Sistema penale e tutela della salute

 

Esigenze cautelari e tutela della salute: evoluzione storica

 

Le misure cautelari detentive

Evoluzione storica: il Codice del 1930

 

Le misure cautelari detentive

 

La possibile situazione di contrasto tra le condizioni di salute dell’imputato ed il perdurare dello stato detentivo ha originato un acceso dibattito dottrinale sotto il duplice aspetto giuridico e medico-legale.

La gravità delle condizioni di salute del detenuto in attesa di giudizio durante la fase procedi mentale è stata oggetto di differente considerazione, in relazione alla maggiore o minore rigidità della custodia cautelare ed alla funzione (funzione cautelare tipica e o di prevenzione speciale e generale) ad essa assegnata. La configurazione della custodia cautelare ha subito- a partire dai primi anni Settanta, importanti modificazioni che nel loro complesso divenire hanno condotto ad una sempre maggior considerazione per lo stato di salute dell’imputato soggetto a restrizioni della libertà personale.

 

Evoluzione storica del rapporto tra provvedimenti cautelari e tutela della salute: il Codice del 1930

 

In precedenza le disposizioni del codice di procedura penale del 1930 non contemplavano una compiuta realizzazione del diritto alla salute nei confronti degli imputati detenuti.

Infatti la distinzione tra reati a cattura facoltativa e reati a cattura obbligatoria determinava per il detenuto malato una radicale diversità di trattamento posto che lo stato di salute dell’imputato era del tutto irrilevante nei casi di emissione obbligatoria del mandato di cattura, mentre nelle situazioni di facoltatività le condizioni di salute "particolarmente gravi" erano prese in considerazione al fine di concedere l’arresto provvisorio nella propria abitazione o la sospensione del mandato di cattura.

La giurisprudenza poi riconosceva tra i criteri idonei a legittimare la concessione della libertà provvisoria una limitata rilevanza alle esigenze di salute qualora non vi ostassero la gravità del fatto e le qualità personali dell’imputato purché a tale concessione non si opponesse il divieto derivante dall’obbligatorietà del mandato.

Le possibilità di ricorrere a terapie idonee in stato di libertà pertanto dipendevano non tanto da considerazioni inerenti la gravità e le caratteristiche della malattia, quanto da fattori del tutto estranei alla patologia stessa quali il titolo del reato o le condizioni personali dell’imputato.

Questa palese discriminazione derivava d’altra parte dalla considerazione che, nel vecchio sistema processuale di matrice essenzialmente inquisitoria, la custodia preventiva era la regola, mentre soltanto in presenza di situazioni del tutto eccezionali era concessa la libertà all’imputato.

In questo senso si evidenziava così il contrasto tra un atteggiamento mentale influenzato da secoli di tradizione inquisitoria e la forza innovati va espressa dalla Costituzione che proclamando inviolabile il diritto alla libertà personale, impone di considerare lo status custodiale dell’imputato non come la regola bensì come l’eccezione del nostro processo".

D’altra parte, le stesse definizioni legislative di "carcerazione preventiva" e di "libertà provvisoria". sottolineavano implicitamente il prevalere di istanze ben diverse da quelle di specifica cautela processuale. Tanto è vero che alla base dell’equazione "obbligatorietà della cattura divieto di concessione della libertà provvisoria" di cui al comma I del vecchio art. 277 c.p.p., stavano palesemente, pur non essendo espressamente riconosciute, le esigenze di difesa sociale.

L’intero sistema era basato su una "presunzione di pericolosità dell’imputato di tipo assoluto, non altrimenti giustificabile se non in rapporto alla natura o comunque, all’astratta gravità dell’imputazione".

Conseguentemente la custodia preventiva era automaticamente disposta nei confronti degli indiziati di determinati reati, con l’unico limite della scadenza dei termini di durata massima della stessa, escludendo altresì ogni valutazione del giudice in ordine all’effettiva necessità di privare l’imputato della libertà personale.

Nell’ambito della dottrina medico-legale, al silenzio che dominava l’argomento nella letteratura dell’epoca, faceva eccezione, quale voce isolata, la critica all’eccessivo rigore della carcerazione preventiva da parte di Cavallazzi che sottolineava la necessità di adottare criteri di più ampio respiro rispetto a quelli utilizzati in riferimento alla grave infermità fisica per il differimento di pena detentiva e l’art. 147 c.p. e di ricorrere a "criteri esclusivamente bioantropologici al fine di evitare abusi e sperequazioni".

Il rigido sistema così brevemente descritto subiva una radicale trasformazione a seguito della riforma dell’art. 277 c.p.p. ad opera dell’art. 2 della Legge n. 773 del 15 dicembre 1972, c.d. "Legge Valpreda", in forza della quale il legislatore spezzava l’equazione fondamentale sopra descritta, affidando per la prima volta la concessione della libertà provvisoria alla discrezionalità del giudice, anche nei casi di emissione obbligatoria del mandato di cattura.

L’art. 277 c.p.p., in seguito alla riforma disponeva infatti che all’imputato che si trova nello stato di custodia preventiva può essere conceduta la libertà provvisoria anche nei casi di emissione obbligatoria del mandato di cattura.

Tra i motivi addotti a sostegno della riforma, come sottolineato da Ramaloli c’era proprio l’opportunità di evitare le conseguenze, talvolta aberranti, derivanti dal divieto assoluto di concessione della libertà provvisoria, "stante l’impossibilità per il giudice di vagliare quelle condizioni di opportunità" come i motivi di salute idonee a giustificare, in casi eccezionali il beneficio".

Tuttavia, proseguendo l’indirizzo già consolidato per i casi di facoltatività del beneficio, la giurisprudenza del tempo con feri alle condizioni di salute dell’imputato un valore meramente sussidiario, sì da essere del tutto ininfluente a fronte della gravità del fatto e delle qualità morali del prevenuto. La nuova linea di tendenza introdotta nel 1972 veniva però invertita subito dopo a seguito delle modificazioni introdotte dagli artt. 26 della Legge n. 152 del 1975 c.d. "Legge Reale", e da successive leggi speciali, tra cui la Legge n. 533 del 1977 e la Legge n. 15 del 1980, emanate nell’ambito della c.d. legislazione dell’emergenza.

Queste riforme incidevano in profondità nel sistema, sia ampliando le ipotesi di obbligatorietà del mandato, sia vietando la concessione della libertà provvisoria in un’ampia serie di casi, sia ancora dilatando enormemente i termini massimi di carcerazione preventiva. Ciononostante, il ritorno al passato avveniva con un’importante eccezione proprio in tema di tutela della salute dell’imputato detenuto: infatti, il legislatore del 1975 temperava la previsione di nuovi divieti di concessione della libertà provvisoria, disponendo che, in deroga a tali divieti, la libertà potesse comunque essere concessa in presenza di "condizioni di salute particolarmente gravi che non consentono le cure necessarie nello stato di detenzione" (art. 1, c. IV, Legge 22 maggio 1975, n. 152, Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico.). La scelta di collocare questa disposizione subito dopo l’elencazione dei nuovi divieti, automaticamente derivanti dal titolo del reato o dalle condizioni soggettive dell’imputato, già da sola era indizio di un’apertura dettata da ragioni umanitarie, volte a temperare il rigore delle preclusioni in casi estremi che altrimenti ponevano il sistema in grave imbarazzo.

Tanto è vero che la stessa formulazione dell’art. 2, c. IV, della legge in oggetto veniva poi riconfermata fino a trovare definitiva collocazione nell’art. 277 c.p.p., così come da ultimo modificato dall’art. 8 della Legge n. 398 del 1984. Appunto tale riforma traduceva in principio generale una disposizione che per la sua intrinseca logicità già in precedenza veniva considerata irrinunciabile anche a fronte delle misure più restrittive, con la conseguenza che, nel nuovo sistema, la gravità delle condizioni di salute dell’imputato veniva considerata come eccezione al divieto di concessione della libertà provvisoria, come risultante chiaramente dal testo dello stesso art. 277 c.p.p., che successivamente alla riforma del 1984, prevedeva appunto la concedibilità della libertà provvisoria anche nei casi di cui al comma II, "se trattasi di persona che si trovi in condizioni di salute particolarmente gravi che non consentono le cure necessarie nello stato di detenzione".

Importanti erano le conseguenze di tale mutamento di prospettiva perché la configurazione della rilevanza ostativa delle condizioni di salute dell’imputato, come eccezione ai divieti normalmente operanti. si affiancava. senza eliminarle, alle norme già esistenti che collocavano la valutazione dello stato di salute tra gli elementi che concorrevano alla decisione del giudice quando questa non fosse vincolata a presunzioni assolute di pericolosità.

Proprio per questo motivo il legislatore aveva aggiunto alla generica ed ordinaria nozione delle "condizioni di salute particolarmente gravi", quella speciale di incompatibilità, racchiusa nell’inciso "che non consentono le cure necessarie nello stato di detenzione", sottolineando cosi, l’esistenza di un sistema in cui lo stato di salute dell’imputato era diversamente valutato in relazione alla natura del provvedimento cautelare a cui quest’ultimo era sottoposto.

La giurisprudenza dal canto suo, di fronte alla portata fortemente innovativa dell’eccezione ex art. 277 c.p.p., ultimo comma, ostentava, seppur con rare eccezioni, un atteggiamento palesemente difensivo, di fatti, la Corte Suprema si dimostrava arroccata su interpretazioni di notevole rigore, inevitabilmente tese a limitare le possibilità di applicazione della norma e mostrando, al contrario, di privilegiare criteri che favorissero l’opzione detentiva. Le diverse pronunce palesavano, infatti, nella maggior parte dei casi. un orientamento univoco, monocorde e costante, caratterizzato dall’utilizzo di criteri standardizzati e finanche stereotipati, proprio per cercare di limitare la portata derogatrice della norma, sino ad elaborare il concetto di obiettiva incompatibilità con lo stato detentivo.

La Corte infatti affermava che la normativa introdotta con la Legge 15275, non si discosta sostanzialmente dai fondamentali principi già in precedenza elaborati in tema di custodia preventiva, salvo che per l’unica eccezionale ipotesi costituita dalla valorizzazione delle condizioni di salute del detenuto, che può assurgere ad elemento determinante se le condizioni risultano particolarmente gravi e non consentono le cure necessarie in stato di detenzione. Ancora, con riferimento alla disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 1 della Legge n. 152 del 1975, ribadiva che il legislatore non ha attribuito rilevanza a qualsiasi menomazione dello stato di salute dell’individuo, sia pure cospicua e suscettibile di serie complicazioni. ma ha inteso ovviare a situazioni del tutto eccezionali, come dimostrato dalla possibilità di applicazione della norma anche in casi nei quali la concessione della libertà provvisoria è di regola vietata, e che la deroga al divieto di concessione della libertà provvisoria appare legittimata da situazioni eccezionali.

Il concetto di obiettiva incompatibilità è stato meglio specificato dalla Corte come accertata, obiettiva incompatibilità della natura della malattia rilevata con lo stato di detenzione, non ovviabile neppure con il ricovero in centri clinici al di fuori del carcere, perché, diversamente opinando si darebbe ingresso ad una interpretazione ispirata ad un’inammissibile larga apertura verso situazioni di incompatibilità col regime carcerario del tutto soggettive, prive di attualità e di certezza.

La Corte aveva anche già sottolineato come non si potessero "prendere in considerazione situazioni di mera incompatibilità soggettiva per disturbi e malattie che possono essere adeguatamente curate attraverso l’organizzazione sanitaria esistente presso gli stabilimenti carcerari o anche con trattamento ospedaliero".

Alcuni hanno sottolineato come la ripetuta affermazione del criterio dell’obiettività era un chiaro segnale della difficoltà della Corte nei confronti di una disposizione che in qualche modo potrebbe aprire al giudice gli spazi di discrezionalità negatigli con il sistema delle presunzioni ed è evidentemente volta a precludere la possibilità di un uso distorto della misura anche se il criterio così formulato poteva determinare gravi confusioni, laddove "la nozione di incompatibilità soggettiva venga estesa a situazioni cliniche caratterizzate dalla rilevanza di componenti psicosomatiche o addirittura agli stati morbosi di origine psichica".

Il concetto di estensione della nozione di stato di detenzione, sino a comprendere tutte le forme di ricovero sotto sorveglianza in luogo esterno, così come espressamente previsto dalle norme sull’ordinamento penitenziario, era ribadito dalla Corte con l’affermazione che a legittimare la deroga al divieto della concessione della libertà provvisoria, non basta che i trattamenti sanitari non possano essere praticati all’interno degli istituti di pena dai relativi servizi sanitari, ma occorre un’incompatibilità della somministrazione delle cure con lo stato stesso di detenzione del malato, non eliminabile neppure con il suo trasferimento in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura e similmente che, non è sufficiente l’accertata insussistenza di un’obiettiva incompatibilità del quadro morboso rilevato con lo stato di detenzione in un istituto di pena, anche se particolarmente attrezzato dal lato sanitario, ma occorre altresì l’accertamento della suddetta incompatibilità anche rispetto al ricovero in centri clinici idonei al di fuori dal carcere mediante piantonamento.

La Corte individuava poi un altro criterio limitativo della portata derogatrice della norma, sostenendo che l’accertamento delle condizioni di salute dell’imputato era svincolato dalle formalità e dalle garanzie difensive della perizia.

Lo stesso concetto era ribadito dalla affermazione che l’accertamento medico disposto al fine di valutare l’accoglibilità dell’istanza di libertà provvisoria, anche se espletato con le formalità apparenti di una perizia istruttoria, resta circoscritto nell’ambito di quelle indagini, sia pure di natura tecnica, non aventi il carattere proprio di mezzi di prova" e ancora che 1’indagine medica, rectius perizia, sulle condizioni di salute dell’imputato non è necessaria, ai fini della concessione della libertà provvisoria quando il giudice possa trarre elementi di valutazione dalle risultanze in atti. segnatamente dalla documentazione medica allegata all’istanza.

A tale proposito, però, nonostante la pressoché monocorde impostazione giurisprudenziale, la dottrina predominante del tempo si trovava a contestare le risultanze a cui era pervenuta la Corte, facendo leva proprio sulla necessità di garantire "esigenze di obiettività ed uniformità particolarmente evidenti in una materia dove non sarebbe tollerabile il rinnovarsi di una distinzione tra processo dei ricchi e processo dei poveri", evidenziano la contraddittorietà della esclusione della necessità di ricorrere alle garanzie della perizia.

Sempre secondo l’impostazione dottrinale prevalente, l’interpretazione della S.C. comportava il rischio di disattendere il ripetuto richiamo alla necessità dell’obiettiva gravità delle condizioni di salute dell’imputato, operata dalla stessa Corte ed avente lo scopo di erigere una solida barriera nei confronti di abusi e sperequazioni e di aprire delle crepe nella solidità della barriera stessa, già vacillante più volte di fronte all’eccellenza dell’imputato.

L’orientamento giurisprudenziale di svincolare l’accertamento delle condizioni di salute dalle formalità e dalle garanzie proprie della perizia rischiava allora di minare nelle fondamenta quella obiettività della valutazione che stessa la Corte Suprema si era incaricata più volte di tutelare e che poteva invece risultare rafforzata proprio dalla collegialità delle operazioni peritali.

La Corte di Cassazione affermava altresì che il giudice chiamato a decidere su un’istanza di liberazione provvisoria, qualora ritenga sussistere il presupposto per l’applicazione dell’art. 1 ultimo comma della Legge n. 152 del 1975, non deve prendere in considerazione l’eventuale esistenza di ragioni processua1i ostative, né la probabilità di commissione di nuovi reati che pongano in pericolo le esigenze di tutela della collettività, poiché l’accertamento della particolarità delle condizioni di salute dell’imputato assorbe e rende superflua qualunque previsione sulla pericolosità del suo status libertali, essendo evidente che non può ritenersi pericoloso l’individuo così gravemente malato da non poter essere curato nello stato di detenzione.

Nello stesso senso anche la pronuncia con la quale la Corte ribadiva che, nel medesimo caso, la libertà provvisoria poteva essere concessa, anche se sussistevano controindicazioni in termini di cautele processuali e di esigenze di tutela della collettività. Ampi dissensi furono espressi dalla prevalente dottrina giuridica del tempo, la quale sottolineava come tale orientamento, nonostante la conformità allo spirito delle norme, conduceva a svuotare di ogni contenuto quell’eccezione che tali norme pur consideravano. Il rigoroso riferimento al criterio dell’incompatibilità oggettiva tra la gravità delle condizioni di salute ed il perdurare dello stato detentivo, così come delineato dalla giurisprudenza ed anche dalla letteratura medico-legale, se da una parte ha costituito un passaggio obbligato per una autonoma considerazione della tutela del fattore salute, dall’altro ha finito per relegare in secondo piano il concetto dell’intrinseca gravità delle condizioni di salute.

Infatti, diversamente da quanto avvenuto per le altre condizioni soggettive prese in considerazione dalle disposizioni legislative in esame (persona incinta o che allatta la prole, ultra sessanta cinquenne, tossicodipendente o alcoldipendente, nei casi previsti) la "determinazione dei limiti di rilevanza delle condizioni di salute dell’imputato ammalato, sfugge ad una oggettiva delimitazione preventiva".

Tra le indicazioni giurisprudenziali di scordanti con 1’orientamento dominante e quindi sganciate dal richiamo al concetto di compatibilità, è da segnalare una sentenza della Corte di Cassazione del 1985. Le condizioni di salute particolarmente gravi di cui all’art. 256 c.p.p., non vanno confuse con quelle indicate nell’art. 277 c. IV c.p.p., le quali esigono l’esistenza di un’ulteriore circostanza rappresentata dalla incompatibilità della malattia con lo stato di detenzione, e la loro gravità deve essere tale da un punto di vista soggettivo ed oggettivo, essendovi quindi ricompressi tutti quelli stati morbosi che sono idonei per la loro serietà ed imponenza a pregiudicare notevolmente l’integrità fisica e psichica dell’imputato detenuto, a seguito di una valutazione basata sulle norme di comune esperienza e sulle regole della scienza medica, tenendo conto che le condizioni di salute devono essere prese in considerazione per se stesse, escludendosi ogni motivo di compatibilità con lo stato di detenzione.

Nella sentenza citata la Corte rilevava la differenza tra le condizioni di cui al 256 c.p.p., e del 277 c. IV c.p.p., affermando come ancora una volta si erano confuse le condizioni richieste per la concessione della libertà provvisoria con quelle previste per la misura sostitutiva in esame (nella specie la misura degli arresti domiciliari), che deve pur sempre ritenersi limitativa della libertà personale, anche se in forma più attenuata della custodia cautelare.

La Dottrina medico-legale aveva, dal canto suo, ravvisato una sorta di discrepanza tra le teorizzazioni di principio del rigoroso criterio di incompatibilità e le soluzioni in concreto adottate nella pratica peritale, causata da un criterio rivelatosi troppo restrittivo e non privo di ambiguità, in parte connessa alle incertezze insite nello stesso concetto di "stato di salute".

Già Cavallazzi, circa un ventennio prima, aveva sottolineato come tale concetto fosse suscettibile di disparate interpretazioni e, conseguentemente, di una non uniforme applicazione pratica, donde la necessità di disporre di una comune direttiva, improntata esclusivamente a concetti bioantropologici.

A tale proposito, Nanni e De Sando avevano riconosciuto tra i molteplici fattori connessi alla gravità di un processo patologico, "l’etiologia, la prognosi, il decorso, il pericolo di contagio, la necessità di interventi terapeutici o diagnostici complessi o rischiosi", sottolineando in tal modo il carattere relativistico della gravità di una patologia, suscettibile di esatta definizione soltanto in relazione al parametro di volta in volta adottato.

Precedentemente Pellegrini aveva preso in esame, oltre ai fattori sopracitati, anche la suscettibilità al trattamento terapeutico, l’intensità della sindrome in atto, la presenza di peculiari stati di minor resistenza, l’entità dei postumi prevedibili. Secondo Giusti la gravità dello stato di salute sarebbe stata invece da rapportare alla non suscettibilità di adeguata cura in stato di detenzione. sia pure in attrezzati istituti penitenziari, o in ospedali civili, o in altri luoghi esterni di cura, si che la libertà provvisoria non costituisse un apprezzabile pericolo per gli interessi tutelati con la custodia preventiva.

L’Autore limitava pertanto il campo di applicazione della libertà provvisoria al caso di malattie gravi ad andamento cronicamente evolutivo, nelle quali anche l’aspetto puramente assistenziale potesse garantire un certo benessere al malato in non suscettibile di adeguata terapia in regime di detenzione ed anzi potenzialmente aggravata, nel senso di un’aumentata sofferenza fisica o psichica, dal persistere dello stesso.

Tuttavia, è da tenere presente che la restrittività della previsione legislativa e delle interpretazioni giurisprudenziali dominanti era d’altra parte controbilanciata dall’obbligatorietà delle conseguenze derivanti dall’accertamento.

La rimozione, infatti, del divieto di concessione della libertà provvisoria "portava ad escludere che il giudice, una volta constatata l’obiettiva incompatibilità, potesse tuttavia negare il beneficio sulla scorta di valutazioni processuali o di tutela della collettività, tale proposito però si registrava una sostanziale divergenza tra le posizioni dottrinali e giurisprudenziali. Perché, se le prime intendevano l’obbligatorietà come doverosa conseguenza dell’affermazione di una preminenza, nel caso in specie, del principio di garanzia della tutela della salute sulle altre esigenze che la custodia mirava a soddisfare le seconde facevano discendere le conseguenze dell’accertamento dall’individuazione di un nesso tra gravità della malattia ed esclusione od attenuazione della pericolosità dell’imputato, evitando ogni riferimento ai principi costituzionali, per cui dall’accertamento consegue una presunzione di non pericolosità che escludeva ogni valutazione contraria.

In questo modo comunque l’elemento delle condizioni di salute dell’imputato da criterio sussidiario assurgeva alla dignità di criterio principale da solo legittimante la concessione del beneficio della libertà provvisoria.

La nozione di incompatibilità nonostante i limiti evidenziati rappresentava un passo decisivo verso il pieno riconoscimento della tutela della salute dell’imputato durante il processo. Inoltre, dal riconoscimento dell’incompatibilità derivava la configurazione di un diritto soggettivo pieno ad ottenere il beneficio e di un correlativo dovere per l’autorità giudiziaria procedente di concederlo.

Il percorso evolutivo verso il riconoscimento di tale diritto raggiunse così un traguardo importante nella configurazione di misure alternative alla custodia per la tutela delle finalità processuali.

Infatti, con la Legge n. 532 del 1982 era stata introdotta la prima disciplina degli arresti domiciliari, in seguito modificata con la Legge n. 398 del 1984, secondo la quale gli stessi potevano essere concessi anche nel caso di mandato di cattura obbligatorio, se appariva evidente che non sussistesse pericolo di fuga o pericolo per l’acquisizione delle prove o che l’imputato non fosse pericoloso, mentre dovevano comunque applicarsi (con esclusione quindi di qualsiasi discrezione da parte del giudice), tranne che vi ostassero le ragioni cautelari, oltre che nei casi speciali (donna incinta o che allatta la prole: ultra sessanta cinquenni e in fra diciottenni), anche nel caso di persona che versasse in condizioni di salute particolarmente gravi.

Relativamente a quest’ultima ipotesi, quindi, il legislatore ritornava alla nozione primigenia della considerazione dello stato di salute, senza accompagnarla alla previsione dell’incompatibilità, con la quale d’altra parte la stessa non va confusa.

La giurisprudenza consolidata in materia di concessione di arresti domiciliari riteneva sufficiente una particolarità gravità delle condizioni di salute, senza richiedere una incompatibilità delle stesse con lo stato di detenzione. posto che .’le condizioni particolarmente gravi - legittimanti tali misure - non vanno confuse con quelle aventi rilevanza ai fini della concessione della libertà provvisoria, ma dovevano essere valutate di per se, nella loro intrinseca gravità. senza alcun collegamento col criterio della compatibilità dello stato detentivo.

La differente interpretazione del comma III, lettera h) dell’art. 254 bis c.p.p., rispetto a quella dell’ultimo comma dell’art. 277 c.p.p. in tema di libertà provvisoria, era basata su diverse considerazioni, prima tra tutte quella relativa al fatto che in quest’ultima ipotesi la particolare gravità delle condizioni di salute, tale da rendere incompatibile lo stato detentivo, comportava la concessione della libertà provvisoria indipendentemente dal sussistere di esigenze cautelari processuali, comunque superabili a causa dell’estrema gravità della malattia.

Nell’ipotesi di cui all’art. 254-his c.p.p., invece, la previsione della doverosa concessione degli arresti domiciliari per le condizioni di salute incontrava un limite proprio nella sussistenza di una ragione cautelare ostativa, posto che lo stato di salute ancorché grave non era sufficiente a far prevalere la sua tutela su ogni altra considerazione.

La nuova previsione di cui all’art. 254 bis c.p.p., si collocava allora in un’area che tanto il codice Rocco, quanto la legislazione dell’emergenza avevano lasciato priva di ogni tutela. Finalmente trovava riconoscimento il caso dell’imputato detenuto per un reato che comportava il divieto di concessione della libertà provvisoria, nell’ipotesi in cui egli si fosse trovato in condizioni di salute particolarmente gravi, ma non tali da determinare uno stato di obiettiva incompatibilità con la detenzione.

Quest’ultima condizione veniva così equiparata, quanto ai presupposti per la concessione della misura, a quella dell’imputato egualmente infermo ma soggetto a carcerazione facoltativa. Tanto è vero che l’accertamento delle condizioni di salute particolarmente gravi, comportava il sorgere di un diritto all’attenuazione delle restrizioni solo quando non vi ostassero ragioni cautelari legittimanti l’imposizione della custodia cautelare in carcere. Diverse erano invece le conseguenze derivanti dall’accertamento nel caso dell’imputato in custodia obbligatoria, posto che la presunzione di pericolosità su di lui gravante manteneva la sua forza, seppur attenuata, in relazione all’ampliamento della gamma di soluzioni a disposizione del giudice.

Le condizioni di salute fisica entravano quindi in gioco nella scelta della misura cautelare, con la previsione di una scelta preferenziale a favore degli arresti domiciliari, tale da configurare una sorta di presunzione di minor pericolosità dell’imputato gravemente ammalato, per superare la quale il giudice doveva sottostare ad un particolare onere di dimostrazione della necessità del carcere.

L’introduzione della misura degli arresti domicili ari non andava tuttavia ad intaccare i cardini del sistema, posto che il livello di gravità della malattia richiesto per l’accesso ai benefici continuava ad essere differenziato, in ragione non già di elementi obiettivi e clinicamente rilevabili, ma di considerazioni legate alla natura dei provvedimenti cautelari e delle connesse graduazioni dell’intensità del periculum libertatis che il giudice era tenuto a valutare.

 

 

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