Centro Studi Gruppo Abele

 

Centro Studi del Gruppo Abele

 

Coordinamento nazionale giornali dal carcere

 

Progetto di ricerca-intervento. Responsabile scientifico: Susanna Ronconi

 

"Nuovi bisogni informativi e nuove modalità di comunicazione sul tema dell'HIV nella popolazione detenuta italiana attraverso l'attivazione della rete dei giornali del carcere nella lotta all'AIDS"

(Istituto Superiore di sanità, Accordo di collaborazione scientifica 60b / 1.21)

 

Osservazioni conclusive sui risultati della ricerca

 

L’informazione che non c’è

 

Il carcere, percepito da chi ci vive come un ambiente che produce malattia e disagio e che ospita un numero significativo di persone che soffrono di diverse patologie, non fa informazione e non fa prevenzione. Quel dato di oltre il 75% di detenuti che non ha preso visione di alcun materiale informativo sull’HIV o quell’80% che non ha avuto alcuna consulenza specifica durante la carcerazione (e si tratta di detenuti che sono in carcere da periodo medio - lunghi, non meno di un anno, comunque) è un dato di grande evidenza. Anche più delicato, se si pensa che sale al 95% se consideriamo la consegna di materiali al momento dell’ingresso, fase delicata e di "impatto" che meriterebbe una particolare attenzione. Se non c’è "offerta" di ascolto e informazione, i detenuti non chiedono spontaneamente alcuna consulenza: lo fanno solo - ma è una minoranza - in gruppo e in maniera organizzata. In un contesto povero di iniziativa e di confronto tra esperienze e convinzioni personali e saperi esperti, ciò che accade è la conferma implicita delle proprie convinzioni, un autoreferenzialità che porta a percepire la propria conoscenza come sufficiente e adeguata, senza momenti di confronto e verifica che consentano nuove scoperte, approfondimenti e acquisizioni di abitudine e comportamenti sicuri. Anche la possibilità di fare prevenzione concretamente è messa in discussione: mediamente oltre il 30% dichiara di non ricevere strumenti per l’igiene personale e per la pulizia della cella, e solo il 14% riceve un disinfettante efficace come la varechina.

 

Un ambiente che ammala: non solo HIV

 

La percezione delle persone detenute è chiaramente di esser a rischio in un ambiente che produce malattia: l’enfasi non è solo e non tanto sulla malattie trasmissibili - anche se hanno conquistato il primo posto in graduatoria - ma su tutta la gamma dei tanti disagi strettamente correlati a una vita rinchiusa: significativi i disturbi connessi alla mancanza di spazio e di luce, all’igiene scarso, il rischio - vissuto da molti - di soffrire di disturbi psicologici. In questo contesto, se il rischio HIV è indubbiamente sentito, non è però vissuto come un vero allarme, non è descritto con drammaticità dalla maggior parte dei detenuti intervistati.

 

Le informazioni di base

 

Se esiste una discreta informazione sulla definizione generale della malattia e se la maggioranza degli intervistati conosce in maniera soddisfacente le vie di trasmissione, esiste un gruppo - mediamente il 25-30% - che enfatizza i rischi legati alla convivenza quotidiana (uso di stoviglie, uso dei servizi igienici, trasmissione attraverso saliva), aspetto questo che può avere ricadute significative nella percezione del rischio e nell’enfatizzazione dei rischi correlati alla convivenza con persone con HIV. D’altro canto, molta più insicurezza si registra sui metodi efficaci per prevenire il contagio: la domanda sulla disinfezione di una siringa ha prodotto risposte che indicano con chiarezza la non conoscenza di procedure che possano tutelare dalla trasmissione del contagio. Dal punto di vista della conoscenza delle norme che regolano privacy, diritti alla riservatezza e effettuazione del test, la mancanza di informazioni è molto significativa e denuncia una non consapevolezza diffusa dei propri diritti e a rischiare di non rispettare quelli altrui.

Lo sbilanciamento rappresentato dalla carenza di una informazione corretta ed esaustiva, che sorregga il senso di autoefficacia dei singoli nel poter far fronte soggettivamente e limitare i rischi di contagio attraverso scelte appropriate , e, d’altro canto, la non conoscenza e consapevolezza delle norme a tutela dei propri diritti alla privacy e di quelli dei soggetti HIV+, porta la bilancia delle strategie individuali a pendere verso "soluzioni" di protezione fittizia, con un processo di semplificazione che individua nell’ "altro" il soggetto che deve agire e nell’ambiente un ostacolo "oggettivo". Il senso di autoefficacia è penalizzato da questo doppio movimento, e con esso la possibilità di avviare processi di attivazione per la tutela della propria salute.

 

La trappola della "falsa prevenzione"

 

La ricerca rivela che una quota significativa di persone detenute affidano alla conoscenza dello stato sierologico dei compagni di cella il compito di protezione della propria salute. Nel complesso, la popolazione intervistata appare divisa al proprio interno: nettamente divisa per quando concerne paure e prudenze, meno quando entra in campo la dimensione solidale, umana e etica. Esiste infatti la percezione dei diritti dell’altro detenuto, riconosciuto simile a sé e dunque meritevole di solidarietà, aiuto e sostegno; ma al contempo per una quota di detenuti la solidarietà è messa a dura prova dalla paura del contagio e dalla percezione che il contagio possa dipendere anche dalla semplice convivenza. Solo per una piccola parte questo significa isolare e separare le persone con HIV+: i più accettano la convivenza ma delegano la loro sicurezza alla conoscenza dello stato sierologico. Il nesso tra un’informazione insufficiente e un atteggiamento di "delega" di questo tipo è evidente, ma non basta a spiegare del tutto l’importanza che "l’essere a conoscenza" assume. L’ipotesi è che il carcere sia un contesto fondamentalmente deresponsabilizzante, secondo le dinamiche tipiche delle istituzionali totali che preferiscono fare del detenuto un "oggetto" delle informative istituzionali più che un "soggetto" di una comunicazione, per dirla con Foucault.

La mancanza complessiva di protagonismo attivo verso la propria quotidianità indotta dal carcere si riverbera anche sulla percezione della propria possibilità di produrre cambiamento attorno a sé e per sé. Al tempo stesso, anche in base ad alcuni studi effettuati sugli atteggiamenti del personale di custodia, esiste un effetto di rinforzo di questa delega da parte degli operatori, che pongono lo stesso tipo di domanda: sapere per proteggersi. Non solo: ma il fatto che tutti debbano sapere viene letto non solo come il diritto comune di agenti e detenuti a proteggersi, ma - in più - come occasione per una quota di detenuti di essere informati anche dagli agenti sullo stato sierologico dei compagni. Non appare in questi questionari un interlocutore forte della sua credibilità che in ambito penitenziario si faccia carico di sfatare il mito della conoscenza dello stato sierologico, aiutando così a limitare i danni di una falsa prevenzione.

 

La privacy e il consenso informato

 

Le domande che indagavano sull’effettuazione di test clinici, sul rispetto della privacy , sulla pratica del consenso informato e sulla restituzione dell’esito avevano l’intento di comprendere se e quanto i controlli sanitari routinari e l’occasione relazionale che rappresentano sono effettivamente fonte di informazione e maggiore consapevolezza. La risposta è per lo più negativa: la gran parte non ha alcun ricordo del momento in cui ha dato il proprio consenso al test, né del tipo di informazione ricevuta. Le risposte sulla restituzione indicano che spesso non vi è stato un vero counselling e un colloquio approfondito. Nel complesso si ricava l’immagine di una pratica routinaria che non sedimenta consapevolezza e che non viene soggettivamente vissuta come un passaggio significativo della presa in carico di se stessi.

 

Il diritto alla salute

 

Non sappiamo quanti dei detenuti intervistati siano portatori di HIV e quanti consumino sostanze psicoattive. Le domande sulla qualità della cura e dell’assistenza sono pertanto frutto sia di conoscenze dirette che indirette, non sappiamo in quale percentuale. Nel complesso, la percezione che i detenuti hanno è quella di una carenza nell’assistenza alle persone con HIV: molti si esprimono per la necessità di curarli all’esterno, in libertà o in ospedale

 

Le risorse: i medici, i volontari e il gruppo

 

Il questionario suggerisce spunti interessanti non solo sulle criticità ma anche sulle risorse. Nonostante il basso numero di occasioni di colloquio e consulenza, tuttavia la figura del medico è caricata di aspettative: a lui è opportuno rivolgersi, e gli incontri con il personale sanitario sono tra le indicazioni maggiormente segnalate pensando alle possibili iniziative da prendere. Insomma: è come se ci fosse uno sbilanciamento tra la fiducia e l’incisività reale che i medici riescono ad avere nel campo della prevenzione. Una risorsa preziosa ma scarsa. L’altra figura apprezzata è quella dei volontari: si può pensare che i volontari delle associazioni portino all’interno le modalità classiche del lavoro di prevenzione sull’HIV, basate sulla confidenzialità, l’informalità nella relazione, l’ascolto attivo e il counselling non direttivo, e l’atteggiamento non giudicante. Fattori che, se sommati alla libertà che il volontario dell’associazionismo di lotta all’AIDS esprime da mandati legati all’istituzione carceraria, sono potenzialmente una grande risorsa comunicativa.

Infine, le risposte ai questionari dicono dell’importanza della comunicazione tra pari, che veicola una gran parte della comunicazione in materia di AIDS, inclusa quella scritta, e che ospita, dentro le celle, il confronto e l’affrontamento di ogni problema di convivenza. Quando c’è da sapere e da informarsi, quando c’è da confrontarsi e quando c’è da orientarsi in scelte della quotidianità che hanno a che fare con la salute e il rischio, i detenuti ne parlano con gli altri detenuti. La comunicazione tra pari si rivela risorsa preziosa: per la sua orizzontalità che facilita la comunicazione; per la credibilità dei comunicatori, che condividono vissuti e linguaggi, e per essere una comunicazione "a scavalco", il cui contenuto è informativo ma anche esperienziale. Una qualità che nel lavoro di prevenzione appare significativa.

 

Suggestioni verso una strategia

 

Dunque: il carcere appare da questa ricerca:

un contesto che ammala,

dove i detenuti si sentono mediamente a rischio pur se non drammatizzano,

dove ci sono pochi strumenti concreti per far fronte ai rischi di malattie,

dove non circola abbastanza informazione,

dove ci sono operatori credibili ma un’organizzazione che li rende invisibili ai più,

dove le pratiche di screening non si traducono in pratiche di prevenzione

dove ci sono detenuti che comunicano intensamente tra loro e

dove si delega troppo alla conoscenza dello stato sierologico dell’altro e poco alla propria autoefficacia.

Cogliendo i limiti e valorizzando le risorse, e considerando le risposte sul "che fare" indicate dagli intervistati, si potrebbe concludere sottolineando che:

è opportuno e forse urgente avviare nuove campagne informative che sappiano misurarsi effettivamente e in modo pragmatico con i problemi della vita quotidiana dentro le carceri e con gli stili di vita e le culture delle persone detenute;

che queste campagne potrebbero utilizzare tre grandi risorse, una volte messe le stesse nelle condizioni di esprimere il loro potenziale di attività: il personale sanitario (qualora dotato di tempo e risorse); le associazioni di lotta all’AIDS (qualora dotate di agibilità delle strutture e possibilità di svolgere il loro intervento rispettando i metodi e le modalità del lavoro di promozione della salute); i detenuti stessi (qualora supportati nel loro protagonismo, messi in grado di produrre dinamiche aggregative e sostenuti da consulenze esperte);

è opportuno promuovere una cultura dei diritti delle persone HIV+ e rompere i circolo vizioso che lavora a favore della "trappola della prevenzione fittizia" e della delega alla conoscenza dello stato sierologico dell’altro, lavorando congiuntamente con i detenuti e con il personale;

promuovere un utilizzo positivo del momento dei test clinici attraverso un’attenzione alle dinamiche comunicative del consenso informato e del counselling pre e post test.

 

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