Studio sulla devianza minorile

 

I minori immigrati e la risposta carceraria

di Emanuela Cimmino (Istituto Universitario "Suor Orsola Benincasa" – Napoli)

 

La problematica della risposta carceraria

La giustizia e i minori immigrati

Carcere e minori stranieri

La figura del mediatore culturale nel contesto penale minorile

L’Istituto Penale Minorile di Nisida

Il carcere di Nisida e i minori stranieri

Percorsi di educazione con i minori stranieri

La problematica della risposta carceraria

 

In Italia, dopo anni di riflessione e di dibattito tra giudici minorili, avvocati e operatori del settore, è entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale per i minorenni, il quale garantisce al minorenne non solo un giudice specializzato, ma anche un processo orientato non tanto verso l’accertamento del reato quanto piuttosto verso la persona in quanto individuo in formazione a cui va riconosciuto il diritto all’educazione, al sostegno, alla protezione.

Uno dei principi fondamentali del codice di procedura penale minorile è quello della residualità della detenzione, misura da utilizzare solo nel caso in cui tutte le alternative siano fallite.

L’esecuzione di una condanna in un istituto minorile, infatti, solo raramente rappresenta un deterrente, nella maggior parte dei casi conferma il soggetto nel ruolo di delinquente, non esprimendo una finalità educativa che agevola percorsi di ripresa.

Il carcere, infatti, costituisce un ulteriore elemento nel processo di emarginazione che, potenziando nel ragazzo l’identità di sé come soggetto deviante, riduce la possibilità di far riferimento alle risorse dell’individuo, e non rimuove le cause che hanno originato la sua condotta, con la conseguenza che, una volta espiata la pena, si riprodurrà la stessa situazione di conflitto preesistente.

Occorre, dunque, realizzare un programma reale di recupero che tenga presente le potenzialità e le possibilità di sostegno, nel superamento di quelle condizioni che hanno facilitato l’ingresso nella devianza. Il trattamento rieducativo dovrebbe partire dalla considerazione dei bisogni di ciascun individuo, rilevati attraverso l’osservazione della personalità da parte di operatori specializzati, in base alla quale si possa formulare un programma finalizzato alla trasformazione degli atteggiamenti e degli orientamenti di vita.

Residualità della misura carceraria, tuttavia, non significa assenza di risposta al fatto reato; la risposta è esigenza della collettività ed intervento doveroso nei confronti del minore.

Il superamento della risposta carceraria come unico strumento di rieducazione, rende possibile sperimentare e creare interventi più rispondenti alle caratteristiche personali del soggetto.

Le politiche giovanili, la rivisitazione del sistema scolastico obbligatorio, la possibilità reale di occupazione, lavoro e professionalità, la valorizzazione di tutte le forme di solidarietà e di accoglienza possibili nella vita quotidiana, sono alcune delle tante risposte che permettono percorsi di recupero e di reinserimento ben diversi e più efficaci di molte sanzioni e svolgono, allo stesso tempo, un’indispensabile azione preventiva. Parlare della residualità nel carcere, ci porta a riflettere sui principi e concetti fondamentali, quali, ad esempio, la funzione della pena, in termini di prevenzione e risocializzazione. L’allarme sociale della delinquenza ha portato un forte bisogno di sicurezza, da un lato con una sempre maggior chiusura delle persone nelle proprie case, dall’altra ha spostato l’azione statuale nella funzione repressiva con un sempre maggior allontanamento dalla doverosa attivazione di strategie di prevenzione.

In conformità, invece, con l’articolo 27 della Costituzione, tutto l’intervento penitenziario è finalizzato alla rieducazione del condannato. In accordo con Melita Cavallo (giudice minorile a Napoli e a Milano), dobbiamo riflettere sul fatto che "se la delinquenza è cambiata è perché la società è cambiata: è più complessa, competitiva, violenta; eppure si continua a dare a questi ragazzi le stesse risposte di tipo punitivo."

Il carcere, infatti, costituisce a tutt’oggi, nella maggior parte dei sistemi penitenziari contemporanei, la struttura centrale all’interno del sistema delle pene.

 

La giustizia e i minori immigrati

 

Nella giustizia penale minorile i ragazzi extracomunitari e nomadi hanno un impatto molto più duro con le risposte processuali sanzionatorie rispetto ai ragazzi italiani.

A parità di reato, i minori immigrati sono più spesso condannati, ricevono molto più frequentemente misure cautelari detentive, rimangono per più tempo in carcere, mentre con molta meno frequenza sono destinatari di misure diverse, quali ad esempio il collocamento in comunità-alloggio o in famiglia.

Le condizioni di vita dei minori immigrati sono diverse rispetto a quelle degli italiani, soprattutto dal punto di vista delle relazioni con la famiglia e la comunità territoriale, quindi gli interventi dell’apparato socio-giudiziario sono inevitabilmente diversi. Una volta entrati in contatto con il sistema penale italiano, è facile riscontrare come i cittadini stranieri subiscano ulteriori discriminazioni.

In primo luogo, per motivi economici non possono quasi mai assicurarsi un difensore di fiducia e devono quindi ricorrere a difensori d’ufficio, visto che ostacoli formali e sostanziali rendono loro difficoltoso accedere al gratuito patrocino; subiscono inoltre le conseguenze di evidenti difficoltà linguistiche, di comunicazione e di scarsa conoscenza del sistema giuridico italiano. Nei confronti degli stranieri provenienti dai paesi poveri, come avviene spesso anche per altri soggetti deboli, l’istituzione giudicante mostra, infatti, un livello di attenzione minore rispetto a quello che viene garantito a chiunque, per status, benessere economico e posizione sociale, abbia strumenti di tutela da attivare in caso di errori giudiziari o di palese violazione delle garanzie di difesa. A parità di imputazione o di condanna, inoltre, la permanenza in carcere degli stranieri è mediamente più lunga di quella degli italiani, sia in fase di custodia cautelare che dopo l’eventuale sentenza.

Questa differenza viene comunemente ricondotta al fatto che spesso gli stranieri non hanno un domicilio certificato per poter usufruire degli arresti domiciliari o delle misure alternative alla detenzione.

La discriminazione nel trattamento degli stranieri può essere il frutto, tuttavia, anche di un paradossale egualitarismo. Secondo Gaetano De Leo, non tenendo conto delle particolarità relative alle condizioni di vita, all’identità etnica, alla cultura degli immigrati, si tende a dare a questi ultimi lo stesso tipo di risposta dato ai minori italiani. Ciò è dovuto all’incapacità dei servizi preposti di adattare i progetti educativi alle caratteristiche degli utenti. Gaetano De Leo sostiene queste sue idee facendo riferimento ad una ricerca effettuata presso il carcere minorile di Roma "Casal di Marmo".

Mettendo a confronto, infatti, le relazioni d’equipe, composte da educatori, psicologi, assistenti sociali, elaborate per minori italiani e per minori extracomunitari, si è riscontrato che mentre le relazioni per i ragazzi italiani sono articolate e differenziate, per i singoli soggetti, sia da un punto di vista psicologico, che relazionale e familiare, le relazioni per i ragazzi extracomunitari, invece, evidenziano una diversificazione soltanto tra il gruppo dei nomadi e quello dei nord-africani; per il resto, all’interno dei due gruppi, le relazioni si somigliano tutte, non riescono a cogliere in modo apprezzabile differenze individuali, relazionali, familiari, culturali.

In particolare, il caso dei minori migranti irregolarmente presenti in Italia ci appare un punto particolarmente critico per quanto riguarda i diritti del fanciullo e della tutela legale che ne consegue. Si tratta di "minori spesso in sosta, in una zona di invisibilità, spesso senza documenti di soggiorno e che riescono ad assicurarsi piena visibilità solo nell’atto del flagrante compimento di un reato, rimbalzando così di colpo in un’area dove si coniugano privazione della libertà e riconoscimento dei diritti". L’inadeguatezza delle risposte nei confronti dei minorenni extracomunitari sottoposti a provvedimenti penali si esprime sotto varie forme.

Un primo ordine di fattori problematici risiede nel fatto che l’assenza di un’abitazione, di una famiglia e di una rete di riferimento stabile nel territorio, rendono difficoltosa l’elaborazione di un programma partecipato di reinserimento sociale del minore. La difficile reperibilità dei ragazzi, ad esempio, dopo l’uscita dei Centri di Prima Accoglienza, causata dalla mancanza di domicilio fisso e dell’estrema mobilità degli stessi sul territorio, rende particolarmente gravoso il lavoro degli operatori. A complicare tale quadro, vanno poi considerate le difficoltà riscontrate nel rapporto con le autorità consolari e le ambasciate dei paesi d’origine dei ragazzi extracomunitari autori di reato. Si riscontra, infatti, la mancanza quasi totale di collaborazione da parte dei consolati che difficilmente riconoscono la propria responsabilità per i minorenni sottoposti a procedimento penale anche al fine di portare a termine dei rimpatri assistiti, nel caso siano presenti le necessarie condizioni. In altri casi, gli ostacoli alla presa in carico dell’utenza extracomunitaria dipendono dall’atteggiamento di scarsa collaborazione dei ragazzi di fronte all’intervento degli assistenti sociali e delle strutture della giustizia minorile. In molti casi, i ragazzi, quasi tutti in posizione irregolare nel nostro paese, diffidano dell’intervento degli assistenti sociali e delle strutture della giustizia, in quanto temono l’espulsione e il rientro nel paese di origine. In altri casi, invece, con un atteggiamento opposto, i minori tentano di strumentalizzare a proprio favore l’intervento sociale, con l’intento di usufruire delle opportunità alternative al carcere offerte dal nuovo codice di procedura penale per i minorenni.

In questo senso, l’adesione a progetti di messa alla prova o la partecipazione ai trattamenti di rieducazione offerti dagli operatori sociali ai ragazzi extracomunitari si è rivelata spesso di carattere meramente formale, finalizzata in modo strumentale ad ottenere benefici personali, come ad esempio la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno alla fine del percorso rieducativo.

Secondo altre esperienze, invece, è possibile dimostrare che nei casi in cui è stata assicurata ai ragazzi stranieri un’opportunità di inserimento sociale e professionale, i risultati non sono stati sempre negativi.

L’esperienza dell’Ufficio di Servizio Sociale di Roma, ad esempio, dimostra che, a differenza dei minori albanesi e dei nomadi, con i giovani di provenienza nord -africana, una volta avviato un rapporto di confidenza e soddisfatte alcune esigenze prioritarie, prima di tutte quella economica, non è impossibile giungere ad ottenere un grado di collaborazione soddisfacente, realizzando così esperienze positive di reinserimento sociale. L’esistenza di una giustizia non ancora eguale per tutti e fortemente condizionata dall’origine etnica e dalla disuguaglianza nelle opportunità sociali a disposizione del minore è confermata, inoltre, dall’applicazione differenziata delle misure cautelari previste dal nuovo codice di procedura penale minorile. Il codice prevede quattro misure cautelari personali nei confronti degli imputati minorenni: le prescrizioni, la permanenza in casa, il collocamento in comunità e la custodia cautelare in istituto. Il sistema delle misure cautelari da applicare ai minorenni è un sistema autonomo e che si differenzia notevolmente dal sistema previsto per gli adulti.

È l’art. 19 c.p.p.m. a sottolineare tale autonomia: "nei confronti dell’imputato minorenne non possono essere applicate misure cautelari personali diverse da quelle previste nel presente capo".

Tale autonomia non deve però far ritenere che le misure cautelari per i minorenni abbiano caratteristiche e finalità diverse da quelle previste per gli adulti; autonomia e specialità stanno solo a qualificare le misure, nel senso che esse sono correlate alla particolare personalità del soggetto in età evolutiva.

La normativa per gli adulti prevede la possibilità di applicare la misura cautelare solo quando vi sia o pericolo di fuga dell’imputato o pericolo di inquinamento probatorio oppure quando vi sia il pericolo che il soggetto imputato possa commettere reati della stessa indole. Per quanto riguarda il minore, inoltre, si tiene conto dell’età, della personalità e del progetto rieducativi.

Nel caso dei minorenni stranieri, invece, molto difficilmente si realizzano le condizioni per poter applicare misure alternative diverse dalla custodia cautelare. Infine, un ulteriore elemento di inadeguatezza si individua nelle risposte definitorie del processo minorile. Le informazioni a disposizione (precisare le fonti) consentono di rilevare che agli extracomunitari non si applicano alcune delle più vantaggiose misure tipiche del nuovo processo penale minorile, quali il proscioglimento per irrilevanza del fatto, la sospensione del processo e messa alla prova e il perdono giudiziale.

Con l’irrilevanza del fatto, si permette al minore, che ha commesso occasionalmente un fatto reato non considerato grave socialmente, di essere prosciolto. Con la sospensione del processo e messa alla prova, il minore ha la possibilità di seguire un percorso "guidato", progettato dai servizi sociali in accordo con l’Autorità giudiziaria, alla fine del quale, se l’esito è positivo, il reato si estingue.

Il perdono giudiziale, previsto dall’art. 169 c.p., consiste nell’astensione da parte del giudice dal pronunciare condanna se ritiene di dover infliggere una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni. Il perdono giudiziale rappresenta la rinuncia da parte dello Stato alla potestà di punire in vista di un superiore interesse costituito dal recupero del minore.

Secondo lo psicologo Gaetano De Leo, le istituzioni italiane che accolgono con maggior frequenza e rapidità minorenni immigrati non sono quelle lavorative, scolastiche, assistenziali, bensì quelle penali. Mentre, con progressione crescente, gli istituti penali e le strutture della Giustizia Minorile sono divenute il luogo pubblico a più alta concentrazione di ragazzi stranieri, è agevole verificare la carenza di iniziative e luoghi di incontro, aggregazione, socializzazione, scambi culturali, conservazione e salvaguardia dell’identità nazionale per gli adolescenti stranieri, nei cui confronti si avverte l’esigenza di una pronta attivazione da parte delle istituzioni demandate, oltre che delle principali realtà del volontariato e dell’associazionismo giovanile.

D’altra parte appare evidente che, fino a quando non sarà possibile mutare le condizioni oggettive di vita e di lavoro degli immigrati in Italia, in modo particolare delle famiglie e dei soggetti "deboli", l’emarginazione economica, sociale, culturale degli extracomunitari comporterà atteggiamenti di non-conformità e di devianza delle nuove generazioni, le più esposte al conflitto fra la propria identità e le aspettative di inserimento della comunità di appartenenza nel il nostro sistema istituzionale.

 

Carcere e minori stranieri

 

Il momento dell’accoglienza è l’atto con cui si riceve una persona all’interno di un’istituzione. Nell’ambito del contesto detentivo minorile, l’accoglienza è un momento di contrattazione educativa e di negoziazione di spazi che reciprocamente si è disposti a concedere, di definizione di ruoli e stili relazionali. È un momento molto importante soprattutto per gli stranieri che rappresentano una fascia sociale ritenuta portatrice d’insicurezza e nei confronti della quale si sono concentrate le politiche di controllo sociale.

L’accoglienza acquista significato se viene vissuta come un processo di empowerment, un processo in grado di dare potere, di rendere autonomo il minorenne straniero sin dalle prime fasi della detenzione. Questo intervento, con la sua specifica attenzione alle diversità culturali, se attuato sin dalle prime fasi d’ingresso del minore in un istituto, può prevenire situazioni di disagio emotivo e cognitivo, dinamiche di aggressione o di rifiuto.

Proporre un’attività di accoglienza, secondo questa ottica, non vuol dire soltanto raggiungere un buon rapporto con i giovani arrestati; vuol dire proporre al detenuto una collocazione attiva e stimolare gli operatori a mettere in discussione il proprio compito, non più segnato da un mandato istituzionale, ma contraddistinto da un nuovo stile comunicativo ed interattivo. Nel regolamento penitenziario l’accoglienza, indicata come "modalità d’ingresso in Istituto", è descritta negli articoli compresi tra il 22 ed il 26 del DPR 230/2000. L’ingresso in istituto di pena può essere una delle fasi più traumatiche del rapporto tra la persona, in fase di trasformazione, privata della libertà e l’istituzione nella quale viene inserita. Le procedure che seguono l’arrivo nella struttura penale si svolgono attraverso una sequenza di fasi che esprimono un processo di spersonalizzazione progressivo: immatricolazione, perquisizione, privazione degli oggetti personali.

La detenzione si può configurare come punizione, ossia come informazione forte che indica un limite oltre il quale esiste un pericolo, ma designa anche un territorio nel quale è possibile il movimento. Occorre, dunque, una mediazione tra opposti, uno sfondo integratore della funzione di contenimento con il processo evolutivo della sfera personale dell’adolescente.

Tale mediazione dipende principalmente dal modo in cui l’I.P.M. gestisce e organizza la propria funzione. Per quanto riguarda gli stranieri, in passato alcuni professionisti rilevavano che la difficoltà di comprensione della lingua non rendeva accessibile il vissuto interiore del giovane straniero; le differenze culturali, inoltre, richiedevano tempo per essere efficacemente orientate in senso educativo.

Oggi tali aspetti, pur ancora presenti nelle rappresentazioni degli operatori appartenenti ai diversi servizi, sono meno influenti che in passato. La visione del minore identificato come soggetto portatore di carenze, di barriere culturali insormontabili interagisce con la capacità degli operatori di riconoscere le differenze nella relazione comunicativa con il minore straniero. In quest’ottica, il percorso previsto per i minori italiani in carcere può essere applicato efficacemente anche agli stranieri. Le particolarità derivanti dalle differenze culturali, tuttavia, impongono la necessità di operare degli adattamenti come, ad esempio, la presenza di un mediatore linguistico - culturale; infatti, in molti casi, dopo la fase dell’immatricolazione, il colloquio di primo ingresso, a carattere soprattutto informativo circa l’organizzazione del contesto, viene svolto con l’ausilio dei mediatori culturali. Per tutti i minori in carcere, oltre alle attività formative, vengono proposte anche attività ricreative come quelle teatrali, attraverso le quali i ragazzi imparano a conoscere meglio se stessi e gli altri in un contesto dove la loro libertà è certamente limitata; imparano ad immedesimarsi nei personaggi e spesso, interpretando il loro ruolo, mettono in scena la loro attuale realtà. In particolare l’attività teatrale sembra quella più adatta ai detenuti stranieri.

Particolarmente interessante è l’esperienza dell’I.P.M. di Treviso con il laboratorio di videoteatro. I giovani ospiti dell’I.P.M. hanno sperimentato l’uso del linguaggio corporeo e vocale, lavorando sulla consapevolezza del movimento fisico. I ragazzi hanno, inoltre, imparato le tecniche della ripresa audiovisiva e del montaggio, fino alla produzione di un breve filmato nel quale i ragazzi hanno messo in scena loro stessi e le loro storie. I video, poi, sono stati utilizzati dagli psicologici dell’istituto per approfondire le conoscenza dei ragazzi, i quali rivedendosi hanno avuto la possibilità di osservare e comprendere qualcosa in più di se stessi.

I ragazzi, lavorando in gruppo, hanno imparato ad autodisciplinarsi, vivendo l’esperienza della disciplina non come un’imposizione, ma come una regola autoprodotta, in cui il gruppo si riconosce e grazie alla quale riesce a funzionare e a lavorare. Da questa esperienza si è riscontrato che i ragazzi stranieri non parlano molto di loro stessi, se non dei reati commessi o della loro vita legata al carcere; tutto il vissuto che ha preceduto la carcerazione, luoghi, affetti, voglie, speranze, lo custodiscono con molta gelosia e riservatezza.

 

La figura del mediatore culturale nel contesto penale minorile

 

La figura del mediatore culturale negli istituti penali dove sono presenti anche gli stranieri può essere determinante, come sostegno per altri operatori nella realizzazione del progetto rieducativo e di risocializzazione dei ragazzi. Il mediatore culturale rappresenta una figura professionale autonoma, che attua un continuo studio ed un’approfondita analisi della cultura di origine dei ragazzi e di quella del paese di accoglienza.

I mediatori socioculturali non sono soltanto operatori che, conoscendo una determinata lingua straniera, svolgono funzione di interpreti; è fondamentale, invece, che sappiano leggere i codici psico-socio-culturali di quella cultura e siano in grado di essere compresi dai ragazzi. È importante infatti conoscere le tradizioni e la cultura d’appartenenza, rituali compresi, per comprendere a fondo i problemi psicologici dei ragazzi.

La mediazione socioculturale mette in evidenza come sia difficile trattare con un ragazzo (italiano o straniero che sia) se non si conosce la sua realtà al di fuori del carcere. Diverse sono le funzioni del mediatore a seconda che intervenga fuori o dentro del carcere. All’interno del Centro di prima accoglienza il mediatore è il primo operatore con il quale il ragazzo entra in contatto, svolgendo la funzione di interprete nell’acquisizione di tutte le notizie necessarie per la sua conoscenza.

Diversamente, per quanto riguarda l’inserimento in strutture comunitarie, l’intervento è più elaborato, perché consiste non solo in un passaggio di informazioni e nell’individuazione della struttura comunitaria più adeguata, ma bensì in un vero e proprio accompagnamento assistito. Nell’istituzione penitenziaria, collaborando con gli altri operatori, il mediatore accompagna il ragazzo straniero nello svolgimento del percorso educativo elaborato per lui.

Al fine di consolidare un rapporto di fiducia, occorre che il mediatore abbia con i ragazzi incontri non solo formali ma anche informali. È utile che sia presente nelle singole attività, che possa mangiare, passeggiare insieme a loro, rispondere alle loro domande. È necessario che sappia individuare tempi e modi opportuni per intervenire sul caso singolo, sul gruppo etnico, su gruppi di cittadinanza diversa o sul collettivo.

 

L’Istituto Penale Minorile di Nisida

 

L’I.P.M. di Nisida è il carcere minorile del territorio napoletano che accoglie detenuti minorenni napoletani e stranieri e che, garantendo la tutela dei diritti dei soggetti minorenni che hanno commesso reati, favorisce l’adattamento all’ambiente offerto e un graduale reinserimento sociale. Ogni operatore lavora con un gruppo di ragazzi selezionati in base alla permanenza e alle attività. Il minore, al suo ingresso in Istituto, viene accompagnato dalla polizia penitenziaria all’ufficio matricola dove l’operatore preposto avvisa l’educatore di turno addetto alla fase di accoglienza e l’Ispettore di Sorveglianza generale. Le operazioni di immatricolazione e di perquisizione personale avvengono nel rispetto della persona e in un locale predisposto. Gli oggetti vengono custoditi a cura dell’ufficio matricola. Entro 24 ore dall’ingresso, il giovane viene accompagnato in infermeria per la prima valutazione clinica (per verificare, tra l’altro se sia tossicodipendente o se abbia fatto uso saltuario di sostanze stupefacenti). Contestualmente gli viene consegnato l’occorrente per l’igiene personale. I bambini fino a 3 anni che entrano in istituto, nel rispetto della legge che consente alle giovani detenute di tenerli con sé, devono essere sottoposti a visita medica pediatrica.

Ad ogni gruppo di ragazzi è assegnata un’équipe di lavoro, composta da educatori, agenti di controllo, psicologi. Gli educatori sono responsabili di tutte le esigenze espresse dai minori sia all’interno che all’esterno dell’istituto. Il ragazzo resta nel gruppo di accoglienza per il tempo necessario ad adattarsi al nuovo ambiente. In questa fase, il ragazzo effettua il colloquio di primo ingresso con l’educatore addetto all’accoglienza, colloquio che serve sia per fornire al giovane informazioni relative all’organizzazione dell’istituto sia per conoscere le sue problematiche personali e familiari, al fine di compilare la scheda di primo ingresso. A sostegno dell’educatore, è presente lo psicologo che assiste il ragazzo con colloqui settimanali.

Il regolamento prevede che i nuovi arrivati devono stare in stanze singole prima di essere inseriti in camera con altri. Per il ragazzo recidivo la fase di accoglienza è più breve poiché l’istituto è già in possesso delle informazioni necessarie. Completata la fase di accoglienza, l’educatore, raccolte le prime informazioni dagli operatori che hanno incontrato il ragazzo nel primo colloquio approfondito, crea ad hoc il percorso educativo per ogni ragazzo, chiarendo le regole di vita comunitaria e le attività libere che dovrà frequentare; provvede, inoltre, all’assegnazione ad un gruppo, in base al percorso previsto per lui e alla durata della sua permanenza.

Per quanto riguarda il gruppo di breve permanenza, le attività prevedono un ciclo di apprendimento scolastico breve, durante il quale non si mira tanto all’istruzione in senso stretto quanto a stimolare le loro capacità e le loro abilità. La gestione del gruppo di lunga permanenza prevede attività finalizzate al conseguimento di qualifiche professionali e di diplomi scolastici; pertanto si svolgono regolari lezioni e laboratori di vario genere. C’è anche un terzo gruppo, per il quale sono previsti benefici che comprendono la partecipazione ad attività esterne, come il lavoro presso officine e ristoranti, per poi rientrare in istituto la sera. Se il ragazzo non rispetta le regole concordate, tutti i benefici concessi gli saranno revocati. L’educatore verifica periodicamente il percorso educativo che verrà modificato per essere adeguato alle graduali trasformazioni nel comportamento del minore. Per quanto riguarda la formazione professionale, i corsi si differenziano in corsi di orientamento e corsi di formazione professionale veri e propri.

I primi, solitamente, sono destinati a giovani la cui permanenza è di breve durata e consistono in attività prettamente manuali; i corsi di formazione professionale sono finalizzati al conseguimento di una qualifica professionale. All’interno del percorso educativo è previsto anche il proseguimento degli studi oltre il ciclo dell’obbligo con la frequenza a corsi esterni (ad esempio, la scuola alberghiera). Per i ragazzi che partecipano alle attività con impegno e costanza vengono previste anche attività ricreative, sportive e teatrali.

Nel carcere di Nisida viene anche assicurato il massimo rispetto della diversità di religione, garantendo la possibilità di celebrare i propri riti. Il carcere è inoltre dotato di una biblioteca dove i ragazzi possono consultare libri e riviste, che possono portare nella propria stanza con il permesso dell’educatore. Durante tutte le attività trattamentali e conviviali, ci sono sempre gli agenti di controllo che esercitano la sorveglianza con molta discrezione, collaborando con gli educatori. La vita all’interno dell’Istituto si svolge secondo orari e mansioni, previsti da un Ordine di Servizio che i ragazzi sono tenuti a rispettare. Durante lo svolgimento delle attività, essi possono rimanere nella propria stanza solo per motivi sanitari o disciplinari, altrimenti la partecipazione è obbligatoria.

Il medico dell’istituto può disporre l’isolamento sanitario del minore per il tempo necessario alla risoluzione del problema di salute da eseguirsi nei locali dell’infermeria. In questo periodo viene assicurata all’infermo assistenza da parte degli infermieri, della polizia penitenziaria e degli educatori. L’isolamento disciplinare, eseguito in una stanza predisposta, comporta l’esclusione dalle attività e dai benefici, come la privazione dei colloqui telefonici e delle visite dei familiari. Durante questo periodo, l’educatore che ha in carico il minore continua a seguire il ragazzo e attraverso i colloqui valuta le sue condizioni.

I colloqui con i familiari si svolgono il sabato dalle ore 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 15.00 e la durata è di 1ora. Per mantenere contatti con la famiglia ai ragazzi viene data la possibilità di effettuare telefonate di 10 minuti al massimo, in un ambiente in cui è presente solo la polizia penitenziaria. Se rispettano le regole e aderiscono al progetto educativo con una partecipazione positiva, i ragazzi vengono gratificati con la concessione di telefonate, colloqui familiari più lunghi, borse di studio, possibilità di trascorrere parte della giornata con i propri familiari e fruizione delle misure alternative alla detenzione. La valutazione dei premi viene effettuata dal Consiglio di disciplina che mensilmente si riunisce al fine di valutare i ragazzi meritevoli di ricompense.

 

Il carcere di Nisida e i minori stranieri

 

Attualmente il 25-30% dei ragazzi ospitati nel carcere di Nisida sono stranieri che provengono, per problemi di sovraffollamento e di opportunità, prevalentemente dagli istituti del Nord in cui la percentuale si aggira intorno al 70%. Si tratta per lo più di stranieri che commettono reati al Nord e che restano a Nisida in "parcheggio" fino all’udienza.

A Nisida su un totale di 37 ragazzi, 12 sono stranieri compresi tra magrebini, albanesi e rom; i rom sono accusati prevalentemente di furto, 2 albanesi di rapina con tentato omicidio, dei 7 magrebini, 5 di spaccio, 1 di rapina aggravata, 1 di tentato omicidio; la maggior parte sono solo indagati, pochi sono condannati e devono scontare una pena di almeno 1 anno.

La maggior parte sono clandestini, giunti in Italia senza permesso di soggiorno, qualcuno ha parenti al Nord, altri hanno legami con organizzazioni criminali. Molti di loro sono stati fermati già altre volte sotto falsa identità.

Per quanto possano essere aggressivi, i ragazzi stranieri hanno all’interno del carcere un comportamento fatto di responsabilità, impegno e rispetto. Hanno, infatti, un atteggiamento corretto nei confronti degli educatori, degli agenti di polizia, rispettano gli orari delle attività, le regole stabilite dal carcere, a differenza di quanto viene rilevato negli istituti del nord dove, essendo la maggioranza, non sempre riescono a controllare la loro aggressività e spesso sono poco obbedienti alle regole.

A Nisida gli stranieri sono inseriti in tutti i laboratori di falegnameria, pittura, ceramica, teatro, nei corsi di computer e, se il ragazzo acquista familiarità con la lingua italiana, può anche frequentare la scuola assieme ai ragazzi italiani. A Nisida, oltre agli educatori, agli assistenti sociali, agli psicologi, da circa un anno sono presenti anche i mediatori culturali che incontrano i ragazzi due volte a settimana. Il loro contributo consiste nel dare ai ragazzi opportunità di confronto su temi della vita quotidiana in Italia e dei loro paesi di origine. Una delle forme di scambio e di conoscenza reciproca è stata realizzata attraverso un laboratorio di cucina italiana e straniera.

L’impegno profuso dagli operatori e dai ragazzi e i risultati positivi che a volte si ottengono vengono purtroppo vanificati dalla mancanza di progetti di continuità che possano offrire opportunità di inserimento nel mondo del lavoro e nella vita sociale. La conclusione, dunque, è che il carcere rappresenta una misura di comodo ma non certamente la più efficace.

 

Percorsi di educazione con i minori stranieri

 

Al fine di elaborare efficaci percorsi di rieducazione dei ragazzi stranieri in carcere, ma anche per prevenire comportamenti devianti, occorre interrogarsi sui modelli di educazione più consoni ad affrontare la problematica della diversità culturale.

Nel momento in cui entra nel nuovo paese, lo straniero che sia adulto o minore, subisce uno shock culturale, ha perso le sue relazioni sociali significative, è impossibilitato ad utilizzare le sue conoscenze nel nuovo contesto. In ambito scolastico, per esempio, il minore vive molte tensioni, la sua identità è messa a dura prova, le competenze acquisite nel suo paese di origine non vengono riconosciute, si percepisce incapace, incompetente, può anche arrivare a rifiutare la scuola come estremo tentativo di difesa della propria cultura e della propria identità.

Ma se gli enti educativi attuano le giuste metodologie, il minore avrà modo di inserirsi più facilmente nel nuovo contesto. La pedagogia, col tempo, ha maturato una maggiore sensibilità verso il tema delle differenze culturali e il problema dell’incontro-scontro tra le culture. Nel passato, elevare la propria cultura a modello universale comportava l’esclusione di tutte le altre forme di cultura che venivano ritenute inferiori. Successivamente, le politiche democratiche hanno prestato più attenzione ai diritti delle minoranze etniche e linguistiche, salvaguardando le loro tradizioni culturali. Le stesse istituzioni scolastiche non hanno mai affrontato i problemi relativi alle diversità culturali, mirando all’assimilazione delle minoranze nella cultura dominante, imponendo la rinuncia all’identità culturale.

Successivamente, i forti tassi di insuccesso scolastico dei figli di immigrati negli anni 70 fanno sì che educatori ed insegnanti inizino ad occuparsi delle diversità culturali nella convinzione, tuttavia, che l’insuccesso scolastico fosse dovuto alla carenza di abilità di base e alle competenze linguistiche; affrontavano questi problemi con interventi di tipo compensativo, per facilitare l’inserimento nella scuola attraverso programmi di apprendimento della seconda lingua. Per quanto più aperto verso gli immigrati, questo atteggiamento era ancora fortemente legato ad una logica assimilatrice e paternalistica.

Con lo stabilizzarsi del fenomeno, gli immigrati rivendicarono la propria specificità culturale; vennero, perciò, istituite scuole etniche monoculturali e corsi di lingua per le singole etnie, col rischio di chiudersi nella difesa delle proprie tradizioni, rinunciando ad avere scambi culturali e sociali. Fallito così l’approccio assimilativo-compensativo, che nega la diversità imponendo all’altro di rinunciare alle proprie caratteristiche, fallito anche l’approccio multiculturale, che riconosce le diversità come alterità da affermare con l’isolamento del diverso, si ipotizza il modello fondato sulla pluralità. Si lavora per la costruzione di una "pedagogia dell’accoglienza", con il fine di attuare dinamiche di incontro tra soggetti diversi, di una "educazione all’alterità", combattendo contro il pregiudizio razziale e attuando strategie fondate sull’integrazione.

L’approccio transculturale rifiuta di considerare le culture come elementi autonomi predefiniti e insiste su quei saperi traversali, scoprendo così anche valori comuni. La scuola è il primo ambito nel quale i bambini portano e vivono le loro differenze, che, a seconda dell’atteggiamento e dell’apertura della scuola stessa, possono diventare risorse e arricchimento per tutti. La scuola, a questo punto presenta caratteristiche specifiche facendo sia attenzione all’originalità sia accogliendo "il dialogo" in una situazione di uguaglianza.

Secondo Andrea Canevaro "poiché arrivano persone da paesi lontani, la scuola può accogliere con molta attenzione alla provenienza oppure può accogliere con molta attenzione alla presenza". Secondo questo studioso, al fine di operare un efficace intervento con i ragazzi che provengono da altri paesi le due dimensioni sono ugualmente importanti. Occorre evitare, in un primo momento, di sottolineare la loro differenza culturale e geografica, che può essere percepita come un rifiuto, dando invece più importanza alla loro "presenza", per poi approfondire, una volta instaurato un solido rapporto di fiducia, la conoscenza della loro "provenienza".

 

 

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