Sistema penale e tutela della salute

 

Tutela del benessere in carcere

 

Autolesività in carcere

Il problema dell’affettività

Sessualità e detenzione

La relazione genitori - figli

 

Autolesività in carcere

 

Lo stato di detenzione non può prescindere da sofferenze e disagi psichici e fisici: tali sofferenze nascono dalla involontaria privazione della libertà e dalla limitazione del modo di essere del soggetto ristretto, e esisterebbero anche in presenza di un sistema penitenziario in grado di tutelare la salute dell’individuo ed ogni suo fondamentale diritto. La difficoltà di adattamento del detenuto all’ambiente carcerario, soprattutto durante la prima detenzione e nel periodo iniziale della stessa, produce come conseguenza gesti autolesivi, presenti e diffusi nel contesto carcerario.

L’autolesionismo rappresenta la modalità più pericolosa e di sicuro richiamo attraverso la quale il detenuto tenta di ottenere indebitamente dei vantaggi: l’individuo trasferisce il suo bisogno da un piano comportamentale quasi di remissione ad un vero e proprio rapporto conflittuale verso l’istituzione attraverso un esemplare ricatto.

Anche in questo caso, tuttavia, la valutazione non è mai univoca: il gesto può, infatti, rappresentare semplicemente un atto istintivo di protesta ma anche il sintomo di una latente patologia psichica di matrice carceraria. La scelta della lesione del proprio corpo, quale strumento di manipolazione degli operatori, rivela comunque la presenza di un potenziale aggressivo che non può restare inosservato. Quando il rischio di tali episodi è elevato, la predisposizione di una sorveglianza particolare del soggetto si rivela assolutamente necessaria: spesso gli atti di estrinsecazione possono essere eccessivi rispetto alle intenzioni, oppure da semplice manifestazione di richiamo, il gesto lesivo può degenerare fino al moto suicidiario.

Evidente e costante è la preoccupazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel sollecitare il massimo impegno degli operatori, ciascuno secondo le proprie competenze, per prevenire il verificarsi di suicidi e di atti di autolesionismo, rimuovendone, per quanto possibile, le cause, ed impedendone l’esecuzione.

Le modalità lesionistiche riguardano soprattutto l’ingestione di corpi estranei, i tagli multipli e anche la scelta di non alimentarsi (sciopero della fame). Il detenuto utilizza come strumenti per compiere il gesto tutto ciò che riesce a trovare nella sua cella, come: chiodi, chiavi, viti, spilli, spazzolini, manici di cucchiai, forchette, piccoli coltelli, pile, lampadine, molle delle reti del letto, pezzi di vetro, tagliaunghie. L’utilizzo di questi oggetti spesso viene premeditato e portato a compimento attraverso cautele che impediscono al corpo estraneo di causare danni maggiori, rivelando cosi l’intenzione di mirare al vantaggio senza correre rischi letali: per evitare gravi emorragie, per esempio, il detenuto ha cura di rivestire la lametta con della mollica di pane.

Il suicidio è tendenzialmente più frequente tra i maschi e l’età più a rischio è compresa tra i 31 ed i 50 anni. L’età in cui si riscontrano maggiori tentativi di suicidio è compresa tra i 21 ed i 40 anni. La maggior parte dei suicidi è posta in essere da detenuti in attesa del primo giudizio e durante i primi tre mesi di carcerazione, mediante impiccagioni, soffocamenti e ferite da taglio, indistintamente in celle singole o comuni. Occorre ricordare come non necessariamente sussista una correlazione tra gesto suicida e malattia mentale: anzi, nella maggior parte dei casi non è riscontrabile l’esistenza di una malattia mentale che abbia indotto il soggetto al gesto autolesivo. Il rischio suicidiario appare quindi più marcato nell’immediatezza dell’arresto o dell’inizio dell’esecuzione; il soggetto alla prima detenzione o in attesa di giudizio si trova infatti in una difficile situazione, e quanto più l’adattamento è difficoltoso, tanto più alto è il rischio suicidiario. A conforto di quest’affermazione la diminuzione di suicidi con l’aumentare del tempo di detenzione trascorso.

Il suicidio spesso rappresenta una via di fuga definitiva da una situazione non altrimenti tollerabile. Il tentato suicidio denota invece una finalità per lo più volta ad ottenere attenzione, non deve però essere sottovalutato in quanto rimane comunque una manifestazione di disagio a cui è necessario porre rimedio. Se talvolta la spontanea ricerca della morte può essere un fatto "inevitabile" (tanto in carcere quanto nella società in genere), l’istituzione carceraria non può in alcun modo essere fonte di tali gesti, per questo appare necessaria l’attuazione rigorosa dell’ordinamento penitenziario nella sua parte volta alla tutela dei diritti dei detenuti, con riguardo sia alla salute fisica e mentale sia alle possibilità di relazionamento interpersonale e sociale.

 

Il problema dell’affettività

 

Il carcere non è solo privazione della libertà, è anche condizionamento psichico e fisico. Il tema dell’affettività in carcere merita grande rispetto e attenzione: lo sradicamento dalla famiglia, la solitudine, la lontananza dagli affetti, la perdita del proprio ruolo coniugale o genitoriale e la necessità di tenere soffocato, o comunque di dover deviare, il proprio desiderio sessuale, rappresentano per la maggioranza dei reclusi gli elementi più afflittivi della detenzione, con conseguenze drammatiche sia a livello individuale, per ciò che riguarda il grado di prisonizzazione, sia sul piano collettivo, per ciò che riguarda la stessa sicurezza sociale.

La detenzione non può non tutelare adeguatamente le dinamiche familiari ed affettive ai fini dell’effettivo reinserimento sociale del condannato, perché mantenendole si riduce il senso di abbandono di chi è recluso. La tutela dell’affettività in carcere, compreso l’esercizio della sessualità, è da ascriversi nel novero dei diritti inviolabili della persona; l’espressione delle relazioni sociali e affettive costituisce un elemento fondativo dell’identità di ognuno, e pertanto devono essere tutelati in qualità di insopprimibile fattore della dignità umana.

Qualsiasi violazione/negazione di questi diritti, oltre che peggiorare le già precarie condizioni di vivibilità del carcere si pone in contrasto con il nostro dettato costituzionale. La situazione tuttavia è molto diversa; la normativa penitenziaria, pur riconoscendo il valore dei rapporti affettivi sui quali dovrebbe fondarsi lo stesso trattamento rieducativo, in realtà non garantisce la tutela e l’esercizio di relazioni, spazi, opportunità legate all’affettività. La pena detentiva, nelle condizioni e nelle strutture in cui ha luogo oggi nel nostro paese, risulta ostativa, invece che favorire il reinserimento del detenuto. Non si può non pensare che in una persona detenuta, se emarginata, il sentimento di abbandono può innescare un meccanismo di reazione, di risentimento verso il mondo esterno che influenzerà, inevitabilmente, la sua condotta futura, inserendovi un alto rischio di recidiva.

Il carcere, nell’assenza di stimoli ed opportunità, diviene cosi promotore di nuova criminalità: se l’insicurezza arriva da chi commette reati, è evidente che il detenuto privato di sostegno e prospettiva rimarrà fonte di insicurezza. Nei detenuti troviamo assai frequentemente caratteristiche psico-sociali aventi un ruolo criminogeno, quali il ricovero in istituti durante l’infanzia o l’adolescenza; l’appartenenza a famiglie disgregate, inserite in gruppi socialmente emarginati; la carenza di sviluppo psico-sociale dovuto a disadattamento scolastico, la precocità di avviamento lavorativo, la provenienza da aree urbane contrassegnate da elevati tassi di criminalità; la presenza di manifestazioni di irregolarità comportamentale, anche di rilevanza penale, in età evolutiva.

Appare necessario quindi, uno sforzo di politica criminale per contrastare tali fattori tristemente predittivi, nella consapevolezza che la gestione dell’affettività in carcere costituisce una risposta anche al problema della sicurezza sociale. Considerato il livello attuale di attenzione verso tale tema, l’intervento durante la fase dell’esecuzione penale, e quindi anche sul recupero degli affetti dovrebbe apparire un passo obbligato. In questa prospettiva, il trattamento rieducativo non può che essere inteso come azione finalizzata alla risocializzazione, come aiuto perché il detenuto impari a gestire correttamente i ruoli sociali che gli competono.

La normativa penitenziaria, come già rilevato, attribuisce al mantenimento delle relazioni affettive notevole importanza nel percorso di reinserimento sociale del reo, configurandolo come uno degli elementi del trattamento risocializzativo: l’art. 15 O.P. "Elementi del trattamento" prescrive lo svolgimento del trattamento inframurale "avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia".

La Legge 354/75 non ha compendiato la cosiddetta "ideologia del trattamento", in contrapposizione alla concezione prevalentemente retributiva della pena, ma ha avviato un processo di trasformazione culturale: il detenuto viene considerato per la prima volta come "persona". dotata di bisogni ed esigenze specifiche. Il recupero sociale del reo è divenuto la finalità primaria dell’ordinamento penitenziario in attuazione del dettato costituzionale: la riforma, per raggiungere tale obiettivo, ha introdotto il concetto di "individualizzazione", che tiene conto della personalità del soggetto recluso. Il trattamento diviene cosi, "conforme ad umanità, tale da assicurare il rispetto della dignità della persona" e tendere anche attraverso "i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento delle persone detenute".

"Per quanto la cosa possa apparire illegittima, il detenuto ha bisogno che siano soddisfatte non solo le sue necessità vitali, ma anche la sua esigenza di avere una vita ragionevolmente ricca di aspetti gradevoli". In questo quadro, una delle novità più significative consiste nella valorizzazione dei rapporti con la famiglia quale elemento del trattamento. L’art. 28 O.P. ("Rapporti con la famiglia") prescrive che particolare cura sia "dedicata a mantenere, migliorare o stabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie"; tale obiettivo viene perseguito attraverso contatti sia presso i familiari, sia presso i detenuti, oppure in momenti di compartecipazione, insieme anche agli operatori.

La Legge 10 ottobre 1986, n. 663 ha introdotto la forma di contatto più diretta che i detenuti possano avere con i loro familiari, mediante le misure alternative alla detenzione: ricordiamo in particolare fra di esse l’istituto dei permessi premio, disciplinato dall’art. 30 ter O.P.

La legge penitenziaria teoricamente garantisce quindi un corretto esercizio delle relazioni affettive e il nuovo Regolamento Penitenziario, il D.P.R. 2302000, conferma la priorità della gestione delle relazioni affettive quale elemento fondamentale del trattamento rieducativo. Il R.P. infatti prevede un’offerta di "interventi per sostenere gli interessi umani, culturali e professionali del detenuto, al fine di promuovere il mutamento delle condizioni e degli atteggiamenti personali, delle relazioni familiari e sociali che sono d’ostacolo ad una partecipazione sociale costruttiva". Nel D.P.R. 230/00 sono state anzi apportate alcune modifiche in tema di rapporti e corrispondenza epistolare e telefonica, in base alla considerazione che "un più frequente ed intenso contatto dei reclusi con le persone di riferimento all’esterno, particolarmente i familiari, può avere soltanto effetti positivi: il rafforzamento o almeno il contrasto all’indebolimento delle relazioni con la famiglia, il contenimento dell’effetto di isolamento della persona prodotto dalla reclusione, la riduzione delle tensioni dei detenuti e internati all’interno degli istituti". Non possiamo esimerci dall’affermare che, nonostante i buoni propositi del legislatore, gli obiettivi prefissati, nella nostra odierna realtà carceraria, non possono essere facilmente raggiunti.

 

Sessualità e detenzione

 

Negli istituti di pena esiste il grave problema della sessualità. Il detenuto, già provato dallo stato di detenzione viene ad essere "simbolicamente castrato dal suo celibato involontario". La pratica dell’autoerotismo, in cui l’immaginazione cerca di sostituire lo spazio vuoto dell’affettività, è pressoché automatica: essa si avvale il più delle volte di materiale pornografico, soprattutto dopo che il trascorrere del tempo cancella le memorie sensoriali del proprio vissuto erotico: più raramente si fa uso di soli scritti erotici.

Dal III Rapporto Eurispes sulla pornografia risulta che tale consumo si verifica, in particolare, nel caso di persone che vivono in condizioni di isolamento, con scarse possibilità di rapportarsi con l’altro sesso. La pornografia diventa il mezzo di sostituzione temporanea del rapporto eterosessuale.

Nel contesto carcerario appare riduttivo parlare di mercificazione della donna: "L’immagine del corpo femminile evoca il desiderio di corpi aggraziati, è la terra promessa, il rifugio, la valle fertile che forse non si raggiungerà mai più".

Una recente sentenza della Corte Costituzionale (26/1999) ha stabilito che "devono essere salvaguardati quei diritti non temporaneamente compressi per effetto della pena"; curiosamente la fattispecie riguardava il diritto di un detenuto a ricevere stampa la cui vendita sia autorizzata per i cittadini liberi, in base all’art. 18 comma VI O.P. ivi compresa, quindi, la stampa pornografica ("I detenuti e gli internati sono autorizzati a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno e ad avvalersi di altri mezzi di informazione").

Certamente la sessualità coatta rischia di generare effetti depravati, quali la ricerca di surrogati, l’ideazione di situazioni oscene e violente, la violenza omosessuale, slatentizzando atti di aggressività auto o etero-diretta. Gesti eclatanti come la cucitura delle labbra e degli organi sessuali costituiscono una nota e drammatica risposta alla carenza di relazioni sessuali ed esigenza estrema di affermare la propria identità. Può anche accadere che la sessualità inibita arrivi a condizionare tutta la vita del detenuto in senso erotogeno: l’autoerotismo, da iniziale risposta adattiva si trasforma in una ossessione.

L’omosessualità, dal canto suo, appare come un effetto dell’adattamento al contesto carcerario: il detenuto privo di scambio affettivo eterosessuale, organizza le proprie strategie di adattamento - non sempre coscienti - secondo i codici ambientali più adeguati al contesto. Ciò mette a repentaglio l’identità individuale e sociale del soggetto. Nella detenzione femminile, la situazione appare diversa. Ceraudo sostiene che le donne non hanno la stessa ansia o tensione degli uomini per la privazione sessuale, in quanto più orientate a vedere il sesso in funzione dell’amore, e non viceversa. Ciò non significa che le donne detenute non soffrano le conseguenze della detenzione sul proprio corpo che, inevitabilmente, somatizza il suo malessere: il flusso mestruale, dopo i primi mesi, spesso s’interrompe "come se una pulsione di aggressività spingesse a non identificare la natura femminile con il corpo", a negare la propria fisicità. In stato di segregazione i sistemi neuro-ormonali di regolazione vengono ostacolati e sono molto lenti nel riadattarsi: si perde la ciclicità, si sconvolge il tempo fisiologico, compaiono oligomenorree e polimenorree. L’impotenza si esprime in crisi d’ansia e di angoscia, che insorgono la sera, dopo la chiusura delle celle e che passano con la somministrazione di farmaci e ansiolitici. La reazione tipica femminile al processo di destrutturazione compiuto dall’istituzione totale consiste invece nell’individuazione e gestione di piccoli spazi di intimità. Il lesbismo in genere non costituisce motivo di disordine organizzativo, sostanziandosi per lo più in una relazione che ha, infatti, componenti quasi sempre affettive ed intime.

 

La relazione genitori – figli

 

Sappiamo come i legami affettivi sviluppati nel proprio ambiente familiare e sociale svolgano un ruolo insostituibile per lo sviluppo armonioso ed equilibrato del bambino, condizionando la sua futura vita di adulto; a livello internazionale il diritto al mantenimento della relazione genitore figlio, indipendentemente dalle esigenze di esecuzione della pena, è fortemente propugnato.

L’art. 9 della Convenzione Internazionale sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989), ratificata in Italia con la Legge 27 maggio 1991, n. 176, stabilisce che "gli Stati rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di intrattenere regolari rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo". La Carta europea dei diritti del fanciullo (1992) conferma che: "Ogni fanciullo i cui genitori, o uno di essi, si trovino a scontare una pena detentiva, deve poter mantenere con essi gli adeguati contatti; i fanciulli in tenere età che convivono con la madre nelle carceri devono potersi avvalere di infrastrutture e cure adeguate" (art. 8.15).

L’affermazione delle responsabilità dei genitori, con riferimento alle loro vicende processuali, non può prescindere dal ricordare che i figli non hanno alcun ruolo in tali vicende e come tali vanno considerati e trattati. Il mantenimento del legame genitore/figlio soddisfa una duplice esigenza. Da un lato consente al bambino di costruire la sua identità, dall’altro per il genitore è fonte di una risorsa socializzante di eccezionale valore; un figlio inoltre può essere matrice di nuove risorse affettive, di disponibilità al cambiamento e all’assunzione di responsabilità.

Tale relazione va quindi riconosciuta quale diritto fondamentale del bambino e quale diritto-dovere del genitore, affinché il suo allontanamento dovuto allo stato detentivo non porti ad una rottura che comprometterebbe lo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale del figlio: è indispensabile garantire al bambino la continuità dei rapporti con i propri affetti perché egli non può crescere senza una relazione parentale fondante.

Purtroppo, dobbiamo ricordare ancora una volta come la realtà del carcere sia molto diversa, evidenziando la già citata difficoltà di realizzazione degli obiettivi prefissati. Come già rilevato, la detenzione costituisce spesso un fattore fortemente disadattivo a carico dei figli che vivono in famiglie spesso socialmente isolate e disgregate. La carcerazione di un genitore comporta frequentemente un disorientamento, perdita dell’equilibrio psichico e pregiudizio per la identità personale del bambino.

Secondo Sacerdote, in Europa vi sarebbero 800.000 bambini di genitori detenuti, dei quali 43.000 italiani; il 30% di essi avrebbe un destino di carcere assicurato da tale condizione.

Gli effetti più gravi della detenzione dei genitori si riversano sui figli: manifestazioni di irrequietezza odi aggressività sul piano comportamentale, disadattamento scolastico e lavorativo e, talvolta, condotte devianti costituiscono il sintomo dell’inferenza negativa della carcerazione genitoriale sullo sviluppo di una personalità in età evolutiva. Una risorsa per il minore, in caso di separazione dovuta alla detenzione di un genitore, è la capacità di quest’ultimo di rassicurare, sostenere e supportare il bambino. Assai più traumatica risulterebbe la assenza causata da detenzione se accompagnata da silenzi, omissioni, menzogne su quanto sta accadendo. Per sostenere questa relazione appare più opportuno non nascondere la verità sulla condizione del genitore detenuto, favorendo invece il contatto seppure nella difficile forma del colloquio in carcere.

La misconoscenza della verità, rischia infatti di generare ulteriori ansie, fantasie e paure che non possono non turbare il sereno sviluppo della personalità. Se il fenomeno di sparizione è rilevante per i padri detenuti, in quanto essi non si allontanano solo dal figlio, ma anche dalla rete sociale di riferimento, come la scuola, i servizi sociali, e ciò comporta per il bambino la perdita di punti di riferimento, quando il genitore detenuto è la madre la situazione appare francamente drammatica. Tale separazione può determinare "una paura di abbandono e di perdita così forte che non sembrano sufficienti le rassicurazioni della stessa madre e degli operatori".

Il mantenimento e la valorizzazione dei legami personali e fra questi, in particolare, della relazione genitori/figli, costituiscono un elemento fondamentale per il reinserimento nella famiglia e nella società; aiutare il detenuto a costruire o ricostruire rapporti è essenziale nel suo percorso di recupero sociale, sulla base dell’assunto che l’incapacità comunicativa è anche elemento fortemente criminogeno.

 

 

Precedente Home Su Successiva