Simonetta Matone

 

Simonetta Matone, giudice al Tribunale dei minori di Roma

"La mia vita per i figli del dolore"

 

Corriere della Sera, 26 novembre 2001

 

"Venga. Questa è la mia stanza. Potrei definirla: la cognizione del dolore. Qui arrivano abusi, sofferenza, violenza: in questi fascicoli ci sono le storie delle famiglie ammalate. Ho perfino paura, a volte, di portarli con me a casa. Ai figli non racconto nulla, mi sembrerebbe di contaminarli con tanti orrori. La storia più terribile? Quella di una madre che sorteggiava i numeri della tombola per stabilire quante frustate, quante bruciature, quante scottature nell’acqua bollente fosse giusto infliggere ai suoi figli. E si andava a decine per volta. Le storie a lieto fine, i ragazzi che tornano a trovarmi, i mazzi di fiori che vede sono la ricarica per poter andare avanti e non lasciarsi travolgere dallo sconforto". Simonetta Matone, sostituto procuratore presso il Tribunale dei minori di Roma, è una donna forte, eppure confessa di soffrire fisicamente, a volte, a causa del suo lavoro. In questo palazzo scorrono lacrime e sangue: le ferite delle famiglie invisibili, quelle di cui si indicano le iniziali, quelle che producono soltanto cronaca nera. La sua famiglia vera è una famiglia allargata: due figlie da un primo matrimonio, Maddalena e Fiammetta, un maschio, Edoardo, dall’attuale marito, il giornalista Rai Emilio Albertario.

Nelle foto sulla scrivania c’è anche il giurista Giuliano Vassalli, "una persona unica, un incontro per me decisivo. Lavorai con lui al ministero di Grazia e Giustizia per quattro anni, dal 1987 al 1991, ho conosciuto da vicino la sua sensibilità e la sua umanità, oltre alla sua cultura. Dall’ufficio di via Arenula seguimmo il caso di Serena Cruz, la bambina adottata illegalmente contesa fra le ragioni del diritto e le ragioni del cuore: per difendere i diritti di Serena a restare con i genitori ricevemmo 15 mila telegrammi". Da quell’incontro, la scelta di diventare un magistrato per i minorenni.

La storia di Simonetta Matone era cominciata prima. A 26 anni, nel 1979, diventa vicedirettore del carcere delle Murate a Firenze, due settimane dopo l’uccisione del medico della prigione, in un agguato terroristico alla fermata dell’autobus. Alle Murate ci sono i capi di Prima linea, "un centinaio di personaggi pericolosissimi". Poi, il trasferimento a Lecco, "in un Tribunale che si occupa di bande criminali, di rapine e di risse fra contadini per il paletto al confine". Il ritorno a Roma, al Tribunale di sorveglianza di Rebibbia, per scoprire "che i veri condannati sono proprio i parenti del detenuto o della detenuta, sono loro a pagare il prezzo più alto", poi al ministero con Vassalli e infine, da dieci anni, è un magistrato impegnato nel recupero dei minori a rischio e delle loro situazioni disastrate.

La sua diagnosi sulle famiglie italiane è durissima: "Siamo messi molto male", dice. E spiega: "Non esiste più la figura del padre: il maschio italico ha perso, in seguito alla rivoluzione femminista, la sua autorità, e questo era ed è giusto. Ma insieme ha perso anche un bene prezioso, la sua autorevolezza. E ha reagito in due maniere, opposte e devastanti entrambe: assenza o violenza. Tutti i ragazzi che passano di qua e si siedono su quella sedia hanno in comune un dato: nessuno stima il padre. Con la figura paterna tradizionale è scomparso il senso del dovere e della dignità. Le donne, purtroppo, sono spesso inadeguate a ricoprire il doppio ruolo. Siamo tutti meno disposti a sopportare: sulle famiglie fragili, la ribellione della donna diventa esplosiva. Ma è impossibile generalizzare: ho visto genitori apparentemente normali produrre figli incontrollabili".

Il Tribunale dei minori di Roma, in una mattina qualunque, è affollatissimo. C’è chi arriva fino a qui per chiedere aiuto, chi spera in un’adozione, chi vuole giustificare un figlio che si è perduto in un momento di violenza, chi recupera la piccola nomade in stato di fermo perché sorpresa a borseggiare, chi chiede perdono e implora un po’ di clemenza per sé o per i suoi. Più che a una sede giudiziaria, somiglia a un santuario: la meta finale del pellegrinaggio di tante anime in cerca di una normalità che in certi casi può apparire irraggiungibile. Gli uomini e le donne che lavorano in questo antico palazzo sul Lungotevere sono anche un po’ amici e un po’ eroi. Sono comunque gli unici che stanno a sentire chi non sa a chi rivolgersi.

In una città così grande, spesso ricadono su di loro problemi che sarebbero di altri. Anche per questo carico di esperienze, molti di loro ormai afferrano il carattere di chi gli sta davanti al primo sguardo. La regola non scritta è: essere disponibili anche con le persone meno raccomandabili. Conferma Simonetta Matone: "Dobbiamo restare freddi. E’ il nostro lavoro, con tutti i limiti umani".

Lei assicura di avere usato la massima disponibilità anche quando aveva a che fare con le carceri: "A Rebibbia, alla fine degli anni Ottanta, concedevo i permessi ai detenuti che li chiedevano, ancora prima che la legge lo prevedesse. E mi è andata bene: su 990, mi hanno fregato soltanto in 9. Sono riuscita a far tornare in cella ergastolani e criminali condannati anche a 24 anni. Il mio consulente, in quel periodo, era un uomo straordinario: il cappellano, padre Mario Berni, uno che aveva incominciato nel 1936 a Regina Coeli , il più grande conoscitore dell’animo umano che abbia mai incontrato. Forse non sarà stato un metodo giuridicamente ineccepibile, ma lui non sbagliava mai, aveva visto generazioni di carcerati. Bastava un suo cenno. Quella targa è la mia medaglia più preziosa (un regalo del popolo di Rebibbia "a Simonetta, che tante volte ci aprì le porte")".

Le pesa raccontare che tante volte i figli di quei detenuti e di quelle detenute sono diventati anch’essi dei piccoli o grandi delinquenti. Preferisce dire della sua amicizia con Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, confidare di quel bandito sardo poi diventato brigatista rosso, ora impiegato modello, elencare tutte quelle adozioni felici di ragazzi un tempo infelicissimi. Cerca di trovare una giustificazione a quelle ombre che vivono ai margini della nostra società, spera nel dialogo con quella immensa famiglia invisibile che minaccia le vite comuni degli esseri normali, "perché accanto alla verità processuale c’è sempre un’altra verità".

 

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