti necessitano di periodici e complessi accertamenti, sia per fornire un’idonea terapia farmacologica, sia per diagnosticare e trattare con tempestività le infezioni "opportunistiche" che, nei soggetti con scarse difese immunitarie, costituiscono un elevato rischio quando ci si trova in ambienti, quale appunto quello penitenziario, che si caratterizzano per le condizioni di vita disagiate e per la promiscuità. Anche per la crescente presenza in carcere di soggetti affetti da HIV, il Governo promulgò il decreto interministeriale 8 giugno 1991, con il quale approvò, tra l’altro, un programma finalizzato alla prevenzione e alla cura dell’AIDS.

Tale programma, alla luce della frequenza e complessità degli accertamenti e delle cure di cui necessitano i soggetti affetti da virus HIV, e considerato il rischio che essi rappresentano per il resto dei detenuti, prevedeva "una stretta e convinta collaborazione delle strutture sanitarie esterne, in particolare delle USL e, nella particolare materia, dei presidi ospedalieri specializzati in malattie infettive. Per la realizzazione del presente programma è necessario ristrutturare le infermerie delle carceri così da creare in molti istituti quanto meno una camera sterile attrezzata per i primi interventi di urgenza su detenuti in AIDS o comunque affetti da gravi infezioni intercorrenti in attesa del loro trasferimento in luogo esterno di cura. È necessario predisporre un nucleo di pronto intervento sanitario e psicologico presso ogni Istituto, salvo poi, in quello di minori dimensioni, attivarlo (per ridurne le spese), quando effettivamente se ne presenti la concreta necessità". La continua diffusione del virus e l’alta concentrazione di malati in carcere costrinsero il legislatore ad adottare provvedimenti il cui scopo era soprattutto quello di far uscire i malati di AIDS ed i sieropositivi dal carcere. Dal punto di vista assistenziale è opportuno ricordare che il D.M. 21 aprile 2000 (Approvazione del progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario), previsto dall’art. 5 del D.Lgs. 230 /99 in ottemperanza al disposto dell’Art. 1 del D.Lgs. 502/1992, statuisce al punto 3.2.6. (Le patologie infettive) una serie di obiettivi specifici:

Predisposizione di strumenti informativi per i detenuti ed il personale penitenziario.

Redazione di mappe di rischio finalizzate allo sviluppo ed attuazione di misure di prevenzione.

Definizione delle procedure standardizzate di valutazione.

Sperimentazione delle procedure di screening per l’identificazione dei soggetti infetti.

Sviluppo di protocolli per l’inquadramento e la gestione delle infezioni/malattie.

Garantire l’accesso ai trattamenti antinfettivi.

Sperimentazione della fattibilità di interventi di immunizzazione primaria e terapie preventive per soggetti già infetti.

Adozione di procedure diagnostiche che consentano di definire la trasmissione infracarceraria delle infezioni.

Sviluppo di un sistema di sorveglianza epidemiologica.

Costruzione di modelli di intervento psico-sociale e comportamentale che aumentino la consapevolezza dei rischi di infezione.

L’assistenza al detenuto sieropositivo esige la necessità negli operatori di una preparazione specifica e della capacità ad instaurare relazioni interpersonali non conflittuali, al fine di evitare reazioni di autolesionismo o di "chiusura " da parte del soggetto. Ciascun individuo deve essere affrontato con la consapevolezza di avere di fronte una situazione mutevole che richiede peculiari modalità di intervento.

Difficoltà derivano dal fatto che molti pazienti rifiutano le cure, associandole alla fase terminale della malattia; dalla frequenza di iniziative volte a simulare o accentuare la gravità di un disturbo al fine di ottenere la sospensione della carcerazione; dal sovraffollamento che provoca nell’amministrazione penitenziaria un costante clima di emergenza; dalla subcultura carceraria che, da un lato, tende a ghettizzare il soggetto tossicodipendente e sieropositivo e, dall’altro, porta ad avvertire il rapporto tra detenuto e agente di polizia penitenziaria in forme conflittuali, atteggiamenti la cui presenza non sarebbe, secondo alcuni, "limitata al settore custodiale"; dalla formazione del personale penitenziario chiamato a gestire gravi problemi, quali quello della tossicodipendenza e dell’AIDS, spesso effettuata da soggetti privi o carenti di una specifica conoscenza della realtà carceraria.

 

L’assistenza ai detenuti stranieri

 

Il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), la circolare 24 marzo 2000, n. 5, contenente indicazioni applicative delle disposizioni in materia sanitaria dello stesso, e soprattutto il D.Lgs. 230/1999 prevedono che la tutela della salute dei detenuti e degli internati di cittadinanza straniera rientri nella competenza del Servizio Sanitario Nazionale; tale normativa dopo aver affermato parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai cittadini liberi, prevede l’iscrizione obbligatoria al SSN di tutti i cittadini stranieri, in possesso o no del permesso di soggiorno, ivi compresi i detenuti in semilibertà o usufruenti di misure alternative alla pena (Art. 1 c. V, D.Lgs. 230/99); i cittadini stranieri in esecuzione penale risultano altresì esclusi dal sistema di compartecipazione alla spesa per le prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale (Art. 1 c. VI, D.Lgs. 230/99).

L’art. 18 (Rimborso delle spese per prestazioni sanitarie) del R.P. conferma tale disposizione e dopo aver vietato alcuna forma di compartecipazione alla spesa per prestazioni sanitarie erogate dal Servizio sanitario nazionale, da parte di detenuti e internati, stabilisce al secondo comma che "I detenuti o internati stranieri, apolidi o senza fissa dimora iscritti al servizio sanitario nazionale, ai sensi della vigente normativa, ricevono l’assistenza sanitaria a carico del servizio sanitario pubblico nel cui territorio ha sede l’istituto di assegnazione del soggetto interessato".

Il "Progetto obiettivo" approvato con decreto 21 aprile 2000 (Approvazione del progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario) individua, tra le principali aree di intervento nell’ambito della sanità penitenziaria, "l’assistenza sanitaria alle persone immigrate detenute". Il decreto premette anzitutto come molti di tali soggetti "vengono a contatto per la prima volta nella loro vita con un sistema sanitario organizzato solo all’ingresso in carcere" e sottolinea l’importanza di un propedeutico momento di conoscenza delle caratteristiche e quindi delle condizioni di salute della popolazione immigrata, ai fini di un efficace intervento migliorativo di tali condizioni.

La Legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), cosiddetta Bossi- Fini, in punto non ha modificato nulla.

Secondo i dati forniti dall’associazione Antigone, dei 55.338 detenuti negli istituti penitenziari italiani a fine maggio 2001, 16.330 erano stranieri, pari al 29,5% del totale. Nel 1995 gli stranieri presenti negli istituti di pena italiani erano 8.334, ovvero il 17,7% della popolazione detenuta. Il consistente e costante aumento della presenza di stranieri in carcere è probabilmente determinato anche dal maggior controllo esercitato nei loro confronti, rispetto ai cittadini italiani, dalle forze dell’ordine, e dalla minor possibilità di accesso per gli stessi alle misure cautelari non detentive e, successivamente, alle misure alternative; è innegabile che un giudice, seppur volenteroso, abbia una certa difficoltà a concedere gli arresti domiciliari o la detenzione domiciliare a chi non ha un domicilio fisso o tantomeno una identità certa.

I dati relativi alla nazionalità della popolazione straniera degli istituti penitenziari italiani alla data del 31 maggio 2001 confermano la preesistente forte presenza di detenuti provenienti dai paesi del Nord Africa (3.597 dal Marocco, 2.083 dalla Tunisia, 1.440 dall’Algeria), dall’Albania (2.717), dalla Jugoslavia (971), dalla Romania (672), dalla Colombia (634), e dalla Nigeria (476), anche se con un evidente aumento per la maggior parte di tali gruppi; un lievissimo calo di presenze si ravvisa per i detenuti provenienti dalla Jugoslavia e dalla Tunisia. La situazione della popolazione detenuta straniera al 31 dicembre 1999 vedeva infatti una presenza di 14.057 soggetti, di cui 4.749 europei, 7.558 africani, 504 asiatici, 6 dall’Oceania, 1.166 dalle Americhe, 74 di nazionalità non rilevata. Le comunità più rappresentate risultano quella albanese (2.104 detenuti: 37 donne, 2.067 uomini), algerina (1.180: 3 donne, 1.177 uomini), jugoslava (1.000: 108 donne, 892 uomini), marocchina (3.096: 23 donne, 3.073 uomini), tunisina (2.148: 17 donne, 2.131 uomini), colombiana (489: 120 donne, 369 uomini), rumena (529: 27 donne, 502 uomini), nigeriana (362: 103 donne, 259 uomini. Dal punto di vista della provenienza geografica, risulta rilevante l’aumento della componente albanese, che nel corso di un anno e mezzo, ha presentato un incremento di circa il 30%. Questa situazione di continua evoluzione determina per l’istituto penitenziario "enormi difficoltà a mettere a punto strumenti adeguati per fare fronte al radicale cambiamento nella composizione della popolazione detenuta"; tale cambiamento richiede infatti il continuo aggiornamento di ogni progetto che preveda il superamento di ostacoli alla comunicazione tra le componenti straniere e il personale degli istituti penitenziari, nonché alla piena informazione di tali detenuti, ai fini della attuazione di una tutela effettiva dei loro diritti in condizione di piena parità con i cittadini italiani detenuti.

La difficoltà nella realizzazione di un’efficace tutela della salute della popolazione immigrata detenuta è determinata da numerosi fattori, tra i quali:

la mancanza di conoscenze sullo stato di salute dei detenuti stranieri;

la carenza di modelli di riferimento di esperienze di prevenzione o studio nella letteratura internazionale;

la carenza di protocolli organizzativi volti a una gestione sanitaria mirata della popolazione detenuta straniera;

l’assenza di formazione specifica del personale sanitario;

la difficoltà di comprensione della lingua, sia da parte dei detenuti stranieri che degli operatori sanitari;

la mancata conoscenza, da parte dell’immigrato detenuto, della disciplina delle attività sanitarie negli istituti penitenziari e delle misure extramurarie offerte dal nostro ordinamento ai soggetti detenuti (ad es., affidamento in prova in casi particolari, arresti domiciliari);

la scarsità di aiuti esterni che realizzino assistenza all’uscita dal carcere;

la frammentarietà e la disomogeneità di strumenti quali sportelli d’ascolto, opuscoli informativi multilingue, etc.;

l’assenza di mediatori culturali.

La problematicità del rapporto detenuto immigrato-personale sanitario penitenziario è indubbiamente determinata da quella difficoltà di comprensione che risulta maggiormente accentuata proprio nell’ambito di un ambiente particolare quale quello carcerario, luogo di restrizione della libertà personale e possibile luogo di ulteriore isolamento per la persona immigrata. Le possibili incomprensioni si situerebbero a cinque livelli:

livello prelinguistico. Tale livello indicherebbe la difficoltà di comunicare le proprie sensazioni interiori, esperienza accentuata congiuntamente dalla tendenza, nella medicina tradizionale occidentale, ad occuparsi della malattia, quale processo conosciuto dalla scienza medica, piuttosto che alle emozioni e ai pensieri propri della percezione soggettiva della malattia da parte del paziente, e dalla possibilità di una diversità di approccio con la propria interiorità in altre culture;

livello linguistico: i fraintendimenti legati ai possibili problemi lessicali e semantici riscontrabili nell’incontro tra due differenti lingue;

livello metalinguistico: la possibile corrispondenza, ad un determinato termine, di significati astratti e simbolici differenti nell’universo mentale rispettivamente dell’operatore sanitario e del paziente può essere fonte di fraintendimenti e incomprensione;

livello culturale: fa riferimento soprattutto ai valori spirituali e ideologici "inconsciamente" assunti dalla persona nel peculiare contesto nel quale è vissuta. Secondo altri, per l’operatore sanitario sarebbe "un’impresa al di sopra delle realistiche possibilità quella di conoscere in modo sufficientemente approfondito i riferimenti culturali di tutti i suoi potenziali pazienti";

livello metaculturale: differenze ideologiche, filosofiche e religiose, possibili fonti di incomprensione.

La difficoltà di comunicazione tra paziente extracomunitario e operatore sanitario occidentale, presente in misura maggiore in un conteso restrittivo quale quello del carcere, è determinata anche dalla differente concezione della malattia, soprattutto in riferimento alle sofferenze psichiche o psicologiche; la malattia è spesso inquadrata in una dimensione molto ampia, coinvolgente ora la natura, ora gli spiriti, ora i demoni e gli dei, ora le stagioni, e soprattutto viene considerata in modo diverso in relazione alla differente considerazione della persona in se e con riferimento alle altre realtà esistenziali.

In tale contesto di difficoltà di comprensione e a maggior ragione nell’ambito di una situazione di vita particolare quale quella all’interno delle strutture carcerarie si colloca l’opportunità del ricorso alla mediazione linguistico-culturale la cui assenza è individuata nel "Progetto obiettivo" tra i principali punti critici relativi all’assistenza sanitaria fornita agli immigrati detenuti.

Anche l’art. 35 R.P. specifica che, tenuto conto delle difficoltà linguistiche e delle differenze culturali dei cittadini stranieri detenuti, risulterebbe opportuno "l’intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato".

Il mediatore linguistico-culturale dovrebbe rappresentare una figura professionale capace di realizzare un collegamento tra paziente immigrato e operatore sanitario, e di consentire il superamento delle difficoltà relazionali caratterizzanti tale rapporto, non soltanto di natura "espressiva " (verbale e corporea), ma anche, appunto, di natura culturale. Anzitutto, "il sapere medico occidentale, positivista per sua stessa definizione, deve colloquiare e farsi capire da soggetti il cui sapere medico è anche ritualità religiosa"; il superamento delle difficoltà relazionali richiede inoltre particolare attenzione alla diversità di percezione della patologia e del corpo, e quindi del dolore: "il corpo stesso viene concepito come un tutto inscindibile, mentre la medicina occidentale rappresenta il corpo frammentato spazialmente; così, se nel mondo occidentale il dolore è sempre localizzato, e generalmente riferito a un preciso organo, i pazienti stranieri, soprattutto africani, parlano di un malessere generale".

L’opportunità della presenza del mediatore linguistico-culturale è prevista nel "Progetto obiettivo" anche in riferimento al momento dell’educazione sanitaria della comunità detenuta in relazione a temi quali droga, alcol, AIDS, e salute mentale.

Il "Progetto obiettivo" sottolinea, infatti, l’importanza di differenziare il momento dell’informazione sanitaria: "I programmi informativi dovranno privilegiare forme differenziate di comunicazione se indirizzate a detenuti italiani o stranieri, tenendo conto delle specifiche esigenze etniche e religiose".

A tal fine, dunque, "è auspicabile la sempre maggiore presenza della figura del mediatore culturale, persona, questa, qualificata, sul piano non solo linguistico ma soprattutto culturale, che consenta di superare le difficoltà nei rapporti con i detenuti provenienti da paesi stranieri".

L’introduzione congiunta della mediazione linguistico-culturale e di campagne di informazione sanitaria agevolerebbe dunque il passaggio da una situazione di accessibilità all’assistenza sanitaria stabilita dalle norme dell’ordinamento giuridico, ad una situazione di effettiva fruibilità della stessa, dipendendo quest’ultima anche dalla "dalla capacità "culturale" dei servizi di adeguare le risposte alle necessità dei nuovi utenti", e consentirebbe il pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione del paziente straniero, e quindi la formazione di un valido, proprio in quanto informato, e libero, consenso all’atto medico da parte dello stesso.

La figura del mediatore culturale risulta in realtà scarsamente presente all’interno degli istituti di pena italiani: secondo i dati forniti dai Provveditorati regionali dell’Amministrazione Penitenziaria e presentati dall’associazione Antigone, soltanto 21 su 146 istituti di pena avrebbero inserito tale figura all’interno del carcere, con formazione peraltro differenziata: in taluni casi il mediatore linguistico-culturale sarebbe un operatore volontario ammesso ai sensi dell’art. 17 O.P., secondo il quale "Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera"; in altri casi, sono la Regione o gli Enti locali a fornire le risorse finanziarie per l’introduzione di tale figura in carcere; in altri casi ancora è il personale già operativo nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria a partecipare a corsi di formazione alla mediazione culturale.

Lo stato di detenzione rappresenta per i soggetti immigrati "la condizione limite dello sradicamento e dell’esclusione", dal momento che nella struttura penitenziaria si esasperano le situazioni di emarginazione vissute nella condizione di libertà.

Gli immigrati si trovano evidentemente in una posizione di inferiorità rispetto agli altri detenuti, a causa della considerata difficoltà di comprensione di una lingua diversa dalla propria e quindi di comunicazione. A tale difficoltà si aggiungono altre condizioni particolari che rendono problematico il rapporto con gli immigrati all’interno del carcere: la difficoltà di identificazione per chi ha smarrito i documenti, la mancanza di rapporti con la famiglia rimasta nel Paese d’origine, il problema della pratica della religione, il non poter rispettare le abitudini alimentari, la difficoltà ad avere l’assistenza legale e a conoscere esattamente la propria posizione giudiziaria; tali elementi costituiscono indubbie barriere di comunicabilità e accrescono quindi l’isolamento del soggetto detenuto straniero e la sua difficoltà ad accedere a quei servizi e prestazioni che, nel rispetto del principio di equivalenza, dovrebbero essergli garantiti in condizioni di piena uguaglianza rispetto ai cittadini italiani detenuti.

La possibilità di un positivo intervento sulle condizioni di salute della popolazione immigrata detenuta richiede quindi, da un lato, la predisposizione di strumenti atti a realizzare un dialogo tra il detenuto straniero e il personale sanitario presente nella struttura carceraria, e dall’altro, la predisposizione e l’attuazione di programmi di conoscenza delle caratteristiche e delle condizioni di salute dei principali gruppi territoriali etnici presenti sul territorio nazionale e di relativa formazione- del personale sanitario operante negli istituti di pena.

Il C.I.D.S.I. (Centro Informazione Detenuti Stranieri in Italia, associazione culturale nata all’interno della Casa di Reclusione di Rebibbia nel 1988), al fine di analizzare la condizione dei detenuti stranieri, ha effettuato nel 1993 una ricerca attraverso l’invio alle direzioni degli istituti penitenziari italiani di questionari da sottoporre all’attenzione dei detenuti stranieri.

I questionari restituiti sono stati 1.476, nel periodo compreso tra gennaio e maggio 1993; un campione pari a circa il 20% della popolazione straniera detenuta nel periodo di riferimento, valutabile intorno alle 7.000 - 7.500 unità.

I dati raccolti hanno consentito di individuare i diversi aspetti di problematicità correlati all’essere straniero all’interno degli istituti di pena, ivi compresi gli aspetti di tossicodipendenza, sieropositività e alcolismo. Alla domanda relativa al livello d’informazione sulle malattie infettive e in particolare sull’AIDS, il 29,3% (432) degli intervistati ha risposto di non aver avuto informazioni durante la detenzione sulla prevenzione dell’AIDS e delle altre malattie infettive, mentre il 29.5% (436) non ha fornito alcuna risposta.

Gli extracomunitari costituiscono una presenza consistente nell’ambito dei detenuti tossicodipendenti; nel periodo compreso tra la fine del 1991 e la fine del 1993, gli extracomunitari tossicodipendenti passavano dal 4.18 % (1.108) al 27.08% (2.104).

Un’altra malattia infettiva frequente tra gli extracomunitari detenuti è la tubercolosi, alla cui insorgenza concorrono: emarginazione sociale, droga, alcol, sieropositività, sovraffollamento degli alloggi, provenienza da zone endemiche, dieta inadeguata, stress fisici e psichici, tendenza a costituire comunità chiuse; fattori la cui concomitanza caratterizza spesso il primo periodo di permanenza in Italia delle persone immigrate. L’ambiente confinante del carcere accresce evidentemente il rischio di contrazione di tale infezione.

Tra le proposte operative attuabili in carcere per contrastare la diffusione della tubercolosi vanno segnalate: test alla tubercolina; rx del torace; vaccinazione antitubercolare; materiale informativo plurilingue; informazione al personale carcerario; all’uscita del carcere: consegna gratuita di eventuali farmaci, segnalazione alle strutture sanitarie esterne, corsi di educazione sanitaria.

In realtà proprio la detenzione può costituire un importante momento di screening e di educazione sanitaria e sensibilizzazione per una riduzione significativa del rischio di patologie importanti quali tossicodipendenza, HIV, epatite e tubercolosi, e quindi l’occasione per un efficace intervento nell’ambito della tutela della salute dei detenuti.

Particolarmente importante, in riferimento alle condizioni della popolazione detenuta extracomunitaria, è il ruolo dello psicologo, la cui attività si esplica nell’osservazione della personalità del detenuto, e al quale è stata attribuita la funzione di curare il "Presidio nuovi giunti", istituito in seguito all’aumento dei suicidi, per individuare possibili situazioni a rischio fra coloro che appena arrestati possono risentire traumaticamente dell’ingresso in carcere.

Le principali misure da predisporre ai fini della realizzazione di un’azione terapeutica globale efficace per la popolazione extracomunitaria all’interno degli istituti penitenziari italiani sono dunque riconducibili alle seguenti:

formazione specifica degli operatori, anche in riferimento alla cultura e alle tradizioni dei paesi interessati;

creazione di banche-dati per la raccolta dei dati statistici relativi alla popolazione detenuta extracomunitaria e relative patologie;

realizzazione di strumenti informativi per gli operatori (letteratura scientifica) e per i detenuti (depliant informativi nelle lingue d’origine).

Del resto, se numerose sono le difficoltà che si frappongono alla realizzazione di interventi terapeutici efficaci verso le persone immigrate (scarsa conoscenza della malattia, difficoltà linguistiche, impreparazione degli operatori sanitari verso una comunicazione trans-culturale, notevole mobilità sul territorio dei migranti, etc.), proprio il carcere "posto come struttura filtro contingente di una certa quota di una popolazione a rischio, può essere considerato quale strumento indiretto per l’analisi ed il controllo sanitario di una popolazione tipicamente elusiva come quella extracomunitaria".

Il carcere, come detto, rappresenta spesso la prima occasione di cura per l’immigrato in condizioni di irregolarità, dal momento che questi, pur avendo diritto all’accessibilità all’assistenza sanitaria (d’urgenza, essenziale, e preventiva), incontra ostacoli all’effettiva fruibilità della stessa nelle medesime condizioni dei cittadini italiani; tuttavia "neppure il carcere garantisce una "presa in carico" sanitaria delle persone che sono detenute, ma si limita ad affrontare e a tentare di risolvere quelle situazioni emergenti o "a rischio" per la salute di tutti".

L’incertezza circa la continuità terapeutica al di fuori del carcere, ovvero circa la prosecuzione di cure iniziate durante la detenzione, è determinata anche dall’assenza di previsioni in merito al trasferimento della documentazione sanitaria del detenuto alle strutture territoriali sanitarie, le quali peraltro spesso richiedono l’indicazione della residenza o comunque di un domicilio effettivo per la "presa in carico" del soggetto.

Dalla citata inchiesta sulla qualità dell’assistenza sanitaria in carcere realizzata dal Centro di Documentazione Due Palazzi della Casa di Reclusione di Padova è risultato che i detenuti riterrebbero utile la consegna, al momento della scarcerazione, di una relazione scritta sulle malattie riscontrate e le cure ricevute durante la detenzione; una parte consistente dei soggetti intervistati ha fatto del resto riferimento al bisogno, nella fase del "dopo carcere", di un concreto sostegno sanitario, da parte dei Ser.T., e psicologico: misure di collegamento e collaborazione tra carcere e strutture socio-sanitarie territoriali locali dovrebbero essere predisposte anche allo scopo di evitare che l’uscita dal carcere rappresenti l’inizio di una nuova fase di abbandono per il soggetto extracomunitario.

La predisposizione di misure adeguate per la realizzazione di una tutela effettiva della salute della popolazione straniera detenuta si impone quindi ormai in modo radicale, ma non solo in quanto essa rappresenta un terzo della popolazione complessivamente detenuta: la distribuzione ineguale sul territorio nazionale e la concentrazione soprattutto negli istituti penitenziari del centro-nord, e soprattutto delle aree metropolitane, comporta che in alcuni istituti di pena la maggior parte dei detenuti sia di nazionalità straniera. Tale situazione richiede necessariamente l’attuazione di un mutamento culturale e operativo per garantire una uguaglianza effettiva tra detenuti italiani e stranieri, attraverso le indicazioni emergenti dalle inchieste effettuate direttamente negli istituti penitenziari, nonché chiaramente espresse nel "Progetto obiettivo".

 

 

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