Uomini dietro le sbarre

 

Uomini dietro le sbarre ancora padri

 

 

Uomini dietro le sbarre ancora padri

I racconti dei detenuti di San Vittore dedicati ai figli

Mezzo milione di bambini in Europa ha un genitore in cella

L’intervista a Fra Beppe Prioli: "Così si riscoprono genitori"

Uomini dietro le sbarre ancora padri

 

Tratto da Noi, supplemento di Avvenire

Daniela Pozzoli

 

Quanti sono i papà carcerati in Italia? E le mamme? Il ministero di Grazia e giustizia (la stima è del 2000) sostiene che su una popolazione carceraria formata da 54.802 detenuti maschi, ben 19.844 hanno a casa bambini che li vedono durante il periodo della reclusione. Le donne detenute sono invece 2.349, di cui 1.332 con figli, circa 300 in Lombardia. Un legame dunque forte, che deve però essere in qualche modo incoraggiato.

"Tanto più – interviene lo psicologo Dario Foà, responsabile del Servizio area penale carceri della Asl Città di Milano – che il legame genitore in carcere – figli è tutelato anche dal nuovo ordinamento del regolamento penitenziario (dpr 30 giugno 2002, numero 230)". Proprio in occasione della Festa del papà, il 19 marzo prossimo, anche in Italia, seguendo il modello francese di Marsiglia, alcuni volontari lavoreranno per agevolare i rapporti genitori – figli e per rendere meno traumatica l’accoglienza dei bambini che fanno visita in carcere.

Il progetto Relais figli – genitori detenuti – Milano, che raccoglie enti pubblici tra cui la Asl, la direzione del carcere di San Vittore, l’Università Bocconi, il Comune e organismo come Caritas ambrosiana ed Enaip Lombardia, mette a disposizione delle famiglie uno spazio vicino al carcere dove verranno accolte in attesa del colloquio. "È sufficiente una stanza attrezzata del Museo della scienza e della tecnica vicino a San Vittore – spiega Foà – e del personale qualificato per preparare i bambini all’incontro. Troppo spesso accade che un papà, vedendo i figli distrutti da un lungo viaggio, non voglia più sottoporli a una prova tanto dura, rinunciando così al diritto di essere padre anche in cella."

 

In anteprima i racconti dei detenuti di San Vittore dedicati ai figli

 

E proprio il giorno della Festa del papà parte a Milano un progetto per rendere più "familiari" i colloqui tra i carcerati e i loro bambini

 

"La mia scuola di vita sono stati i cosiddetti lupi feroci. Una scuola di vita che alla fine non si è dimostrata un granché, perché le cose che vengono insegnate a scuola sono quelle che ti fanno crescere e respirare e amare. I lupi feroci non mi hanno insegnato a crescere. Mi hanno insegnato a odiare, a starmene fuori dalla regole, ad allontanarmi dagli altri".

È un passaggio del racconto di un detenuto di San Vittore che, insieme ad altri, ha collaborato alla stesura del libro "Il lupo racconta", dedicato ai figli, che verrà presentato a Milano al Museo della scienza e della tecnica, nel giorno della Festa del papà.

"Mio padre - scrive ancora l’autore -, capo branco anche dei suoi amici, era rispettato, anche perché quando tirava fuori i denti lui c’era un fuggi fuggi generale". Un altro "lupetto" che racconta la sua vita si preparava fin da piccolo a diventare padre, consapevole che avrebbe portato dentro di se anche quel genitore balordo che gli stava rovinando la vita. "Il mio papà beveva e quando tornava a casa, spesso ubriaco, talvolta erano botte… non a me, che ero il suo lupacchiotto, ma a mia madre. Allora ci rintanavamo nel cesso di ringhiera… ci si poteva chiudere dentro e la porta era robusta… Ora sono in gabbia e sento ancora tanto freddo"

Si dipingono così, come lupi feroci, ma anche come lupacchiotti e lupetti impauriti, "ma spesso sono solo dei cani randagi - mette in guardia Dario Foà, psicologo della Asl che ha seguito il lavoro di stesura del libro insieme con Emilia Patruno, responsabile del magazine di San Vittore, e allo scrittore Francesco D’Adamo -. Si sono scontrati con il cacciatore e adesso hanno la loro occasione per rivedere la propria vita, per scoprire di avere delle risorse e oltre a essere genitori si preparano a diventare padri dei loro figli, cioè a instaurare delle relazioni con chi hanno messo al mondo". Ricostruire un’etica da tramandare ai propri figli, partendo dal racconto di come sono incappati nel "cacciatore" è risultato un esperimento vincente.

"Quello del lupo - spiega ancora Foà - è uno stereotipo che non regge nemmeno più nelle favole, e anche se qualcuno scrive "sono colpevole", subito dopo ammette di non "poterne più di questo decrepito gioco a guardie e ladri". Di lupi veri ne ho incontrati pochi e quando accade si possono solo accetare per quello che sono. Questi ragazzi invece hanno accertato, anche attraverso il laboratorio di scrittura, di rielaborare il proprio passato. Gli si deve offrire la possibilità di abbandonare quella vita balorda alla quale erano "predestinati".

"Successe qualcosa di insolito - si legge in un altro racconto -. Il cane gli era sopra e lo leccava dolcemente… Sì, Wolf, il temutissimo Wolf, era corso in suo aiuto, per lenire il suo dolore, per dargli affetto e conforto… Wolf, il feroce lupo dagli occhi cattivi, era diventato un grosso cucciolo affettuoso… la sua brutta reputazione era stata costruita da chi non lo conosceva…". Ma non è facile buttarsi tutto alle spalle: "Mentre il vecchietto, commosso, andava nel retro, gli rubavamo un paio di pacchetti di sigarette. Poi siamo passati alla cassa… Da quel momento in poi la nostra fame di affermazione non si placò più: la diversità, la ribellione, la contestazione avevano un’attrazione irresistibile, come la calamita con il ferro".

"Prima di passare alla scrittura dei racconti è stato necessario un confronto profondo sulla trasgressione - spiega lo psicologo -, sul mancato rispetto della legge che si tramanda di padre in figlio. Nel caso di persone tossicodipendenti, come la maggior parte degli autori di questi testi, il crimine per il quale sono finiti dentro è strettamente legato al bisogno di drogarsi. Smettere di essere i "poveri detenuti" e accettare che dopo alcuni anni di detenzione si può anche cambiare, è un primo passo verso una nuova vita. E assumersi le proprie responsabilità significa anche risarcire le vittime che sono spesso i propri figli. Se anche un solo bambino in questo percorso ritrovasse suo padre, sarebbe un successo importante".

 

Mezzo milione di bambini in Europa ha un genitore in cella

 

Si calcola che ogni anno mezzo milione di bambini in Europa si trovino nella condizione di avere il padre, la madre o entrambi i genitori in prigione. I volontari di un’associazione rendono meno traumatico l’impatto dei piccoli visitatori in carcere, lavorando per migliorare l’accoglienza. Ma anche agevolando i contatti telefonici, sostenendo le spese della famiglia che non ha i soldi del biglietto per il treno per recarsi al colloquio, appianando i contrasti famigliari.

Si chiama Eurochips (European children of imprisoned parents) ed è un’associazione europea creati dai figli ormai adulti di genitori detenuti che hanno in qualche modo "scontato" anche la loro la carcerazione. Presente in Francia, Belgio, Gran Bretagna e Olanda, è sbarcata anche in Italia grazie al "Relais bambini senza sbarre" che permette alle madri detenute nel carcere milanese di San Vittore di mantenere contatti con i propri bambini lontani.

 

L’intervista: "Così si riscoprono genitori"

 

Fra Beppe, una vita accanto ai reclusi: chi trasgredisce oggi spesso trascina nel crimine moglie e figli Ma la cella può diventare l’occasione per fermarsi a riflettere. E ritrovare gli affetti più cari.

 

"Molti delinquenti corrono dalla mattina alla sera, spendono la vita sempre di fretta tra rapine, spaccio e giri balordi. Di tempo per i figli gliene rimane poco. Spesso il carcere è l’occasione per fermarsi a riflettere e anche per scoprire di essere padri. In galera si incontrano ragazzi sempre più giovani e un padre non può proprio fare a meno di chiedersi se anche i suoi figli finiranno prima o poi lì dentro".

Fratel Giuseppe Prioli, o meglio fra Beppe, da quarant’anni frequenta le prigioni di tutta Italia. Oltre ai pater – ave – gloria porta conforto e qualche buona parola, e tante ne ascolta.

È convinto che il carcere sia una risposta a volte peggiore del male che pretende di curare, ma l’esperienza gli ha insegnato che anche una misera cella può offrire un’occasione per pensare, e forse per rivedere la propria vita. "Come tutte le opportunità può essere colta o ignorata", dice. In ogni caso sono stati parecchi i detenuti che il francescano ha accompagnato in questi ripensamenti, soprattutto ergastolani e gente che si era macchiata di delitti feroci. Il suo rammarico di non essere arrivato "prima" di quella sentenza, quel "fine pena mai" che vuol dire carcere finché non si diventa vecchi.

Una mano alla zampa del lupo fra Beppe l’ha sempre tesa, sperando di non essere azzannato. Qualche cautela la conosce: "Sono stati i detenuti a insegnarmi a non lavorare mai da solo - confessa - e a saperli ascoltare. Così nel 1968 è nata "La fraternità", l’associazione di volontari del carcere che si occupa di chi è dentro, di chi sta uscendo, delle famiglie e soprattutto di prevenzione". Genitori che "prima non trovavano cinque minuti per il figlio, dopo il suo arresto fanno chilometri per andare a trovarlo in carcere. Anche molti padri liberi dunque riscoprono la paternità in condizioni estreme".

Quando il francescano però ha iniziato a seguire la sua vocazione, che prevedeva una vita gomito a gomito con i malavitosi, vigeva quasi un "codice", che adesso rimpiange: "La smania di soldi ha cambiato il volto della criminalità – spiega – e quando oggi entro in carcere mi trovo a fare visita prima al marito, poi alla moglie e al bambino che vive con lei in cella. Chi trasgredisce spesso trascina con se l’intera famiglia, madri comprese.

Trent’anni fa un delinquente era un delinquente che aveva fatto la sua scelta e non coinvolgeva tutti gli altri. Questa era una regola sacrosanta e rispettata, adesso certe famiglie diventano quasi dei clan".

Come alle famiglie del ceto medio è diventato difficile vivere con un solo stipendio, così nelle famiglie del crimine moglie e marito sono d’accordo nel commettere i reati. Non solo: "Sono sempre più giovani i detenuti che hanno commesso fatti gravi – dice ancora – e un padre non può fare a meno di pensare che il suo compagno di cella porrebbe essergli figlio. A un padre spacciatore ho chiesto che cosa farebbe a chi vendesse droga a suo figlio. "Lo ammazzerei", mi ha risposto. A volte la detenzione è un’ancora di salvezza, a volte è solo un’interruzione momentanea di una carriera criminale".

Vale il detto "tale padre tale figlio"? "No, è un’eredità che si può rifiutare. Penso a un ragazzo di 26 anni, un giostraio nomade, che aspetta il terzo bambino e deve scontare quattro anni. Finalmente lo vedo preoccupato di cambiare vita e quando barcolla gli ricordo che suo padre è un "semilibero". Per lui non è facile perché ha sempre visto quell’uomo dietro le sbarre, lo andava a trovare in parlatorio e quando si è trattato di scegliere, ha intrapreso la carriera criminale. Penso, per esempio, a Giacomo che ha trascinato il piccolo Andrea sulla sua stessa strada – ricorda fra Beppe nomi di persone conosciute in epoche lontane – come se fosse predestinato. Credo invece che padri, sacerdoti, religiosi, educatori debbano fare uno sforzo e andare incontro ai figli, ai giovani, fargli sentire la loro presenza, accompagnarli".

 

 

Home Su Successiva